Banda della Magliana
organizzazione criminale italiana di stampo mafioso originaria del Lazio / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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La banda della Magliana era un'organizzazione criminale mafiosa nata ed operante a Roma e nel resto del Lazio, attiva tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90. Il nome, attribuito dalla stampa dell'epoca, deriva dall'omonimo quartiere romano nel quale risiedevano alcuni dei fondatori e dei membri, sebbene altri fossero originari di altre zone della capitale; l'organizzazione si era infatti estesa su tutta la città, potendo contare sulla connivenza di malavitosi di alto livello. È considerata la più potente e violenta organizzazione criminale che abbia mai operato a Roma.
Nata nella seconda metà degli anni settanta, fu la prima organizzazione criminale romana a unificare in senso operativo la frastagliata realtà della malavita locale, costituita fino ad allora da piccoli gruppi di criminali detti "batterie" o "paranze" dediti a crimini specifici, che imponeva ai propri membri un vincolo di esclusività, che vietava potessero dedicarsi a imprese criminali che non fossero concordate con gli altri, e di reciprocità, dividendo i proventi dei crimini in parti uguali anche fra i membri che non partecipavano (in romanesco: "stecca para pe' tutti").
Le attività criminali andavano dai sequestri di persona al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, dalle rapine al traffico di droga; col tempo la banda estese la propria rete di contatti alle principali organizzazioni criminali italiane, da Cosa nostra alla camorra, nonché a esponenti della massoneria in Italia, oltre a numerose collaborazioni con elementi del terrorismo nero e della finanza.
La storia dell'organizzazione è fatta di legami mai del tutto chiariti con alcuni partiti politici e con servizi segreti quali SISMI e SISDE e con l'organizzazione Gladio[1] e di coinvolgimenti in numerose vicende della storia italiana: il caso Moro[2], l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli[3], i depistaggi nella strage di Bologna[4], l'omicidio del banchiere Roberto Calvi[5], le sparizioni di Mirella Gregori[6] e di Emanuela Orlandi.[7]
Il contesto
«Per cogliere la genesi di questa associazione occorre andare indietro nel tempo, sino all'ultimo scorcio degli anni settanta. A quel tempo, a Roma, si registrò la tendenza degli elementi più rappresentativi della malavita locale a costituirsi in associazione. Sino ad allora, i Romani, dediti ai reati contro il patrimonio, quali furti, rapine ed estorsioni, avevano consentito, di fatto, a elementi stranieri, quali, ad esempio i Marsigliesi, di gestire gli affari più lucrosi, dal traffico degli stupefacenti ai sequestri di persona. Una volta presa coscienza della forza derivante dal vincolo associativo, fu agevole per i Romani riappropriarsi dei commerci criminali, abbandonando definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in precedenza»
(Ordinanza di rinvio a giudizio[8])
La struttura della malavita romana storicamente era sempre stata priva di un'organizzazione verticistica o piramidale, mantenendo costantemente nel tempo la dispersione dei suoi componenti in una moltitudine di piccoli gruppi da quattro o cinque membri al massimo, ognuno padrone del proprio territorio, le cui entrate finanziarie erano dovute a piccoli traffici, riciclaggio, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando di sigarette, furti e rapine.
Tale consuetudine cambiò solo all'inizio degli anni settanta quando, con l'avvento del clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer trasferitisi nella capitale per dare vita a un redditizio business dello spaccio di eroina e, soprattutto, dei sequestri di persona, si determinò un deciso cambiamento dei rapporti di forze all'interno della piccola e frammentata malavita capitolina che vide i Marsigliesi imporre la loro legge ed esercitare un certo controllo sul territorio, facendo fare così un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza di borgata romana.
Nel 1976 gli arresti dei principali boss del clan francese sancirono la definitiva uscita dalla scena criminale romana dei Marsigliesi. Tale vuoto rese possibile l'avvento di piccoli boss romani che, fiutato l'affare, iniziarono a organizzarsi in alleanze (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”, un nucleo di quattro o cinque elementi che si occupava di controllare la propria zona, nella quale era detenuto il potere esclusivo) coinvolgendo malavitosi provenienti dai vari quartieri capitolini come Trastevere, Testaccio, Ostiense e Magliana.[9]
Fu questa la situazione nella quale Franco Giuseppucci, detto er Fornaretto e in seguito ribattezzato er Negro, un buttafuori di una sala corse di Ostia[10] con molte conoscenze nell'ambiente della mala romana, doti di leadership e grande carisma, iniziò a compiere i primi piccoli reati e a comparire nei verbali della polizia. Vista la sua intraprendenza, considerato persona affidabile dai malavitosi più esperti, spesso e volentieri le varie batterie di rapinatori affidavano proprio a lui tramite una ragazza, Antonella Rossi, le loro armi, che Giuseppucci custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo.[10] Quando però, il 17 gennaio 1976, tale nascondiglio venne scoperto dai Carabinieri, Giuseppucci fu arrestato ma, grazie al vetro rotto della roulotte, in sede processuale venne a mancare il presupposto probatorio della sua consapevolezza che all'interno della roulotte fossero nascoste delle armi e la pena fu contenuta a qualche mese di detenzione[10].
«Negli anni settanta, nella zona dell'Alberone si riunivano varie "batterie" di rapinatori, provenienti anche dal Testaccio. Ne facevano parte, oltre ad alcune persone che non ricordo, Maurizio Massaria, detto "rospetto", Alfredo De Simone, detto "il secco", i tre "ciccioni", cioè Ettore Maragnoli, Pietro "il pupo", e mi sembra Luciano Gasperini - questi tre, persone particolarmente riconoscibili per la mole corporea, svolgevano più che altro il ruolo di basisti e di ricettatori - Angelo De Angelis, detto "il catena", Massimino De Angelis, Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Mariano Castellani, Alessandro D'Ortenzi e Luigi Caracciolo, detto "gigione". Tutti costoro affidavano le armi a Franco Giuseppucci, chiamato allora "il fornaretto", ancora incensurato e che godeva della fiducia di tutti. Questi le custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà che teneva parcheggiata al Gianicolo. All'epoca frequentavo l'ambiente dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del Portuense. Nel corso del tempo si erano cementati i rapporti tra me, Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti, ma non costituivamo quella che in gergo viene chiamata "batteria", cioè un nucleo legato da vincoli di esclusività e solidarietà, in altre parole non ci eravamo ancora imposti l'obbligo di operare esclusivamente tra noi, né di ripartire i proventi delle operazioni con chi non vi avesse partecipato. In particolare, negli anni precedenti il 1978, ognuna delle suddette persone operava o da sola ovvero aggregata in gruppi più piccoli o diversi.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[11])
L'unione delle batterie
Giuseppucci, una volta scarcerato, riprese la sua attività di "custode" per conto terzi, ma subì il furto del suo maggiolino Volkswagen, a bordo del quale si trovava una borsa piena di armi appartenente a Enrico De Pedis (detto Renatino, un passato da scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine a capo di una batteria di malavitosi dell'Alberone). Giuseppucci, a seguito di alcune ricerche, venne a sapere che le armi erano entrate in possesso di Emilio Castelletti, un rapinatore che all'epoca operava in una batteria che aveva come punto di ritrovo un bar sito in via Gabriello Chiabrera, nel quartiere San Paolo, e capeggiata da Maurizio Abbatino (detto Crispino per i suoi capelli ricci e noto per il sangue freddo nelle rapine e per l'abilità come pilota di auto), e fu a questi che Giuseppucci si rivolse per reclamarne la restituzione.
«Era accaduto che Giovanni Tigani, la cui attività era quella di scippatore, si era impossessato di un'auto Vw "maggiolone" cabrio, a bordo della quale Franco Giuseppucci custodiva un "borsone" di armi appartenenti a Enrico De Pedis. Il Giuseppucci aveva lasciato l'auto, con le chiavi inserite, davanti al cinema "Vittoria", mentre consumava qualcosa al bar. Il Tigani, ignaro di chi fosse il proprietario dell'auto e di cosa essa contenesse, se ne era impossessato. Accortosi però delle armi, si era recato al Trullo e, incontrato qui Emilio Castelletti che già conosceva, gliele aveva vendute, mi sembra per un paio di milioni di lire. L'epoca di questo fatto è di poco successiva a una scarcerazione di Emilio Castelletti in precedenza detenuto. Franco Giuseppucci non perse tempo e si mise immediatamente alla ricerca dell'auto e soprattutto delle armi che vi erano custodite e lo stesso giorno, non so se informato proprio dal Tigani, venne a reclamare le armi stesse. Fu questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso. La "batteria" si costituì tra noi quando ci unimmo, nelle circostanze ora riferite, con Franco Giuseppucci. Di qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e di solidarietà»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[11])
Dall'incontro tra Giuseppucci, Abbatino e De Pedis nacque l'idea di abbandonare definitivamente sia il ruolo marginale al quale erano stati relegati in passato, che le divisioni di quartiere, allo scopo di unire le sorti e appropriarsi delle attività criminali capitoline.[10] Quella che in un primo tempo nacque come una semplice "batteria", una volta presa coscienza della propria forza, si trasformò molto velocemente in una vera e propria "banda" per il controllo dei traffici illeciti romani che, da lì a poco, verrà conosciuta come Banda della Magliana.
«L'aver costituito una "batteria" - parlo di "batteria" perché in un primo momento ci dedicavamo quasi esclusivamente alle rapine - comportò che ognuno di noi apportasse le armi di cui disponeva, che venivano custodite inizialmente da incensurati ai quali ci rivolgevamo per questioni di sicurezza e di fiducia o da familiari o in appartamenti disabitati di cui alcuni di noi avevano la disponibilità. Nel frattempo la "batteria" si trasformò in "banda" e si allargò, come ho già riferito, integrando altri partecipi - come ad esempio Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia e altri gruppi come quello di Acilia e i "testaccini", talché si rese necessario provvedere altrimenti alla custodia delle armi. La differenza tra "batteria" e "banda", oltre che nel diverso numero dei partecipi, minore nella prima rispetto alla seconda, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi criminosi della "banda", rispetto alla "batteria", la quale si dedica alla commissione di un unico tipo di reati, ad esempio le rapine. La "banda", peraltro, comporta l'esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, vincoli che si traducono in obblighi maggiori di solidarietà tra gli associati, i quali sono, pertanto, maggiormente impegnati e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare esecuzione alle stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi di cui ho parlato, riconducibili alla banda, in quanto funzionali ad assicurarsi il rispetto da parte delle altre organizzazioni operanti su Roma e a imporre un predominio il più possibile incontrastato sul territorio, vennero di volta in volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento dell'esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capacità per assicurarne il successo con il minor rischio sia personale che collettivo, soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l'impunità. Questo comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tutti parimente motivati ad aiutare chi fosse stato colto in flagranza o comunque arrestato o incriminato, sia a limitare i danni processuali, sia ad avere la tranquillità di assistenza a sé e ai familiari. Inoltre, una volta costituiti in banda, sempre al fine di garantirsi l'impunità, ci imponemmo l'obbligo di non avere stretti legami di tipo operativo con gruppi esterni, che non fossero funzionali all'accrescimento dei profitti e dello sviluppo delle attività programmate, il che, unitamente alla pari compromissione, assicurava la massima impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno poteva agevolmente venire a conoscere i particolari delle azioni a noi riconducibili»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[11])
Ognuno dei tre portò nella nuova banda, oltre che la propria esperienza nel crimine, le proprie conoscenze, nonché le armi da utilizzare nelle azioni, oltre a tutta una serie di fidati sodali e compagni di vecchie batterie che andarono così a formare le varie anime della Banda. Nei testaccini di Giuseppucci e De Pedis, batteria che si muoveva tra i quartieri di Trastevere e Testaccio, per esempio, operavano l'amico di sempre Raffaele Pernasetti detto er Palletta, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati[12], mentre tramite Maurizio Abbatino, che invece faceva capo proprio alla zona della Magliana, arrivarono nel gruppo Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti e in seguito anche Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia.
A questi due gruppi se ne aggiunse poi un terzo, quello proveniente dalla zona di Ostia e Acilia capeggiato da Nicolino Selis, detto il Sardo, che già da qualche anno aveva subito varie detenzioni ed era già una figura di spicco nel panorama criminale della zona Sud della Capitale, vantando numerosi contatti con elementi di spicco della malavita organizzata e una stretta amicizia con il boss campano Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, conosciuto durante la detenzione in carcere. Proprio tra le sbarre di Regina Coeli, dov'era recluso per tentato omicidio e furto nel 1975, assieme a un altro detenuto comune, Antonio Mancini (detto Accattone), Selis pensò di mettere in pratica per Roma lo stesso tipo di operazione che Cutolo stava realizzando a Napoli con la NCO. Un grande progetto criminale, un'organizzazione malavitosa ben strutturata per la gestione dello spaccio delle sostanze stupefacenti, con lo scopo ulteriore di escludere dal territorio infiltrazioni di altre bande di diversa provenienza e gettare così, dall'interno dell'istituto carcerario, le basi della trasformazione organizzativa della mala romana, cosa che poi effettivamente avvenne, una volta liberi, con quel "patto" che, assieme agli altri due gruppi criminali, diede forma alla banda.
«Intorno al 1975, mentre ero detenuto, insieme a Nicolino Selis, Giuseppe Magliolo e Gianni Girlando, nel carcere di Regina Coeli, si parlava del fatto che a Napoli, tal Raffaele Cutolo - allora il personaggio non era noto come poi lo sarebbe divenuto in seguito - stava mettendo in piedi un'organizzazione criminale, allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con il Selis, Magliolo e Girlando erano presenti, ma non si tenevano in altissima considerazione le loro opinioni - si decise di tentare su Roma la stessa operazione che Raffaele Cutolo stava tentando su Napoli... Nicolino Selis, il quale aveva una grande stima per Raffaele Cutolo e per questo era portato a emularlo, aveva trascorso diversi anni in carcere, pertanto, sebbene godesse di una notevole reputazione all'interno del mondo penitenziario, non aveva, però, grandi conoscenze all'esterno. Da parte mia, io venivo da tre anni d'intensa attività criminale e le mie conoscenze all'esterno del carcere erano più fresche e attuali, sicché, progettando un'organizzazione similare a quella che stava mettendo in piedi Raffaele Cutolo, avevo maggiori possibilità di indicare persone che potessero essere in grado e disposte a farne parte.»
(Interrogatorio di Antonio Mancini del 29 aprile 1994[13])
Diversi uomini della batteria di Selis furono naturalmente coinvolti in questo nuovo sodalizio, come per esempio suo cognato Antonio Leccese, Giuseppe Magliolo detto il Killer, Fulvio Lucioli (detto il Sorcio), Giovanni Girlando (il Roscio), Libero Mancone, i fratelli Giuseppe (il Tronco) e Vittorio Carnovale (detto il Coniglio) e Edoardo Toscano (Operaietto).[12] Ognuno di loro riunirà le proprie conoscenze e, una volta usciti dal carcere, essi si uniranno ai testaccini e ai maglianesi per realizzare così il progetto criminale ideato dal "Sardo" per la conquista di Roma.
«La Banda della Magliana è nata in questa maniera. È nata in carcere da un'idea di Nicolino Selis con il contributo mio che ero stato appena arrestato. Avevo avuto qualche anno di criminalità alta con rapine e spaccio di droga. Selis, del quale ero molto amico (lo aiutavo finanziariamente quando ero fuori), mi confidò che voleva organizzare un'organizzazione criminale a Roma a immagine e somiglianza della camorra di Cutolo di cui lui era molto amico se non figlioccio. Durante la detenzione c'è stata una fuga da Regina Coeli e la parte di quella che è poi diventata Magliana (Toscano, Selis eccetera) sono stati appoggiati all'esterno dal gruppo di Giuseppucci. All'interno del carcere noi avevamo un nemico che si chiamava Franco Nicolini. All'esterno nel gioco d'azzardo e dei cavalli Giuseppucci aveva un nemico, Nicolini. Uniamo le forze e lì si forma la Banda.»
(Ricostruzione di Mancini.[14])
Il sequestro del duca Grazioli
Il debutto come banda vera e propria, che fino a quel momento aveva vissuto essenzialmente solo di rapine, fu il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere[15].
«Fu Franco Giuseppucci a proporci il sequestro del duca Massimiliano Grazioli, operazione alla quale aderimmo e che effettivamente portammo a compimento. Giuseppucci aveva avuto a sua volta l'indicazione dell'ostaggio da tal Enrico (Mariotti, n.d.r.) gestore di una sala corse a Ostia, il quale frequentava il figlio del duca Massimiliano con cui condivideva la passione per le armi. Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente il sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, con il predetto "Bobo", nonché con altra persona, di cui non ricordo le generalità e dall'altro lato, con una banda di Montespaccato, della quale ricordo facevano parte Antonio Montegrande, siciliano»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[16])
La sera del 7 novembre 1977, mentre lasciava la tenuta nei pressi di Settebagni a bordo della sua BMW 320, e ancora entro la sua proprietà, il duca venne bloccato su via della Marcigliana, a poco meno di 2 km dalla confluenza della via Salaria, da due auto: una Fiat 131 guidata da Maurizio Abbatino e un'Alfetta con al volante Renzo Danesi e sulle quali c'erano anche Giuseppucci, Paradisi, Piconi, Castelletti e Colafigli che, incappucciati, lo fecero scendere a forza per poi caricarlo a bordo di una delle auto e successivamente trasportarlo in diversi nascondigli provvisori. Inizialmente venne rinchiuso in un appartamento di Primavalle, poi trasferito in una località sull'Aurelia e infine nel napoletano[17].
A causa dell'inesperienza nel campo però la banda non riuscì a gestire al meglio il sequestro e dovette chiedere aiuto a un altro gruppo criminale, una piccola banda di Montespaccato. La prima telefonata di richiesta del riscatto arrivò alla famiglia del duca un'ora dopo il sequestro: "Preparate dieci miliardi". La banda era infatti a conoscenza delle disponibilità monetarie dei Grazioli che, oltre a qualche proprietà, come per esempio l'ampia tenuta di Settebagni, solo qualche tempo prima aveva venduto il quotidiano romano Il Messaggero[18]. Nei giorni successivi le trattative continuarono frenetiche, con la famiglia che chiedeva continuamente prove sulle condizioni di salute del rapito. I rapitori inviarono loro una foto Polaroid nella quale l'ostaggio teneva in mano una copia del giornale fiorentino La Nazione acquistato appositamente in Toscana per depistare le indagini.
Le richieste dei sequestratori scesero poi di molto e, il 14 febbraio 1978, arrivò il messaggio che stabiliva il contatto finale per il pagamento. Il figlio del duca, Giulio Grazioli, avrebbe dovuto far pubblicare, sul quotidiano romano Il Tempo, un annuncio di accettazione delle condizioni dei sequestratori: «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, lire 1500 (a significare un miliardo e mezzo, ndr)».[9] Il pagamento avvenne attraverso una modalità simile a quella di una caccia al tesoro e con tutta una serie di complesse segnalazioni e di messaggi lasciati nei vari punti di Roma, per evitare che la famiglia potesse essere seguita dalle forze dell'ordine. Alla fine di un lungo tragitto, il figlio del duca Grazioli consegnò la borsa con il denaro lanciandola da un ponte dell'autostrada Roma-Civitavecchia dove, a raccoglierla c'erano Danesi, Piconi e Castelletti.[17]
Il frutto del riscatto venne "steccato" in parti eguali tra i vari gruppi interni alla banda e poi riciclato in Svizzera tramite Salvatore Mirabella, un milanese della banda di Francis Turatello e inserito nel giro delle bische clandestine.
«La somma del riscatto venne ripartita in ragione del cinquanta per cento a quelli di Montespaccato, che avevano in custodia l'ostaggio, e del cinquanta per cento a noi. Ognuno dei due gruppi doveva detrarre dalla propria parte la "stecca", rispettivamente, per il basista Enrico e per il telefonista. Le quote spettanti a ciascun gruppo si ridussero del dodici per cento, costo del cambio delle banconote in franchi svizzeri. Debbo ancora aggiungere che Enzo Mastropietro, il quale aveva partecipato alla preparazione del sequestro, non poté partecipare però all'esecuzione in quanto poco prima era stato arrestato. Ciò nonostante, venne a lui riservata una quota di lire venti milioni e una quota di lire quindici milioni venne riservata a Enrico De Pedis, il quale come ho già detto era anch'egli detenuto, in considerazione dei suoi stretti rapporti con Franco Giuseppucci.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[16])
La famiglia Grazioli attese a lungo e invano il promesso rilascio dell'ostaggio. Quello che non potevano allora sapere era che, durante la prigionia, era avvenuto un imprevisto decisivo: uno dei componenti di Montespaccato, infatti, si era fatto vedere in faccia dal duca e a causa di questo contrattempo l'ostaggio venne ucciso e il suo corpo mai fatto ritrovare[17].
«L'ostaggio non venne mai rilasciato, sebbene al momento del pagamento del riscatto fosse ancora in vita. Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che aveva visto in faccia uno dei carcerieri di tal che ci fu detto che non si poteva fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la quale non fu nostra, non ci opponemmo, in quanto l'individuazione dei complici poteva significare anche la nostra individuazione. Pertanto il Montegrande e compagni diedero corso all'esecuzione alla quale non partecipammo. Nulla sono in grado di riferire di preciso circa le modalità esecutive dell'omicidio. So soltanto che il fatto è avvenuto nel napoletano, dove l'ostaggio era stato trasferito in una casa di campagna appartenente a familiari di persone del gruppo di Montespaccato, in quanto anche la seconda 'prigione' di Roma era diventata insicura per il protrarsi della durata del sequestro. So altresì che il cadavere venne sepolto, ma non sono in grado di dire dove.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[16])
Nonostante le cose non si fossero svolte tutte come la banda le aveva previste, anche a causa della morte dell'ostaggio, il sequestro si rivelò un vero e proprio successo per il neonato gruppo. Aveva contribuito a cementare ulteriormente i rapporti al suo interno, confermando l'idea che unire le forze di più batterie non era solo possibile ma che avrebbe portato loro enormi e ulteriori vantaggi.
L'omicidio di Franco Nicolini e la collaborazione con Cutolo
«"Roma è nelle nostre mani", si dicevano l'un l'altro i nuovi boss, spavaldi e col sorriso sulle labbra, interessati solo ad allargare il controllo sulla città e a entrare in nuovi affari, incuranti di chi ci fosse dietro. La droga poteva arrivare e andare indifferentemente a uomini della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, dell'eversione nera, di organizzazioni mediorientali. Agli ex rapinatori cresciuti nelle batterie di quartiere, passati al giro più grosso delle bische e delle scommesse clandestine e diventati in pochi anni impresari di morte attraverso il traffico di droga, non interessava servire ed essere serviti da questa o quella banda.»
(da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi)
La ragione per la quale un gruppo così disomogeneo e numericamente modesto riuscì a raggiungere per la prima volta il pressoché totale controllo delle attività criminali in una metropoli come Roma è da ricercarsi essenzialmente nei metodi utilizzati e, primo tra tutti, quello degli omicidi. Tale pratica, mai troppo utilizzata in passato da parte della mala romana, venne utilizzata dalla banda al fine di estendere il suo controllo su tutta la città, attraverso la sistematica eliminazione fisica degli avversari, intendendo in questo modo ottenere il risultato ulteriore di intimorire chi avesse voluto interferire con i suoi progetti di crescita. Questa situazione di precario equilibrio generava nel sodalizio il timore che qualcuno dei vari boss potesse prendere il sopravvento rispetto agli altri, per cui esisteva la regola che ogni azione rilevante dovesse essere approvata dai vari gruppi.
Il debutto di fuoco fu l'uccisione di Franco Nicolini, detto Franchino er Criminale, all'epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine dell'ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali suscitarono ben presto l'interesse della nascente banda, anche se il motivo primario del suo omicidio fu da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis nel corso di un periodo di comune detenzione; questo avvenne nel 1974 quando, durante una rivolta dei detenuti, Nicolini si schierò dalla parte delle guardie carcerarie per ristabilire l'ordine e, agli insulti di Selis, rispose schiaffeggiandolo in pieno volto di fronte agli altri detenuti.
«Alla richiesta di meglio precisare il movente dell'omicidio di Franco Nicolini, ribadisco quanto in proposito ho già dichiarato nei miei precedenti interrogatori: chi aveva motivi per volere la morte di "Franchino il Criminale" era Nicolino Selis, il quale ci chiese di aiutarlo nell'impresa per saggiare la nostra affidabilità nel momento in cui vi era la prospettiva di realizzare la fusione tra il nostro e il suo gruppo. All'epoca, stante l'interesse alla integrazione dei due gruppi, non chiedemmo al Selis di spiegarci puntualmente le ragioni per cui voleva commettere l'omicidio, d'altra parte il Selis ci disse che si trattava di un suo fatto personale e ci era noto, al riguardo, che tra il Nicolini e il Selis, vari anni prima, durante una comune detenzione dei due, vi erano stati dei violenti screzi, nel carcere di Regina Coeli. Al progetto del Selis di uccidere il Nicolini, non solo non ci opponemmo, ma lo aiutammo, sia per le ragioni sopra esposte, sia perché anche il Giuseppucci vi era in qualche modo interessato, essendo disturbato dalla presenza del Nicolini presso l'ippodromo di Tor di Valle. Per maggior chiarezza, il Giuseppucci riusciva quasi sempre a condizionare l'andamento di qualche corsa, il Nicolini, da parte sua, essendo un allibratore di un certo calibro e avendo un sostanziale controllo dell'ippodromo, spesso intralciava i programmi del primo»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino dell'11 febbraio 1993[19])
La sera del 25 luglio del 1978, nel momento in cui la gente cominciava a defluire dall'ippodromo dopo l'ultima corsa, nel parcheggio antistante due auto attesero l'arrivo di Nicolini: Renzo Danesi e Maurizio Abbatino erano alla guida rispettivamente, di una Fiat 132 e di una Fiat 131, a bordo delle quali si trovavano Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli e Nicolino Selis, mentre Franco Giuseppucci rimase in attesa all'interno dell'ippodromo, allo scopo di farsi notare dalla gente per costruirsi l'alibi; Nicolini, giunto nel parcheggio nei pressi della sua Mercedes grigia, venne avvicinato da Toscano e Piconi e freddato all'istante con nove colpi di pistola.
La decisione di uccidere Nicolini venne presa dalla banda anche in virtù del beneplacito, ottenuto dal capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, il quale, appena evaso dall'ospedale psichiatrico di Aversa, nel febbraio del 1978 organizzò un incontro con Nicolino Selis allo scopo di trovare, tra i rispettivi gruppi, una strategia compatibile con gli obiettivi di entrambi, nominando così “il Sardo” suo luogotenente nella piazza romana. All'incontro, che avvenne in un albergo di Fiuggi dove, secondo la deposizione del pentito Abbatino, Cutolo disponeva di un intero piano per sé e i propri guardaspalle, parteciparono anche Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segnò un momento decisivo nella storia della banda che, tra le sue varie attività, ebbe modo di attivare un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze stupefacenti da distribuire poi nella capitale[20]. Cutolo come primo favore chiese di far sparire una BMW 733 sporca di sangue che verrà portata allo sfascio da Giuseppucci e Danesi e nella quale il boss aveva ucciso due persone poi gettate in mare.
«Eravamo noi della Magliana a tenere i rapporti con Raffaele Cutolo, mentre il gruppo di De Pedis era più vicino ai siciliani. Prima a Stefano Bontate e poi a Pippo Calò. Con i calabresi - i Piromalli e i De Stefano c'era una collaborazione ... ma non ricordo rapporti di affari. Ci facilitavano i contatti con persone importanti»
(Rivelazioni di Maurizio Abbatino[21])
L'eliminazione di Nicolini, oltreché a cementare i rapporti all'interno dei vari gruppi della Banda, si rivelò comunque una tappa fondamentale per la crescita della stessa che, da quel momento in avanti, ebbe via libera per poter gestire un'ottima fonte di guadagno[22]. Da quel momento, infatti, i rapporti di forza all'interno della malavita romana subirono un cambiamento definitivo che vide la banda in una posizione predominante e che perdurò negli anni successivi. L'ascesa degli uomini della Magliana, infatti, avvenne in modo molto rapido e in poco tempo, dalle semplici rapine, le attività criminali della stessa si spostarono verso reati più redditizi legati ai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, ai colpi ai caveau e soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. I vari componenti della banda, comunque, anche quando il loro potere crebbe fino ad assumere il controllo completo delle attività illecite cittadine, continuarono, nonostante le ricchezze acquisite e il conseguente salto di qualità nella scala sociale (da piccoli malavitosi di quartiere ad affaristi del crimine), a partecipare personalmente alle azioni, rimanendo sostanzialmente degli operai del crimine.
Il 27 agosto venne ucciso Sergio Carozzi, un commerciante di Ostia che aveva osato denunciare per estorsione Nicolino Selis, in quei giorni uscito dall'ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino con un permesso premio; a crivellare di colpi Carozzi, secondo il pentito Maurizio Abbatino, fu Edoardo Toscano mentre suoi complici furono Marcello Colafigli, Fabrizio Selis (fratello di Nicolino), Renzo Danesi, Enzo Mastropietro e Libero Mancone.[23]
Il traffico di stupefacenti
L'organizzazione dello spaccio della droga e la sua diffusione capillare nelle varie zone della città avveniva attraverso una rete di spacciatori di medio livello, denominati cavalli, collegati a loro volta a piccoli spacciatori denominati formiche. Tale struttura venne spiegata da Antonio Mancini durante un interrogatorio: «Già nel 1978, c'eravamo estesi su tutta Roma. L'approvvigionamento della droga non era più un problema.»[8]
Tutti gli spacciatori rispondevano, però, ad un referente della banda che si incaricava, dopo avere ricevuto la droga dai canali della criminalità organizzata o dall'estero, di distribuirla al livello inferiore e di ritirare i proventi della vendita della stessa, imponendo una sorta di monopolio della droga, attraverso il quale si controllava l'approvvigionamento e lo smercio su tutta Roma. «Battevamo la piazza, per imporre il nostro prodotto agli spacciatori» dichiarò poi il pentito Abbatino, interrogato il 25 novembre 1992 «promettendo e garantendo loro la protezione nei confronti dei precedenti fornitori. In altri termini, mettevamo la concorrenza nelle condizioni di non poter più operare, se non facendo capo a noi.»[9]
Nell'interrogatorio reso il 23 maggio 1994, lo stesso Mancini, confermò questo modus operandi dell'organizzazione: «il sistema funzionava in questo modo: costituito il gruppo e avute le entrature per l'approvvigionamento della droga, si prendeva contatto con coloro i quali in qualche modo operavano nel settore; si faceva loro una proposta che non potevano rifiutare, di prendere la droga da o tramite noi, di tal che, accettando, entravano automaticamente a far parte del nostro gruppo. Nessuno si rifiutò mai di accedere alle nostre proposte, in quanto se fosse accaduto il riluttante era un uomo morto.»[8]
Allo scopo di avere un controllo capillare del territorio si rese necessario una divisione dello stesso in varie zone presidiate dai vari gruppi della banda.
- La zona di Testaccio-Viale Marconi, quartier generale della banda, era di competenza di Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci e veniva gestita tramite l'apporto dei fratelli Francesco e Domenico Zumpano.
- Le zone di Trastevere, Torpignattara e Centocelle erano controllate da Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli, Giorgio Paradisi, Fabiola Moretti e Angelo Cassani.
- Le zone della Magliana, del Trullo del Portuense e dell'Eur erano controllate da uomini di Maurizio Abbatino, quali Enzo Mastropietro, Roberto Giusti, Massimo Sabbatini, Renzo Danesi e Giovanni Piconi.
- La zona di Ostia era controllata da Nicolino Selis, che si avvaleva di uomini come Paolo Frau, Ottorino Addis, Antonio Leccese, Fulvio Lucioli e Giovanni Girlando.
- La zona di Acilia era controllata da Edoardo Toscano, Libero Mancone, i fratelli Giuseppe e Vittorio Carnovale e Roberto Frabetti.
- Le zone della Garbatella, Tor Marancia, Montagnola e San Paolo erano controllate da Claudio Sicilia, Gianfranco Sestili e Marcello Colafigli.
- Le zone di Montesacro, Val Melaina e San Basilio erano controllate da Antonio Mancini
- Infine, il Prenestino e Villa Gordiani dal Pantera Gianfranco Urbani e nelle zone del Tufello-Alberone la gestione era affidata a Roberto Fittirillo e ai tre fratelli Giordani (detti i Sandroni).
«Il mercato romano, fermo restando che la droga che si vendeva era ovunque la stessa, dal momento che le forniture erano comuni a tutti, era ripartito in zone, controllate ovviamente da persone diverse, a seconda dell'influenza, maggiore o minore che si aveva sulle singole aree territoriali. A tal proposito, esisteva un accordo tra tutti, nel senso che ciascuno doveva curare esclusivamente la distribuzione nel proprio territorio senza invadere quello assegnato agli altri. Si trattava di regole piuttosto ferree e che tutti si era tenuti a rispettare. So' questo perché, per quanto riguardava me avevo assegnato il territorio di Trastevere, che era comunque uno dei più ricchi: una volta che io sconfinai, effettuando una distribuzione alla Garbatella, dove il territorio era assegnato a Manlio Vitale e ad altri, Danilo Abbruciati si arrabbiò molto con me, dal momento che, a suo dire, lo avrei messo in grosse difficoltà, avendo egli dovuto dare al Vitale, personaggio di notevole prestigio nell'ambiente malavitoso, spiegazioni circa lo sconfinamento, faticando a convincerlo che era stata cosa del tutto accidentale e non il sintomo di una volontà di sottrarci al rispetto delle regole.»
(Interrogatorio di Fabiola Moretti dell'8 giugno 1994[24])
La divisione in zone del territorio rifletteva in pieno la struttura costitutiva della banda che, nata dall'unione di diversi gruppi o batterie, responsabili ognuna della propria, a differenza di altre organizzazioni criminali quali la Camorra o Cosa Nostra, non presentava un'organizzazione piramidale vista l'assenza di un unico capo in grado di prendere decisioni vincolanti per le diverse zone[9][25].
«Per quanto concerne le forniture di droga che "lavoravamo" occorre distinguere tra la cocaina e l'eroina: la cocaina, il mio gruppo la riceveva tramite Manuel Fuentes Cancino; l'eroina, che commerciavamo, per come ho detto, unitamente al gruppo Selis e al De Pedis e compagni, la ricevevamo, solitamente, tramite Koh Bak Kim. Costui, da me conosciuto, tramite Gianfranco Urbani (detto "il Pantera"), cominciò a rifornirci di eroina che egli introduceva in Italia, tramite suoi corrieri che venivano dalla Thailandia, o occultata nelle cornici di quadri, o nei doppi-fondi di valigie. Via via che la nostra organizzazione si annetteva sempre più vaste fette di mercato la stessa si allargava, a seguito delle scarcerazioni di Enrico De Pedis, amico sia mio che del Giuseppucci, e di Raffaele Pernasetti, i quali ne entravano a far parte a pieno titolo, apportando nuovi canali di approvvigionamento che consentivano di soddisfare le esigenze di conservazione del mercato acquisito e di ulteriori ampliamenti dell'attività. Amico del De Pedis era Danilo Abbruciati, il quale consenti' di prendere contatto con fornitori del calibro di Stefano Bontate e Pippo Calò.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[16])
I proventi di questo traffico, così come quelli relativi al gioco d'azzardo, alla prostituzione, alle scommesse clandestine, al traffico di armi e di tutte le altre attività criminali in cui la banda era impegnata, oltre ad assicurare un adeguato livello di corruzione di periti, avvocati, personale sanitario e anche di alcuni esponenti delle forze dell'ordine, erano divisi sempre in parti uguali: tutti i membri ricevevano la cosiddetta stecca para, ossia una sorta di dividendo indipendente dal lavoro svolto in quel periodo, che anche i membri detenuti (e i familiari degli stessi) continuavano a ricevere assieme ad un'adeguata assistenza legale per evitare delazioni; questo insieme di regole era vincolante per gli appartenenti alla banda e l'inosservanza delle stesse portava a vendette e anche all'omicidio.
Le coperture e i primi arresti per il sequestro Grazioli
«Avevamo a disposizione quasi tutti gli avvocati di Roma, medici, dottori, perché no, anche qualche politico. C'è stato un periodo in cui entravamo con le macchine al servizio dello Stato, entravamo sotto al tribunale, scaricavamo pellicce, oggetti d'antiquariato, avevamo un contratto con un capo cancelliere che ci diceva che quei giudici erano corrotti... i processi prendevano la direzione che volevamo noi.[26]
Già con l'arresto di Franco [Giuseppucci, ndr] c'erano stati agganci con medici e direttori sanitari. Silvano Felicioni[27] era un portantino dell'ospedale Sant'Eugenio che amava giocare e puntava parecchio. Oltre a procurarci i farmaci ci dava i nomi di medici compiacenti, che frequentavano bische e ippodromi. Erano tutti medici del San Camillo e del Sant'Eugenio, e molti lavoravano anche nelle carceri. Quando ero detenuto a Rebibbia arrivò un ispettore del ministero, un nome importante, che si interessò per farmi uscire in libertà provvisoria. Quel nome l'ho rivelato agli inquirenti all'inizio della mia collaborazione, ma non ho idea di che fine abbiano fatto quei verbali. Ci sono stati medici che con i nostri soldi si sono comprati case e apparecchiature per le loro cliniche private, e non sono stati condannati. A Regina Coeli c'era ancora più corruzione. Avevo trovato un oculista che riempiva le mie cartelle cliniche tutte le settimane. Scrisse che stavo perdendo progressivamente la vista pur di farmi ottenere la libertà provvisoria ... Altri due medici, i fratelli Scioscia,[28] si fecero intestare un paio di lussuosi appartamenti in via di Vigna Murata.»
(Dichiarazioni di Maurizio Abbatino.[29])
Nel febbraio del 1979 una retata notturna portò in carcere, con l'accusa di sequestro di persona e riciclaggio, 29 persone tra cui Abbatino, Giuseppucci, Toscano, Mastropietro, Danesi e D'Ortenzi ma tutti nel giro di poco vennero rimessi in libertà. Giuseppucci era accusato anche del sequestro del gioielliere Roberto Giansanti, preso cinque mesi prima di Grazioli, per via della stessa macchina da scrivere utilizzata in entrambi i sequestri.
Solo con il pentimento di Abbatino si arriverà a una svolta per l'omicidio Grazioli con il processo del 1995.[30]
L'omicidio Giuseppucci e lo scontro col clan Proietti
«Per un periodo di tempo questa Banda è a compartimenti stagni proprio per non avere addosso le guardie. Poi uccidono Giuseppucci. Allora non era più possibile rimanere in quelle condizioni, bisognava dimostrare chi eravamo e quanti eravamo. È lì che si è formata la Banda.»
(Retroscena di Antonio Mancini.[14])
Il primo componente della Banda a cadere fu Franco Giuseppucci, ucciso a Piazza San Cosimato nel cuore del quartiere di Trastevere, il 13 settembre 1980, in un agguato orchestrato da parte di esponenti del clan rivale della famiglia Proietti, detti i Pesciaroli per via della loro attività commerciale all'interno del mercato ittico della capitale. Un gruppo criminale molto numeroso e che si avvaleva di consanguinei, fratelli, cugini e affini e molto vicino a quel Franco Nicolini, giustiziato dai componenti della Magliana per il controllo del giro di scommesse clandestine presso l'ippodromo di Tor di Valle.[25]
Raggiunto da una pallottola al fianco mentre saliva a bordo della sua Renault 5, Giuseppucci riuscì comunque a mettere in moto l'autovettura e ad arrivare fino in ospedale morendo mentre i medici si apprestavano ad intervenire. La morte di Giuseppucci fu il pretesto per scatenare una sanguinosa guerra contro il clan rivale che segnò però anche un forte momento di aggregazione della banda. Gli scontri violenti e gli agguati tra i due gruppi si manifestarono ben presto con una serie impressionante di omicidi e tentativi di omicidio e con gravissime perdite riportate dai Proietti.
Il primo atto della vendetta nei confronti dei Proietti, relativamente all'uccisione di Franco Giuseppucci, fu un errore, uno scambio di persona da parte della Banda. La sera del 19 settembre 1980, Maurizio Abbatino, Paolo Frau, Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, appostati davanti ad una villa tra Ostia e Castelfusano abitualmente frequentata da Enrico Proietti detto er Cane fecero fuoco contro una macchina a bordo della quale c'erano Pierluigi Parente, avvocato ventottenne e figlio di un industriale, e la sua fidanzata Nicoletta Marchesi, completamente estranei al clan Proietti.[9]
«Intorno alle due di notte vedemmo uscire una Fiat Ritmo dalla villa. La inseguimmo e dopo duecento o trecento metri la superammo: eravamo muniti di un fucile a pompa, un mitra Mab e una pistola calibro 9 con silenziatore. Avevamo anche una bomba a mano. Il silenziatore della calibro 9, dopo due o tre colpi, si ruppe. Il conducente della Fiat Ritmo fece una rapidissima retromarcia, riportandosi davanti al cancello della villa, balzò fuori dall'auto e si gettò in un burrone, mentre l'altro passeggero, che non avevamo capito si trattasse di una donna, restò accucciato nella macchina. Io mi trovavo alla guida della nostra autovettura, gli altri spararono tutti: Colafigli col fucile a pompa sparò all'interno dell'abitacolo della Fiat Ritmo.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 6 novembre 1992[31])
Il ragazzo fece in tempo a darsi alla fuga, mentre la sua fidanzata rimase gravemente ferita. Il pentito Abbatino farà anche il nome di Massimo Carminati come membro del commando di quella sera; il nero però durante un confronto in aula smentirà di essere stato presente poiché sarebbe stato ricoverato all'Ospedale militare Celio.[32]
La rappresaglia continuò poi il 27 ottobre 1980 quando, Enrico Proietti detto er Cane, venne ferito in un agguato nei suoi confronti e riuscì a sfuggire ai suoi aggressori. Meno fortunati furono invece Orazio, figlio di Enrico, che morì di overdose dopo essere stato comunque ferito anche lui in un agguato della banda, il 31 ottobre 1980 e poi Fernando, detto il Pugile, giustiziato il 30 giugno del 1982.[9]
L'episodio più significativo, però, avvenne la sera del 16 marzo 1981, quando Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti detto il Pescetto e suo fratello Mario detto Palle D'oro, quest'ultimo già fortunatamente sfuggito ad un agguato qualche tempo prima. I due, in compagnia delle rispettive famiglie, facevano infatti rientro alle loro abitazioni site in via di Donna Olimpia nº152, nei pressi del quartiere Monteverde. Nel furibondo scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio fu colpito a morte, mentre i due criminali della Magliana rimasero lievemente feriti e, nel tentativo di evitare l'arresto e di aprirsi un varco verso la fuga, iniziarono a sparare sulla polizia che a sua volta rispose al fuoco. I due killer feriti tentarono disperatamente la fuga, ma vennero quindi arrestati all'interno di un appartamento dello stabile nel quale si erano barricati.[33] Maurizio Abbatino in sede processuale racconterà di essere stato presente sul posto insieme a Raffaele Pernasetti e Giorgio Paradisi in macchina e di essere andati via con l'arrivo della polizia; il pentito disse di essersi precostituito un alibi: insieme a Edoardo Toscano doveva risultare essere a casa di Alvaro Pompili a Filettino (Frosinone). Durante il confronto in aula Mancini, Colafigli e Pernasetti però smentirono Abbatino.[32]
Ma la vendetta non si fermò ai soli consanguinei. Per motivi differenti, infatti, trovarono la morte anche Orazio Benedetti, collaboratore dei pesciaroli, e Raffaello Caruso, un piccolo spacciatore: il primo freddato da Edoardo Toscano (gli sparò un colpo alla testa con una pistola coperta da un impermeabile) in una sala giochi di via Rubicone, al quartiere Salario, il 23 gennaio 1981, reo di aver brindato alla notizia della morte di Giuseppucci; il secondo, invece, fatto trovare cadavere in una Giulietta il 22 gennaio 1983, dopo essere stato strangolato da Claudio Sicilia e pugnalato da Toscano, perché ritenuto responsabile della morte di Mariano Proietti (figlio di Enrico), ucciso il 14 dicembre 1982 e che doveva essere una vittima della Banda.[34][35]
Come ebbe poi a rivelare il pentito Abbatino: «Tutte le persone della Banda erano a conoscenza della vendetta, in quanto tutti amici del Giuseppucci, avevano concorso a programmarla nelle linee generali ed erano disponibili, nell'ambito di un'interna distribuzione dei ruoli, a intervenire materialmente (o eseguendo gli omicidi, ovvero svolgendo le attività preparatorie necessarie, ovvero ancora fornendo le strutture logistiche), ai fini dell'attuazione dei singoli atti omicidiari. Questa guerra impedì il dissolversi del sodalizio, rappresentando un forte momento di aggregazione.»[8]
- Maurizio Proietti (detto Il Pescetto) ucciso il 16 marzo 1981.
- Mario Proietti (detto Palle D'oro) fratello di Maurizio e Fernando, rimase ferito in due diversi agguati, il 12 dicembre 1980 e il 16 marzo 1981.
- Fernando Proietti (detto Il Pugile) fratello di Maurizio e Mario, ucciso il 30 giugno 1982.
- Enrico Proietti (detto Er Cane) cugino di Maurizio, Mario e Fernando, ferito in un agguato il 27 ottobre 1980.
- Orazio Proietti figlio di Enrico, ferito il 31 ottobre 1980 e poi trovato morto per un'overdose di eroina.
- Mariano Proietti figlio di Enrico, ucciso il 14 dicembre 1982 da elementi estranei alla banda della Magliana
La concomitanza temporale tra l'ascesa della banda della Magliana e i cosiddetti anni di piombo, ossia quel periodo che, dalla metà degli anni settanta agli inizi degli anni ottanta, segnò in Italia il culmine della lotta armata politica, con una serie di omicidi, stragi e fatti di sangue, innescò, tra le altre cose, anche un'insolita convergenza di interessi fra gli uomini della Magliana e alcuni ambienti dell'eversione neofascista.
Fatta, però, esclusione per sporadiche simpatie fasciste di alcuni componenti della Magliana (come ad esempio Giuseppucci, che conservava in casa alcuni dischi con i discorsi di Mussolini e diversi altri simboli fascisti), il fine ultimo di tali rapporti era decisamente scevro di qualsiasi orpello ideologico e politico e, come anche per altre occasioni, può essere individuato esclusivamente nell'interesse dell'organizzazione allo scambio di armi, al potenziamento del controllo sul territorio, al riciclaggio di denaro, ecc. L'obiettivo venne presto raggiunto attraverso la conoscenza di alcuni uomini cerniera e di raccordo tra la criminalità organizzata, i settori deviati dei servizi e le organizzazioni eversive neofasciste come Alessandro D'Ortenzi, Massimo Carminati e altri ancora.
Con il professor Aldo Semerari
Uno dei personaggi attivi nell'area dell'eversione nera che entrò in contatto con la banda fu il professor Aldo Semerari. Celebre psichiatra forense, massone e iscritto alla P2, agente dei servizi d'informazione militare e tra i più autorevoli criminologi italiani, Semerari lavora come consulente per redigere alcune delle perizie psichiatriche dei casi giudiziari più eclatanti degli anni settanta come, ad esempio, quella su Giuseppe Pelosi nel caso dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
«L'istituzione di collegamenti tra gruppi eversivi dell'estrema destra e la malavita organizzata romana rientrava in un disegno strategico comune al Prof. Aldo Semerari e al Prof. Fabio De Felice, convinti che per il finanziamento dell'attività eversiva non fosse necessario creare una struttura finalizzata al reperimento programmatico di fondi, quando, senza eccessive compromissioni, si poteva svolgere un'attività di supporto di tipo informativo e logistico rispetto a strutture di criminalità comune già esistenti e operanti, onde garantirsi, lo storno degli utili derivanti dalle operazioni rispetto alle quali si forniva un contributo. Il primo collegamento venne realizzato attraverso Alessandro D'Ortenzi detto "zanzarone", in un incontro che, se mal non ricordo, si svolse presso la villa del Prof. De Felice. Per quanto ho potuto constatare di persona, i rapporti che intercorrevano tra il gruppo criminale denominato Banda della Magliana, o per meglio dire, tra i suoi esponenti, e il Prof. Semerari, era quello di una sorta di sudditanza dei primi al secondo, il quale esercitava su di loro una notevole influenza in forza dei benefici che costoro si aspettavano di conseguire per effetto delle sue prestazioni professionali. Con il passar del tempo, probabilmente, in considerazione di aspettative frustrate dai fatti, ho potuto constatare un progressivo raffreddamento di rapporti degli uni verso l'altro.»
(Interrogatorio di Paolo Aleandri dell'8 agosto 1990[36])
Leader del gruppo neofascista Costruiamo l'azione, durante l'estate del 1978 organizzò diversi seminari e incontri politici nella villa del professor Fabio De Felice situata a Poggio Catino in provincia di Rieti, a cui parteciparono anche alcuni componenti della banda introdotti da Alessandro D'Ortenzi, detto Zanzarone, un pregiudicato in rapporti di confidenza con il professore e che per i suoi trascorsi giudiziari e la sua familiarità con diversi specialisti in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie compiacenti. Semerari seguì una precisa strategia eversiva basata anche sulla collaborazione fattiva tra estremismo di destra e malavita comune e, secondo il pentito Abbatino: «A lui piaceva proprio avere contatti con le bande. E c'è stato un periodo in cui loro utilizzavano noi, e noi loro per le perizie e per l'approvvigionamento e l'acquisto di armi. Semerari pensava a un appoggio di tipo logistico, come un colpo di Stato: loro facevano dei raduni nelle campagne di Rieti proprio simulando colpi di Stato.»[8]
«Grazie al contatto istituito da D'Ortenzi, si fece una riunione nella villa di Fabio De Felice, per discutere i possibili scambi di favori tra la nostra banda e i terroristi di destra che facevano capo al Semerari. All'incontro, per la banda, partecipammo io, Marcello Colafigli, Giovanni Piconi e Franco Giuseppucci. Era presente Alessandro D'Ortenzi. Oltre al De Felice ricordo presenti all'incontro il Prof. Semerari e Paoletto Aleandri. Nell'occasione, fermo restando il nostro assoluto disinteresse per le prospettazioni ideologiche di Aldo Semerari - per quanto potei constatare frequentando Franco Giuseppucci, questi aveva delle spiccate simpatie per il fascismo, deteneva dischi riproducenti discorsi di Benito Mussolini, medaglie e gagliardetti, tuttavia questa sua infatuazione non ne condizionava minimamente l'azione, ne' lo conduceva a perdere di vista gli interessi e gli scopi della banda che erano tutt'altro che politici - si valuto' la praticabilità di una collaborazione tra noi e i terroristi neri, finalizzata, per quanto li riguardava, al finanziamento delle attività di tipo più propriamente politico. In particolare si raggiunse una sorta di accordo di massima per la commissione in comune di sequestri di persona a scopo di estorsione e di rapine. Nell'incontro in questione, tuttavia, non si ando' oltre un accordo di massima, quel che è certo non si raggiunse un vero e proprio patto operativo. A noi comunque interessava mantenere i contatti, in considerazione dell'influenza del Semerari nel settore giudiziario, essendo egli un famoso e stimato perito medico-legale psichiatrico.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992[37])
Nonostante il rifiuto ad operare come braccio armato del gruppo politico di Semerari, da quegli incontri uscì un accordo di massima tra il professore e la banda che prevedeva finanziamenti per il gruppo neofascista in cambio di perizie medico psichiatriche compiacenti e miranti a fare ottenere ai componenti della Magliana, in caso di arresto, condizioni favorevoli di detenzione o scarcerazioni a causa di condizioni di salute inidonee al regime carcerario. Il sodalizio durò fino ai primi mesi del 1982 quando vittima di un regolamento di conti interno alla camorra, il 25 marzo di quello stesso anno, il corpo del professor Semerari fu ritrovato decapitato all'interno di un'automobile nei pressi del Castello mediceo di Ottaviano (NA), non a caso luogo di nascita e dimora sfarzosa del capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. La causa della sua morte fu da ricercarsi in un episodio avvenuto poco tempo prima: il professore infatti, nella sua qualità di psichiatra forense, si era adoperato per la scarcerazione di affiliati alla Nuova Famiglia, per poi accettare l'incarico come consulente anche per la fazione opposta, un'errata mossa strategica che gli costò la vita, il barbaro omicidio fu commesso da Umberto Ammaturo.[38][39]
Con i Nuclei Armati Rivoluzionari
Di altra natura, invece, fu il rapporto della Banda con l'universo giovanile dell'estremismo di destra e, in particolare, con i componenti storici dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e, soprattutto, Massimo Carminati. Negli anni settanta, infatti, la contiguità sia temporale che fisica tra gli ambienti dell'eversione politica e del crimine comune organizzato fece sì che, tra le parti in causa, cominciò a farsi strada la possibilità di ricercare un terreno di reciproco beneficio comune.
«I contatti avvennero in epoca precedente alla morte di Franco Anselmi. Successivamente essi furono mantenuti dal gruppo che faceva capo ad Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci, mentre io mi limitai a compiere un attentato a un benzinaio (...) L'indicazione ci fu data da Massimo Sparti il quale frequentava gli ambienti della Magliana, dai quali otteneva documenti e targhe per noi. Sparti disse a me e Tiraboschi, autori materiali, che per ingraziarci maggiormente la gente di quell'ambiente sarebbe stato opportuno fare loro il favore dell'attentato. Vi era infatti un rapporto stretto tra Alibrandi, Carminati e Bracci e ricordo, in particolare, che quelli della Magliana davano indicazione dei luoghi e persone da rapinare anche al fine di dare il corrispettivo di attività delittuose compiute per loro conto dagli stessi giovani di destra. Ricordo infatti che Alibrandi e gli altri due avevano la funzione di recuperare i crediti di quelli della Magliana e di eliminare alcune persone poco gradite. Tali persone da eliminare gravitavano nell'ambiente delle scommesse clandestine di cavalli: in particolare il Carminati mi disse, presumibilmente intorno al febbraio '81, di aver ucciso due persone: una di queste era stata "cementata" mentre l'altra era stata uccisa in una sala corse»
(Interrogatorio di Cristiano Fioravanti.[40])
Frequentando i locali del bar Fermi[41] o quelli del bar di via Avicenna (entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche molti dei componenti della stessa Banda della Magliana, nell'estate del 1978 Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l'usura o lo spaccio di droga; viceversa recuperava per Giuseppucci soldi che il boss prestava a strozzo intascandosi una "stecca" del 10-15%. Il pentito Maurizio Abbatino nel 2018 racconterà che:
«Fu Franco Giuseppucci a mettere in contatto Carminati con Santino Duci, il titolare di una gioielleria in via dei Colli Portuensi che ricettava i preziosi, frutto di rapine ad altre gioiellerie e orefici, liquidando a Carminati il contante che poi lui riciclava e reinvestiva con prestiti a strozzo, sempre attraverso Giuseppucci. Carminati da Giuseppucci prendeva minimo uno stipendio da un milione e mezzo al mese per ogni dieci milioni versati. Più la restituzione dell'intera somma capitalizzata.[42]»
Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva, da “terrorista pentito” racconterà che:
«Ad Alibrandi, Bracci e Carminati quelli della Magliana davano indicazioni sui luoghi e le persone da rapinare. Avevano anche la funzione di recuperare i crediti e di eliminare alcune persone poco gradite. Tali persone gravitano nell'ambiente delle scommesse clandestine dei cavalli.»
Infatti in regime di reciproco scambio di "favori", la Banda, di tanto in tanto commissionava ai giovani fascisti anche di eliminare alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro Pugliese, ucciso nell'aprile del 1980 da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci; cinque anni più tardi Carminati e Bracci verranno assolti per insufficienza di prove.
«A uccidere Teodoro Pugliese sono stati Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci. Me l'ha raccontato proprio Alessandro, secondo il quale il delitto fu commesso per conto di Franco Giuseppucci, uno della banda della Magliana che era in stretti rapporti d'affari con loro, in particolare con Carminati. Entrarono in due, Alibrandi e Carminati, vestiti con degli impermeabili chiari, trovarono Pugliese e un'altra persona. Uno dei due chiese un pacchetto di sigarette, il tabaccaio si girò e loro spararono tre colpi di pistola, Alessandro mi ha detto che l'hanno colpito alla testa e al cuore. Poi sono saliti a bordo di una macchina, e durante la fuga hanno avuto un incidente, ma sono riusciti ad arrivare ugualmente al punto in cui si doveva fare il cambio auto. So che la pistola usata era una Colt Detective.»
(Interrogatorio di Walter Sordi da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi.[43])
Nell'estate del 1979 Carminati assieme ad altri militanti neri si attivò per la liberazione di Paolo Aleandri, un giovane neofascista orbitante nella galassia dei NAR a cui Giuseppucci aveva affidato in custodia un borsone pieno di armi mai riconsegnate che, utilizzate da vari esponenti della destra eversiva, sono andate disperse. Aleandri, più volte sollecitato, non era più stato in grado di restituirle ed era stato quindi rapito il 1º agosto dagli uomini della Magliana. A quel punto Carminati e altri militanti si attivarono rimediando altre armi (due mitra MAB modificati e due bombe a mano) in sostituzione delle originali andate perdute e dopo 31 giorni di prigionia, Aleandri venne liberato.[44] Si presume che i due mitra modificati siano entrati a far parte dell'arsenale che la Banda della Magliana nascose nei sotterranei del Ministero[45] e uno dei due verrà addirittura riconosciuto dal pentito Maurizio Abbatino tra quelli rinvenuti sul treno Taranto-Milano nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, reato per il quale Carminati verrà poi assolto in via definitiva.
Il 27 novembre 1979 a 21 anni Carminati partecipò, assieme a esponenti dei NAR e di Avanguardia Nazionale come Valerio Fioravanti, Domenico Magnetta, Peppe Dimitri e Alessandro Alibrandi, alla rapina di autofinanziamento del gruppo ai danni della filiale della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi all'EUR. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheques, verrà affidato per essere riciclato da Carminati e Alibrandi a Giuseppucci che nel gennaio del 1980, nell'organizzare l'operazione di ripulitura, verrà poi arrestato con l'accusa di ricettazione insieme a Maurizio Abbatino e Giorgio Paradisi.[46][47] Giuseppucci tornerà in libertà in estate dopo la morte del giudice Mario Amato, ucciso dai NAR.
Altre indicazioni circa la relazione tra la Banda e l'eversione di destra vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che:
«Alibrandi mi disse che Carminati era il pupillo di Abbruciati e Giuseppucci. Parlando in particolare degli investimenti di somme di denaro da noi fatti attraverso la banda Giuseppucci-Abbruciati, posso dire che nel corso dell'80, Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni, Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni. Ricordo che Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti. Come ho già spiegato, Giuseppucci e Abbruciati prevalentemente investivano il denaro da noi ricevuto nel traffico di cocaina e nell'usura, ma c'erano anche altri investimenti nelle pietre preziose e nel gioco d'azzardo.[48]»
Nel 1998, la Commissione Parlamentare sul Terrorismo nella sua relazione annuale, scrisse:
«All'autofinanziamento furono invece dirette numerose rapine prima presso negozi di filatelia poi agenzie ippiche e banche, rapine che frutteranno una disponibilità economica assai superiore a quella necessaria alla vita dell'organizzazione e connotarono di un tratto di delinquenza ordinaria sia la condotta e il tenore di vita degli autori, sia l'ambiente criminale in cui gli stessi si muovevano. L'organizzazione e l'esecuzione di molti dei colpi avvicinò stabilmente - e per alcuni in modo irreversibile - i ragazzi dei NAR alla criminalità organizzata del gruppo che successivamente verrà indicato (sinteticamente e in parte impropriamente) come Banda della Magliana, attraverso lo stretto legame dei fratelli Fioravanti e di Alibrandi con personaggi come Massimo Sparti, e di Massimo Carminati e dello stesso Fioravanti con Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. Tali legami verranno a consolidarsi, oltre che con la pianificazione e attuazione di rapine (come presso le filatelie o alla Chase Manhattan Bank), attraverso le attività di reinvestimento dei proventi delle rapine (per lo più attraverso il prestito usuraio) che gli estremisti affideranno alla banda, per conto della quale eseguivano attività di intimidazione e di vero e proprio killeraggio.[49]»
Carminati, in una conversazione con il costruttore Cristiano Guarnera intercettata durante l'inchiesta Mafia Capitale, spiegava:
«Ero un politico non come i cialtroni della Magliana, fatta eccezione per il Negro [Giuseppucci, ndr] che era l'unico vero capo che c'è mai stato ... che era un mio caro amico, abitava di fronte a casa mia ... Io lo conoscevo da una vita ... lui ci rompeva il c****, se pijavamo per il c*** tutto il giorno ... insomma c'era un grande rapporto di amicizia. Per il resto si trattava di una banda di accattoni straccioni, per carità sanguinari perché si ammazzava la gente così senza manco discutere, la mattina si diceva se uno doveva ammazzare qualcuno la sera ... ma quelli erano altri tempi, stiamo parlando di un mondo che è finito tanto è vero che poi si sono tutti pentiti, se so' chiamati tutti l'uno con l'altro. Loro vendono la droga, io la droga non l'ho mai venduta, non mi ha mai interessato, hai capito? Io schioppavo dieci banche al mese, poi con il fatto della politica, erano proprio altri tempi, un altro mondo, altro modo di vivere. Io sono diventato, secondo loro, uno della Banda della Magliana mentre io facevo politica a quei tempi, poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica, perché c'era una guerra a bassa intensità prima con la sinistra e poi con lo Stato.[50]»
Il deposito di armi al Ministero della Sanità
Il notevole aumento del numero di armi a disposizione della Banda che, sino a quel punto venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati, indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile.
«Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospettò la possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu così che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità. Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento. Mentre per quanto concerne il ritiro e la preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti, a me, a Marcello Colafigli e alle persone che si fossero presentate in nostra compagnia. Per quanto sono in grado di ricordare e per quel che mi risulta personalmente, mi recai al Ministero una volta in compagnia di Danilo Abbruciati e un'altra in compagnia di Massimo Carminati. Ora, mentre Danilo Abbruciati non era autorizzato a recarsi da solo presso il Ministero, a Massimo Carminati venne consentito, invece, in un secondo momento, di accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda, rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare dei problemi ulteriori all'Alesse.»
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992[37])
Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur, l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una Beretta M12, un mitra Beretta MAB 38, un mitra sten, altri fucili mitragliatori, oltre a cartucce e bombe a mano. Il custode Alesse chiamerà in causa Abbatino e Abbruciati salvo poi ritrattare.
Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la Banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi, a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato dai servizi deviati[51].
Va comunque detto che la nomea della Banda della Magliana come gruppo di destra è stata negli anni esagerata, a causa dei contatti (per i banditi romani esclusivamente incontri di affari) con periti neofascisti quali Semerari ed il suo gruppo e per i contatti (sempre riguardanti affari e scambi di favori, non ci fu mai una fusione tra le due realtà, se si esclude Carminati che negli anni diventò importantissimo membro del sodalizio, accantonando la politica per diventare un "comune" a tutti gli effetti) con alcuni membri dei NAR. Certo c'erano vari simpatizzanti di destra nel gruppo, quali Giuseppucci, Colafigli, Abbruciati e ovviamente Carminati, ma ce ne erano quasi altrettanti, anche membri di spicco (Abbatino, Mancini, Magliolo), dichiaratamente comunisti. Il proletariato ed il sottoproletariato romano dell'epoca, da cui buona parte degli appartenenti alla Banda proveniva, tendeva d'altronde decisamente a sinistra, risulta quindi difficile immaginare non ci fossero altri simpatizzanti di sinistra all'interno dei vari gruppi (così come sicuramente ce ne sono altri di destra che non sono venuti fuori).