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Il clan Cava è un sodalizio camorristico di Quindici, in provincia di Avellino.
Questa cosca, da oltre trent'anni, è protagonista di una sanguinosa faida con l'altro clan del Vallo di Lauro, quello dei Graziano. I boss più influenti del sodalizio furono i fratelli Salvatore Cava (deceduto) e Vincenzo Cava, ucciso nell'anno 1995, a Quindici, in località 'San Teodoro', dove fu sfigurato da 30 proiettili di pistola - tutti indirizzati al volto - per mano di membri del clan Graziano; Biagio Cava (deceduto), leader riconosciuto del sodalizio criminale e figlio di Vincenzo Cava; e Antonio «Ndo' Ndo'» Cava (detenuto), figlio di Raffaele Cava, quest'ultimi - Biagio e Antonio Cava - condannati al carcere duro per capi di imputazione che vanno dall'associazione per delinquere di stampo camorristico, all'omicidio, fino al racket ad esercenti e imprenditori edili. La leadership, dopo le carcerazioni dei capi storici, è poi passata al giovane Salvatore Cava - uno dei figli di Biagio -, arrestato nel maggio del 2010, ventiseienne, in una villetta di Pago del Vallo di Lauro. Durante la guerra di camorra tra NCO cutoliana e la Nuova Famiglia, che insanguinò la Campania negli anni '80, i Cava rientrarono nella miriade di clan e gruppi di fuoco associati al potente clan Alfieri, imperante nella zona del Nolano-Vesuviano. Ancora oggi, quello schieramento di parte si rispecchia nelle alleanze che i Cava hanno con altri gruppi criminali dell'Agro Nolano come i clan Russo di Nola e Fabbrocino della zona compresa tra Palma Campania, San Gennaro Vesuviano e Ottaviano.
Ad oggi, nonostante i numerosi colpi subiti dallo Stato e all'indebolimento dovuto alla faida con i rivali storici - il clan Graziano -, la presenza del clan Cava è ancora segnalata, oltre che nel Vallo di Lauro, nel Mandamento baianese e in altre aree dell'Avellinese, anche nel Nolano. Inoltre, i Cava sono considerati ancora come la cosca più influente della provincia di Avellino, con diramazioni anche nel Napoletano, nel Salernitano e in altre regioni, dove hanno avviato, tramite prestanomi, attività lecite.
Questa organizzazione di stampo camorristico è operativa in gran parte della Provincia di Avellino (specie nei comuni del Vallo di Lauro e del Baianese), in molti comuni del nolano, in parte del Vesuviano ed in Provincia di Salerno. Estorsione, gestione degli appalti, usura sono le attività principali del clan. Il traffico di sostanze stupefacenti, pur non costituendo la principale attività del clan, rimane una importantissima fonte di lucro, i cui profitti finiscono reinvestiti in molte altre attività, sia lecite che non.
Nelle zone di competenza del clan, non vi era imprenditore o commerciante che non avesse ricevuto richieste estorsive e, dato il potere dell'organizzazione, sono stati davvero pochi gli imprenditori a denunciare od a ribellarsi alla protervia ostentata dai Cava i quali, per anni, tramite proprie propaggini, hanno capillarmente controllato e oppresso diversi territori. Un caso emblematico che indica il potere dei Cava e della loro forza intimidatrice è quello di Lucio Addeo, imprenditore quarantaquattrenne di Palma Campania; Addeo, attivo nel settore del commercio della frutta secca, per anni, dovette regalare la merce ai fedelissimi e ai familiari del boss Biagio Cava, sottostare alle richieste estorsive dei Cava, rifornirsi presso ditte indicate dal clan e, come se ciò non bastasse, per conto di alcuni esponenti del sodalizio criminale è stato costretto, a più riprese, a cambiare assegni per svariate migliaia di euro. Addeo, esasperato e sull'orlo del fallimento, tentò di ribellarsi a quest'ultimi allorché gli stessi gli domandarono di cambiare altri assegni per conto di Biagio Cava. Dinnanzi al diniego dell'imprenditore palmese gli accoliti del clan, seppur sorpresi, non protestarono e andarono via. Gli stessi, però, più in là, fecero ritorno dall'imprenditore e, questa volta, lo costrinsero a commettere dei reati per conto dell'associazione criminale: obbligare il coproprietario di un terreno edificabile a cedergli la quota a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato e intestarsi il terreno ottenuto per conto di Biagio Cava. Per il fatto, Addeo verrà tratto in arresto nel marzo del 2006 e, poco dopo, comincerà a collaborare con gli inquirenti. Tre mesi dopo, Addeo si suiciderà impiccandosi, nella sua cella del carcere di Secondigliano, mediante un cappio realizzato con delle lenzuola; accanto al suo cadavere, verrà rinvenuto quello che sarà interpretato come un disperato tentativo di salvare la sua famiglia da probabili ritorsioni: un biglietto in cui l'imprenditore asseriva che tutte le sue confessioni contro il clan quindicese erano fasulle e di aver indotto i suoi due nipoti a riferire fandonie agli investigatori. Lucio Addeo aveva due figli, di 1 anno e 3 anni, ed era in attesa del terzogenito[1].
Nel Nolano, nel Vesuviano, in alcune aree della Provincia di Salerno e nel Mandamento baianese - aree in cui si registra l'influenza anche di altre organizzazioni criminali - i Cava operano grazie ad accordi con dette organizzazioni e mediante propri referenti, affiliati e fiancheggiatori ivi presenti. L'estensione dell'egemonia dei Cava sul territorio della città di Avellino non poteva prescindere dall'instaurarsi di rapporti con organizzazioni ivi operanti (clan Genovese[2] dell'area del Partenio e Meriani di Montoro), che potevano risolversi o in un conflitto o nel raggiungimento di un'intesa. Di fatto, è stata praticata la seconda delle opzioni, data anche l'inferiorità dei clan 'Genovese' e 'Meriani' (quest'ultimo ritenuto oramai scompaginato), che non hanno ritenuto opportuno opporre resistenza alle pretese dei Cava. Dette intese si sono esplicate nel senso che l'ingerenza dei Cava sulle attività illecite riguardanti la provincia avellinese è stata pacificamente accettata. In particolare, i Cava hanno sempre percepito la maggior parte dei proventi frutto delle attività illecite che avvenivano in Avellino ed hinterland. La famiglia Cava ha, inoltre, messo in piedi una fiorente ed articolatissima organizzazione delinquenziale in grado di inserirsi attivamente nel ciclo del cemento. Negli anni, il clan s'è assicurato, in forma monopolistica, alcuni settori fondamentali dell'edilizia (movimento terra, fornitura di inerti, produzione e distribuzione di cemento e calcestruzzo). Dopo i duri colpi subiti da parte dello Stato, è però da segnalare che alcuni importanti esponenti del clan, venute meno le storiche figure apicali dell'organizzazione, sembrerebbero aver avviato attività illecite in proprio. Nel Nolano, nella fattispecie, i Cava hanno sempre operato mediante un gruppo satellite facente capo alla famiglia Sangermano, originaria di San Paolo Bel Sito, oggi considerata scissa dal clan Cava ed una organizzazione a sé stante. Da segnalare anche il blitz avvenuto in data 3 ottobre 2016[3], che ha visto coinvolti numerosi comuni del Mandamento baianese, che ha scardinato una organizzazione dedita alle estorsioni e al racket del cemento, ribattezzata "Nuovo Ordine di Zona" e guidata dal pregiudicato di Avella Antonio Guerriero (alias "Zorro"), soggetto considerato legato al clan Cava e già vittima, nel 2005, di un tentato omicidio. Stando a quanto dichiarato dal pentito di Nola Ciro Di Domenico, a tramare contro Guerriero furono tre clan (i Cava, i Russo e i Moccia)[4]. L'agguato avvenne a Tufino, ma a perdere la vita fu il socio in affari del Guerriero Antonio, ucciso per errore. Le indagini che hanno portato allo sgominamento del 'Nuovo Ordine di Zona' ebbero inizio nell'anno 2013, a seguito di due omicidi di camorra avvenuti in Baiano e Sperone, fra cui quello di Miele Fortunato[3], referente dei Cava nel Baianese, che avrebbe, fra l'altro, sempre se ci si attiene a quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia Ciro Di Domenico, preso parte al piano per portare a termine l'agguato ai danni di Guerriero, poi fallito. Degno di nota anche il blitz che, in data 14 ottobre 2019, ha portato all'arresto di 23 persone, tra cui ex affiliati al clan Cava, i quali avevano costituito un gruppo camorristico operante ad Avellino e comuni limitrofi, ponendo sotto la propria egemonia territori in passato sotto la giurisdizione dei Cava.[5][6][7]
Nel frammentario e confuso panorama camorristico campano, il clan Cava, come il clan Graziano, presenta una struttura molto più analoga a quella di una 'ndrina calabrese, piuttosto che a quella di un qualunque clan camorristico. Il clan è, difatti, da sempre a 'conduzione familiare' e molti dei suoi membri sono consanguinei o, comunque, legati l'un l'altro da rapporti di parentela. Per via di ciò, come le 'ndrine calabresi, il clan Cava è una organizzazione quasi impermeabile al fenomeno del pentitismo. Gli unici ad aver collaborato con la giustizia sono stati, difatti, esponenti di secondo piano o, comunque, di basso rango.
Iniziate nel 2003, l'attività di indagine ha comportato l'arresto di oltre 50 presunti membri affiliati e dei boss dell'associazione criminale, con l'esecuzione di oltre trecento operazioni di intercettazione telefoniche ed ambientali in auto ed abitazioni e di videosorveglianza, attraverso la quale gli investigatori ritengono di aver individuato beni riconducibili alle illecite attività del sodalizio, per i quali l'autorità giudiziaria ha emesso due distinti provvedimenti consistenti in un decreto di sequestro preventivo ed in un sequestro preventivo d'urgenza. Sequestrati beni immobili e società commerciali nelle province di Napoli, Avellino, Frosinone, Latina, L'Aquila, Piacenza e Parma, per un complessivo valore stimato circa 160/180 milioni di euro.
Nel corso degli anni, poi, l'impegno degli organi inquirenti ha portato ad altri importanti blitz che hanno messo in difficoltà il clan, scalfendone la forte struttura, con conseguenti scissioni interne. Il clan ha risposto operando un ricambio generazionale del suo organico e con l'affido delle attività ad alcuni fedelissimi dei capi detenuti. Tuttavia, la sua ossatura non sembra più essere forte come lo era una volta.
A Scisciano, frazione Spartimento, il 21 novembre 1991, ad opera di esponenti del clan Cava, avviene una strage in cui perderanno la vita Eugenio Graziano, 30 anni, ex sindaco di Quindici e all'epoca dei fatti latitante, il cugino Vincenzo Graziano, ventiduenne, e il loro guardaspalle, il ventunenne Gaetano Santaniello. La strage fu ideata e portata a termine dai Cava, allo scopo di eliminare le "nuove leve" del clan Graziano. Le tre vittime, tutte di Quindici, si erano recate a Scisciano, presso una carrozzeria, dacché una loro autovettura blindata aveva fuso il motore. I tre erano lì, in quella carrozzeria, quando, d'improvviso, una raffica di colpi di kalashnikov piove verso di loro; Santaniello è il primo a morire: ha avuto a stento sentore di ciò che sta accadendo, quando i proiettili gli spappolano la scatola cranica. Vincenzo Graziano prova a fuggire, ma la strategia dei killer è ben congegnata: fa pochi metri e viene falciato a colpi di mitra. È la volta di Eugenio Graziano: cerca di fuggire attraverso le campagne circostanti, il secondo gruppetto di killer lo insegue e gli spara. Per finire, i killer gli rendono irriconoscibile il volto, dopo avergli scaricato contro raffiche di kalashnikov. Vincenzo ed Eugenio erano nipoti del boss ed ex sindaco di Quindici Raffaele Pasquale Graziano. La mattanza fu conseguenza della faida che, già dai primi anni '80, vedeva contrapposti i Cava ed i Graziano.
La sera del 26 maggio del 2002, a Lauro, un'Audi con a bordo alcune donne del clan Cava viene seguita e speronata da un'altra auto, un'Alfa Romeo condotta dal boss Salvatore Luigi Graziano, che si trova in compagnia di alcuni/e parenti. All'indirizzo dell'auto delle Cava, parte una pioggia di proiettili che uccide tre parenti del boss Biagio Cava: Clarissa Cava (16 anni, figlia del boss); Michelina Cava (51 anni, sorella del boss); Maria Scibelli (53 anni, cognata del boss). Un'altra figlia del boss Cava - Felicetta Cava, 19 anni - rimarrà paralizzata per sempre ad una sedia a rotelle. Alla fine, si conteranno 3 morti e 6 feriti[16][17]. A compiere l'eccidio, un gruppo di donne del clan Graziano supportate da almeno due uomini (il boss Salvatore Luigi Graziano e Antonio Mazzocchi, cognato del boss Adriano Graziano, anche quest'ultimo sospettato di aver fatto parte del commando) le quali, per via dell'assenza dei vecchi capi, dovuta a detenzioni, latitanza o decessi, avevano affiancato figli e nipoti nella gestione della cosca. Tra queste, vi erano Alba Scibelli, quarantunenne, moglie di Eugenio Graziano, ex sindaco di Quindici, rimasto vittima della strage di Scisciano; Chiara Manzi, di anni 62, moglie di Salvatore Luigi Graziano, in dosso alla quale fu trovato un fucile da 9 mm che la donna aveva infilato nel reggiseno; e le due figlie di Alba, Stefania e Chiara Graziano, 19 e 20 anni[18]. Della strage diede notizia e scrisse anche la BBC News.[19]
Figlio di Raffaele Cava e Assunta Santaniello, Antonio Cava era considerato il numero 2 del clan, secondo solo al cugino Biagio. Il 17 gennaio 1991 si trova nella piazza di Quindici, dove sta assistendo alla festa patronale; nei pressi della piazza, da una casa diroccata, vi sono due affiliati del clan Graziano che, con un fucile da cecchino, fanno fuoco all'indirizzo del boss Cava. Il boss, attinto al mento da un proiettile, non perderà la vita, ma il suo volto resterà per sempre deturpato. Il primo omicidio di Antonio Cava avvenne quando questi aveva appena 15 anni, in Germania, quando Cava uccise un giovane italiano, anch'egli di origini meridionali, il quale aveva offeso sua madre.
Figlio di Vincenzo Cava, Biagio Cava era considerato il numero 1 del clan. Già vittima di un agguato il 28 aprile 1983 (in cui perse la vita Giuseppe Fabi, affiliato del clan), al quale scampò poiché indossava un corpetto antiproiettile, è stato sospettato di essere l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Scisciano, avvenuta nel novembre del '91. Si trova recluso nel carcere di Nizza quando nel maggio del 2002, via telefono (il boss era riuscito, non si sa come, ad entrare in possesso di un cellulare), lo rendono edotto che i Graziano gli hanno ammazzato una figlia, la sorella e la cognata e che un'altra figlia, la primogenita, versa in condizioni gravissime (in seguito si salverà, ma rimarrà paralizzata).
Uno dei primi leader del sodalizio. A Salvatore Cava, i Graziano uccisero due figli: Vincenzo Cava (1972 - 12 dicembre 1991), affetto da disabilità intellettiva, sicché assolutamente estraneo alle attività del clan, che fu ucciso in un agguato a Pago del Vallo di Lauro, il 12 dicembre del 1991, a 19 anni, mentre si trovava in prossimità di un ristorante, e Fiore Cava, ucciso nel giugno del 1993.
Padre di Biagio, viene barbaramente ucciso nel 1995 quando, dopo averlo sequestrato e condotto in una zona isolata di montagna, Felice Graziano (soprannominato Felicione) e Antonio Graziano (meglio noto come O' Sanguinario) gli esplosero una cinquantina di colpi di pistola e fucile all'indirizzo del volto. I Graziano, probabilmente, assassinarono Vincenzo Cava in quel modo per vendicare Eugenio Graziano, una delle vittime della strage di Scisciano, verificatasi nel novembre del 1991, che fu ammazzato con le medesime modalità.
I Cava, i Graziano ed altre famiglie criminali erano strette in un'alleanza che formava quello che, un tempo, era detto Clan dei Quindiciari. A Quindici e nel Vallo, erano i Graziano a comandare, rispetto ai quali altre realtà camorristiche locali - tra cui i Cava - erano subalterne. Per decadi, i boss del clan Graziano sono stati eletti a sindaci, con il tacito assenso di una oppressa popolazione locale. Il primo di questi fu Fiore Graziano, alias "Ciore 'i Bomba", un boss feroce e temuto; aveva appena 14 anni quando commise il suo primo omicidio: la sorella aveva intrecciato una relazione con un rivale e lui, per punirla, l'aveva uccisa. Stessa sorte toccò ad un'altra sorella, che Graziano fece uccidere per lo stesso motivo. Nel settembre del 1972 Fiore Graziano è nello stadio comunale di Quindici e sta assistendo ad una partita fra la compagine locale e quella della vicina Lauro. Un killer sale sugli spalti, lo raggiunge e lo fredda a pistolettate. Passa poco e il killer di "Ciore 'i Bomba" viene freddato a sua volta. Ad uccidere Graziano non sono stati i Cava, sono stati i Grasso (altra famiglia camorristica di Quindici), che vogliono scalzare i Graziano. Il conflitto Grasso-Graziano si chiude con i Graziano vincenti.
Quella tra i Cava ed i Graziano è una faida che sembra provenire da un paesino della Locride; entrambe le compagini, per via della loro struttura, infatti, più che due clan camorristici, ricordano due 'ndrine della 'Ndrangheta. Lo sfondo principale è Quindici, un paese che negli anni '80 conta all'incirca 3.000 abitanti o poco più e che, a guardarlo lì dove sorge, all'ombra del Pizzo d'Alvano, sembra un paesino ai piedi dell'Aspromonte. Le due potenti cosche - un tempo alleate - entrano in guerra a seguito del Terremoto dell'Irpinia del 1980; un fiume di danaro viene stanziato per la ricostruzione post-terremoto e i Cava, sempre più potenti e dalle vedute differenti da quelle dei Graziano, non ci stanno più ad essere un'ombra di quest'ultimi. Ad incrinare ancor più i rapporti fra le due cosche, saranno dapprima (inizi anni '80) l'adesione dei Cava alla Nuova Famiglia e l'adesione dei Graziano alla Nuova Camorra Organizzata e poi l'alluvione che travolse Sarno, Quindici, Siano e Bracigliano. È il 1982 quando un commando del clan Cava, armi alla mano, fa irruzione nel comune di Quindici con l'intento di uccidere il sindaco-boss Raffaele Pasquale Graziano. Graziano riesce a sfuggire al commando (trova rifugio in una soffitta), ma il messaggio dei Cava è forte e chiaro: Quindici non appartiene ai Graziano (che di sindaci, dagli anni '70 agli anni 2000, ne hanno avuti cinque, due uccisi e tre rimossi dall'incarico per rapporti con la camorra). La faida, protrattasi per decenni, oltre che da vendette trasversali, sequestri (come il tentato sequestro a scopo omicidiario del boss Salvatore Luigi Graziano[22] ed il sequestro di Vincenzo Cava), vittime innocenti, killer giovanissimi (Guerino Scafuro, figlio di un esponente dei Graziano, di anni ne aveva appena 13, quando uccise un giovane affiliato dei Cava[23]), giubbotti antiproiettile e auto blindate adoperate per scampare alla furia rivale, è contrassegnata da due stragi: la Strage di Scisciano e la Strage delle Donne. La prima avviene a Spartimento, una frazione ubicata nell'agro del comune di Scisciano, il 21 novembre del 1991; i Cava, quel giorno, massacrano a colpi di kalashnikov Eugenio Graziano (30 anni, ex sindaco di Quindici), Vincenzo Graziano (22 anni, cugino di Eugenio) e Gaetano Santaniello (21 anni, guardaspalle dei due Graziano). Macabri i particolari: i killer hanno reso irriconoscibile, a colpi di kalashnikov, il volto di Eugenio Graziano. Ad una brutalità simile, i Graziano risposero con la stessa brutalità: Vincenzo Cava, padre del boss Biagio Cava, subì la stessa sorte di Eugenio Graziano. La seconda strage, che macchierà i giornali anche a New York, è datata 26 maggio 2002 e passerà alla storia come "Strage delle Donne". Furono le donne dei boss dei Graziano ad organizzarla e quelle dei Cava a patirla (morirono sorella, cognata e figlia del boss Biagio Cava, frattanto detenuto a Nizza). La risposta dei Cava alla strage sono stati 3 omicidi (tra cui quelli di Antonio e Francesco Graziano, vittime innocenti, uccisi nel giugno del 2004 giacché parenti del boss Adriano Sebastiano Graziano)[24] e il tentato omicidio del boss Felice Graziano. Di lì in poi la faida, a differenza dei due clan, ancora operativi e potenti, s'è lentamente diluita nel tempo. L'operato dello Stato e di associazioni come Libera ha restituito, negli anni, speranza ad una terra difficile come il Vallo.[25][26]
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