Prima guerra d'indipendenza italiana
conflitto del 1848-1849, parte del Risorgimento italiano / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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La prima guerra d'indipendenza italiana è un episodio del Risorgimento. Fu combattuta dal Regno di Sardegna e da volontari italiani contro l'Impero austriaco e altre nazioni conservatrici dal 23 marzo 1848 al 22 agosto 1849 nella penisola italiana.
Prima guerra d'indipendenza (guerra règia) parte del Risorgimento | |||
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La Meditazione, allegoria dell'Italia del 1848 con il libro della Storia e la croce del martirio delle Cinque giornate di Milano[1] | |||
Data | 23 marzo 1848 - 22 agosto 1849 | ||
Luogo | Regno Lombardo-Veneto e Regno di Sardegna | ||
Casus belli | Moti del 1848 | ||
Esito | Vittoria dell'Austria e restaurazione asburgica nel Lombardo-Veneto | ||
Modifiche territoriali | Nessuna | ||
Schieramenti | |||
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Comandanti | |||
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Effettivi | |||
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Il conflitto fu preceduto dallo scoppio della rivoluzione siciliana del 1848 contro i Borbone. Fu determinato dalle sommosse delle città di Milano (Cinque giornate) e Venezia che si ribellarono all'Impero austriaco e si dettero governi propri.
Una parte del conflitto, quella combattuta dal re di Sardegna Carlo Alberto contro l'Austria in Italia settentrionale, è associata al genere della "guerra regia" e fu composta da due campagne militari. In entrambe le campagne fu il Regno di Sardegna ad attaccare l'Impero austriaco e in entrambe fu sconfitto, perdendo la guerra. Gli episodi determinanti della prima e seconda campagna furono la battaglia di Custoza e la battaglia di Novara.
All'inizio della guerra regia il Regno di Sardegna fu appoggiato dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie che però si ritirarono quasi subito senza combattere. Volontari dell'esercito pontificio e di quello napoletano si unirono tuttavia agli altri volontari italiani e combatterono contro l'Austria.
Durante la guerra regia scoppiarono in diversi stati preunitari (Stato Pontificio, Granducato di Toscana, ecc) moti rivoluzionari non riconducibili agli ideali liberali del Piemonte. La storiografia fa confluire tali moti, assieme ai fatti della rivoluzione siciliana successivi al 23 marzo 1848, nella prima guerra di indipendenza associandoli alla “guerra di popolo” che in questo contesto fallì, terminando con la restaurazione delle vecchie istituzioni.
Per le rivoluzioni scoppiate al loro interno, il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio si trovarono schierati nella guerra di popolo sul fronte opposto rispetto a quello della guerra regia, nella quale inizialmente erano favorevoli al Piemonte.
Nel contesto della guerra di popolo, infine, diede il suo primo contributo al Risorgimento quale comandante militare Giuseppe Garibaldi, anch'egli sconfitto come il re di Sardegna Carlo Alberto che abdicò in favore del suo primogenito Vittorio Emanuele.
Il 1848 registrò una serie di moti rivoluzionari che cominciarono a gennaio con la rivoluzione siciliana scoppiata a Palermo contro il potere borbonico. Ciò portò Ferdinando II delle Due Sicilie a promulgare la costituzione (29 gennaio), seguito da analoghi provvedimenti di Leopoldo II di Toscana (17 febbraio), Carlo Alberto re di Sardegna (Statuto Albertino del 4 marzo) e di papa Pio IX (Statuto del 14 marzo).
Il 23 febbraio, intanto, scoppiava a Parigi la Rivoluzione francese del 1848 contro Luigi Filippo Borbone d'Orleans. Da marzo le rivolte divamparono anche nell'Impero austriaco dove Milano (Cinque giornate di Milano) e Venezia (Repubblica di San Marco) si ribellarono al potere degli Asburgo. I combattimenti furono particolarmente aspri a Milano, dove il comandante dell'esercito del Lombardo-Veneto, il maresciallo austriaco Josef Radetzky, fu costretto ad abbandonare la città. In conseguenza di questi eventi altre rivolte scoppiarono nel Lombardo Veneto, come accadde a Como.
Il giorno dopo la conclusione delle cinque giornate di Milano, il 23 marzo 1848, il re di Sardegna Carlo Alberto mosse guerra contro l'Impero austriaco. Egli fu probabilmente spinto dal tentativo sia di evitare una rivoluzione nel proprio Paese, apparendo come un monarca liberale, sia di sfruttare l'occasione delle ribellioni nel Lombardo-Veneto per ingrandire il proprio regno[9]. Ebbe così inizio la prima guerra d'indipendenza.
A causa delle rivolte di Milano e Venezia, a partire dal 23 marzo 1848, gli austriaci dovettero ritirarsi nelle quattro fortezze (Peschiera, Verona, Mantova e Legnago) che nel Lombardo-Veneto costituivano il nucleo difensivo dell'esercito asburgico. Ad est, ad ovest e a sud di questo quadrilatero cominciarono a raggrupparsi le forze dei volontari e degli stati italiani che man mano decidevano di entrare in guerra contro l'Austria. Solo a nord, attraverso un corridoio lungo la costa orientale del lago di Garda, le forze austriache riuscivano a mantenere i collegamenti con la madrepatria[10].
L'esercito piemontese
Mobilitato il 1º marzo 1848, al momento dell'insurrezione di Milano l'esercito del Regno di Sardegna contava i 4/5 dei suoi effettivi, e cioè 65000 uomini[11]. A capo dell'esercito piemontese erano Carlo Alberto, il ministro della Guerra generale Antonio Franzini[12] e il generale Eusebio Bava. Quest'ultimo aveva anche il compito di comandare il 1º Corpo d'armata formato dalle due divisioni dei generali Federico Millet d'Arvillars e Vittorio Garretti di Ferrere. Il 2º Corpo d'armata era invece guidato da Ettore Gerbaix De Sonnaz: le sue due divisioni erano comandate da Giovanni Battista Federici e da Mario Broglia di Casalborgone. Completava lo schieramento la 5ª Divisione di riserva che era agli ordini di Vittorio Emanuele, erede di Carlo Alberto[13]; mentre il comando dell'artiglieria era affidato a Ferdinando di Savoia[14].
Prima di passare il Ticino, il fiume che marcava il confine tra il Regno di Sardegna e il Lombardo-Veneto, Carlo Alberto decise che la bandiera di guerra sarebbe stata il tricolore verde, bianco e rosso con lo stemma sabaudo al centro[15].
Gli altri eserciti italiani e i volontari
Tutti gli altri monarchi della penisola che avevano aderito alla guerra contro l'Austria per accontentare le rispettive popolazioni, inviarono un contingente militare verso il Lombardo-Veneto, ma senza condividere realmente lo spirito rivoluzionario delle Cinque giornate di Milano.
Il primo ad arrivare sul posto fu l'esercito pontificio con un contingente di 17-18000 uomini (con circa 900 cavalleggeri e 22 cannoni). Comprendeva una prima divisione regolare (10-11000 uomini di cui 3-4000 volontari) al comando del piemontese Giovanni Durando, e una seconda divisione (circa 7000 uomini) di appartenenti alla Guardia Civica Mobile e di volontari diretta dal repubblicano Andrea Ferrari. Il corpo d'armata entrò nel Lombardo-Veneto dalla Legazione pontificia di Ferrara[16].
Il Granducato di Toscana mandò verso Mantova un corpo di circa 6000 uomini, parte di truppe regolari, parte di volontari. Il contingente era comandato prima da Ulisse d'Arco Ferrari, poi da Cesare De Laugier. Queste truppe erano di scarso valore tecnico ma molto motivate, specie il cosiddetto "battaglione degli studenti", comandato dal professor Ottaviano Fabrizio Mossotti, astronomo[17].
A Parma e Modena, i rispettivi duchi Carlo II e Francesco V avevano abbandonato il trono di fronte alle sommosse popolari permettendo la costituzione di esecutivi provvisori. I nuovi governanti inviarono verso il Lombardo-Veneto formazioni di alcune centinaia di volontari[18] come quella da Ferrara di circa 130 combattenti, i cosiddetti bersaglieri del Po.
Il contributo maggiore alla guerra avrebbe dovuto darlo Ferdinando II delle Due Sicilie che promise di mandare un corpo di 25000 uomini. Il contingente non partì in tempo e quando si mise in marcia contava circa 11000 uomini. Ferdinando II era politicamente troppo lontano dalle idee liberali piemontesi e soprattutto doveva riconquistare la Sicilia dove il 26 marzo 1848 si era costituito un nuovo Stato guidato da Ruggero Settimo[19][20]. Comandate da Guglielmo Pepe, le truppe napoletane arrivarono sul teatro di guerra solo a metà maggio quando, in procinto di attraversare il Po da sud, ricevettero l'ordine di tornare indietro. Guglielmo Pepe e poche unità a lui fedeli ignorarono l'ordine, entrarono in Veneto e parteciparono ai combattimenti contro l'Austria[21].
La coalizione antiaustriaca poteva però contare su altre forze. Si trattava dei volontari lombardi, nella misura di 4500 uomini, dei volontari napoletani, 1600 uomini, e dei volontari veneti della Repubblica di San Marco. Questi ultimi, circa 9000 uomini, furono organizzati come unità regolari da Daniele Manin e schierati principalmente contro le forze nemiche che avrebbero passato da est l'Isonzo per dare manforte a Radetzky. Erano comandati dai generali Carlo Zucchi e Alberto La Marmora[22].
Tutte queste formazioni erano completamente scoordinate fra loro ed erano animate da politiche e ideali molto differenti: si passava da coloro che aspiravano ad unirsi al Regno di Sardegna a coloro che sognavano un'Italia repubblicana.
L'esercito austriaco
Nel Lombardo-Veneto l'esercito austriaco era comandato dal generale Josef Radetzky, un uomo che grazie al suo passato poteva permettersi un'invidiabile autonomia dalla burocrazia di Vienna. Radetzky aveva organizzato l'armata in Italia secondo le sue convinzioni, e cioè che le esercitazioni erano necessarie anche in tempo di pace, teoria seguita solo da pochi all'epoca. Il risultato fu che quando scoppiò la guerra i suoi soldati erano pronti e, soprattutto, conoscevano il territorio in cui avrebbero combattuto[24].
Prima delle insurrezioni a Milano e Venezia, Radetzky disponeva di 70000 uomini divisi in due corpi d'armata, il 1º in Lombardia e il 2º in Veneto, per un totale di 61 battaglioni di fanteria. Di questi ultimi dopo le rivolte, fra caduti, rese e diserzioni, ne rimanevano efficienti 41, ai quali bisogna aggiungere 35 squadroni di cavalleria e 100 pezzi di artiglieria. Considerando che la forza media dei battaglioni austriaci era di quasi 1000 fanti, le forze complessive di Radetzky all'inizio della guerra sono stimabili in 50000 uomini[25]. Egli ordinò inoltre che un corpo di riserva di 20000 soldati si raccogliesse in fretta al comando del generale Laval Nugent sulla sponda austriaca dell'Isonzo e in Carinzia.
L'avanzata piemontese verso il Quadrilatero
Il 23 marzo 1848 il Regno di Sardegna dichiarò guerra all'Impero austriaco. Il 25 e il 26 marzo due avanguardie attraversarono il fiume Ticino entrando in territorio nemico. Il grosso dell'esercito piemontese passò il fiume il 29[11]. Lo stesso giorno le prime tre divisioni entrarono a Pavia acclamate dal popolo, mentre più a nord, a Lodi, truppe sabaude in avanscoperta appresero di un concentramento austriaco presso Montichiari, 20 km a sud-est di Brescia, sul fiume Chiese. Carlo Alberto, ritenendo di non avere forze sufficienti, decise di non dare battaglia e di proseguire a sud con il grosso dell'esercito verso Cremona, sul Po. Da qui proseguì a est per Marcaria e passò l'Oglio il 7 aprile, giungendo a una ventina di chilometri da Mantova, la fortezza più meridionale del Quadrilatero[27].
Solo una delle due avanguardie[28] comandata dal generale Michele Bes che aveva passato il Ticino a Boffalora ed era entrata a Milano, si diresse verso Brescia, che fu raggiunta il 31 marzo. Quello stesso giorno Radetzky riparava a Peschiera e due giorni dopo era a Verona. L'8 aprile il grosso delle sue truppe, il 1º Corpo, era disposto nel Quadrilatero presso Villafranca. L'esercito piemontese, intanto, si era dispiegato lungo la sponda destra[29] del Mincio[27][30].
Questa fase della guerra è stata molto criticata da storici e testimoni per la lentezza con la quale l'esercito piemontese attraversò la Lombardia praticamente sgombra dalle truppe austriache.
L'attraversamento del Mincio
Poiché tutti i ponti sul Mincio erano ancora tenuti dalle retroguardie austriache, l'8 aprile il generale Bava mandò la divisione del generale d'Arvillars ad impadronirsi del ponte di Goito. Lo stesso giorno, dopo accaniti combattimenti durante i quali i genieri austriaci riuscirono a far saltare parzialmente il ponte, reparti di bersaglieri e della marina (Real Navi) riuscirono a passare sull'altra riva. Verso le 4 del pomeriggio il lavoro dei genieri piemontesi consentì il passaggio di altri 3 battaglioni, mentre gli austriaci ripiegavano su Villafranca. In questo che fu il primo vero scontro fra piemontesi e austriaci della guerra, rimase ferito gravemente il colonnello Alessandro La Marmora, fondatore dei bersaglieri[31].
Il giorno dopo, più a nord, i piemontesi si impossessarono del ponte di Monzambano e l'11 aprile gli austriaci abbandonarono definitivamente la sponda sinistra del Mincio raccogliendosi presso Verona mentre i piemontesi occupavano Valeggio[32].
Più ad est, il 17 aprile, il nuovo corpo d'armata austriaco di Nugent varcava l'Isonzo con il duplice scopo di soccorrere Radetzky e di rioccupare il Veneto, e il 23 entrava a Udine. Dall'altro lato il 26 aprile metà dell'esercito piemontese varcò il Mincio. Due giorni dopo passarono altre due divisioni e tutto l'esercito si schierò a semicerchio[33] di modo da minacciare Verona e difendere il blocco di Peschiera, il cui assedio iniziò il 27. Tale disposizione metteva anche in pericolo la linea dell'Adige, lungo la quale si era schierato l'esercito austriaco, e la strada che da Verona portava a Trento e quindi all'Austria[34].
L'avanzata piemontese verso l'Adige: Pastrengo
Di fronte alla minaccia piemontese, Radetzky aveva fatto occupare sulla destra dell'Adige la posizione avanzata di Pastrengo. Il 30 aprile, il 2º Corpo di De Sonnaz mosse per eliminare la testa di ponte nemica (14000 piemontesi contro 8000 austriaci). Per tre ore, dalle 11 alle 14, l'avanzata fu lenta e difficile. Carlo Alberto, spazientito, si portò allora fra la Brigata "Cuneo" e la Brigata "Piemonte", con tre squadroni di carabinieri a cavallo. In quel momento l'avanzata piemontese riprese e alcuni carabinieri furono raggiunti da una scarica di fucileria austriaca. Dopo un momento di sbandamento, il maggiore Alessandro Negri di Sanfront lanciò al galoppo i tre squadroni di carabinieri contro il nemico mentre il Re e il suo seguito si univano alla carica: la linea austriaca fu sfondata; mentre anche la fanteria attaccava battendo il nemico che si ritirava[36].
Giunti fino all'Adige, i piemontesi furono tuttavia fermati da un'azione dimostrativa di Radetzky che all'avanzata nemica aveva risposto con un attacco al centro dello schieramento piemontese, sulla direttrice Verona-Peschiera. L'assalto fu facilmente respinto, ma valse a distogliere il comando di Carlo Alberto dal tentativo di varcare l'Adige. La battaglia di Pastrengo si risolse con una vittoria piemontese e questo giovò al morale delle truppe sabaude. Il successo, che determinò l'eliminazione della testa di ponte austriaca verso Peschiera fu, tuttavia, incompleto poiché la riva sinistra dell'Adige rimase saldamente nelle mani di Radetzky[37].
L'uscita dal conflitto dello Stato Pontificio
In questa atmosfera Pio IX pronunciò l'allocuzione Non semel al concistoro del 29 aprile 1848, in cui si sconfessava l'azione del suo esercito penetrato in Veneto. Il cambio di posizione fu causato dall'impossibilità politica di combattere una grande potenza cattolica quale era l'Austria[38].
Le truppe pontificie ed il loro comandante Giovanni Durando ignorarono la volontà del Papa e proseguirono la campagna; tuttavia le conseguenze del gesto di Pio IX furono notevoli. La notizia dell'allocuzione arrivò al quartier generale piemontese il 2 maggio, producendovi una grande apprensione. Soprattutto impressionato ne fu Carlo Alberto che scrisse al ministro Thaon di Revel: «L'allocuzione del Papa è un fatto che può avere conseguenze immense. Certamente farà del male alla causa dell'indipendenza italiana»[39].
L'avvicinamento a Verona: Santa Lucia
Con la battaglia di Pastrengo Carlo Alberto portò l'ala sinistra del proprio esercito fino all'Adige. Ora avrebbe voluto, con un'azione spettacolare, ricacciare gli austriaci dentro Verona e, cogliendo l'occasione dell'apertura della Camera dei deputati, annunciare un brillante successo. Di fronte aveva l'esercito nemico diviso in tre parti: la prima sulla sponda sinistra dell'Adige fino all'altezza di Pastrengo a nord, la seconda nei villaggi a ovest di Verona, la terza dentro le mura di Verona[40].
Ai piemontesi sembrò abbastanza facile poter superare la linea austriaca davanti Verona[41] e il 6 maggio 1848 cominciò l'avanzata. Nonostante le disposizioni al riguardo, i movimenti delle varie unità piemontesi mancarono di sincronismo. Sul villaggio di San Massimo doveva concentrarsi l'attacco principale, la cui avanguardia, la Brigata "Regina" della 1ª Divisione del 1º Corpo, venne fatta segno di un violento fuoco nemico. L'altra brigata della divisione, l'"Aosta", si trovò subito anch'essa gravemente impegnata davanti al paesino di Santa Lucia che, a causa anche della vaghezza di alcune disposizioni del piano, divenne man mano il fulcro dell'attacco piemontese[42].
Di fronte a Carlo Alberto che era in posizione avanzata, il generale Bava, contravvenendo al piano stabilito che gli imponeva di fermarsi ad aspettare le altre unità, alle 10 attaccò Santa Lucia con la Brigata "Aosta" esponendosi all'intenso fuoco austriaco. Solo alle 11 giunse in suo soccorso la Brigata Guardie della divisione di riserva, con la quale riuscì a minacciare di aggiramento il villaggio. Arrivati i primi elementi della Brigata "Regina" e della 2ª Divisione del 1º Corpo, fra mezzogiorno e mezzo e l'una fu sferrato l'attacco generale piemontese. L'assalto si concentrò cruento presso il cimitero di Santa Lucia accanitamente difeso dagli austriaci che, sovrastati dal nemico, dovettero alla fine abbandonare le loro posizioni e ripiegare su Verona[43].
I piemontesi non sfruttarono l'occasione e si fermarono. Alle due, inoltre, giunse la notizia che l'attacco contro i borghi di Croce Bianca e Chievo, sferrato dalla 3ª Divisione del 2º Corpo piemontese, era fallito. La novità indusse Carlo Alberto a ordinare il ripiegamento. Proprio allora si ebbe un energico ritorno offensivo austriaco che portò gli uomini di Radetzky fin dentro Santa Lucia che intanto era stata abbandonata dai piemontesi. Alle sei del pomeriggio lo scontro era terminato: gli austriaci avevano respinto l'attacco nemico e contavano 72 morti, 190 feriti e 87 prigionieri. I piemontesi lamentavano invece 110 morti e 776 feriti[44]. Con la battaglia di Santa Lucia i piemontesi persero l'iniziativa della campagna militare, che passò agli austriaci.
Il passaggio austriaco dell'Isonzo
Mentre Carlo Alberto combatteva nel Quadrilatero, nel Veneto si svolgeva una lotta parallela che rimase quasi completamente separata dalla campagna piemontese. Il governo della Repubblica di San Marco, dal canto suo, riuscì appena a stabilire un coordinamento con i diversi comitati locali e, alla ricerca di un comandante che riordinasse l'armata, ottenne dal Piemonte il generale Alberto La Marmora[45].
Nel campo avverso, il generale austriaco Laval Nugent, concentrate le proprie forze a Gorizia, il 17 aprile 1848 passò l'Isonzo e iniziò a marciare nel Veneto con circa 12-13000 uomini; di fronte a lui il nemico schierava forze notevolmente inferiori. Lo stesso giorno Nugent pose il blocco a Palmanova proseguendo con il grosso delle forze su Udine che il 22, dopo un bombardamento d'artiglieria, si arrese. Il 23 gli austriaci occuparono la città. A questo punto Nugent puntò sul Tagliamento[46].
Sul fiume, Alberto La Marmora disponeva di appena 1.300 uomini contro il corpo austriaco che intanto era salito a 16-17000 uomini. Decise quindi, dopo aver fatto saltare un ponte, di ritirarsi più a ovest, sul Piave. Intanto il 23 aprile Giovanni Durando era giunto da sud sul Po, ad Ostiglia, con la divisione regolare del corpo pontificio (10-11000 uomini); mentre la 2º, di guardie nazionali e di volontari (7000 uomini) del colonnello Ferrari era ancora in cammino[47].
La guerra dei volontari pontifici
Durando, che rifiuterà con i suoi uomini l'ordine di ritirata di Pio IX, giunse a Treviso il 29 aprile, mentre Alberto La Marmora veniva assegnato alla difesa di Venezia insorta. A nord, il 5 maggio, gli austriaci entrarono a Belluno e il 6 una brigata si portò ben oltre il Piave, a Feltre. Intanto a Treviso arrivavano i primi battaglioni della divisione del colonnello Ferrari. Persuaso che gli austriaci avrebbero puntato da nord su Bassano del Grappa, Durando portò lì la sua divisione e dispose che Ferrari si disponesse con le sue forze presso Montebelluna[48].
Nel pomeriggio dell'8 maggio, invece, l'avanguardia austriaca del generale Nugent forte di 1000 uomini si scontrò con gli avamposti di Ferrari, 300 uomini schierati a Onigo, 10 km a nord-ovest di Montebelluna. Ferrari allora arretrò un poco la difesa, sul poggio di Cornuda, ultimo ostacolo naturale al nemico mirante a dilagare in pianura. La mattina del 9 maggio riprese la battaglia: 2200 austriaci con 6 cannoni attaccarono i pontifici che non avevano ancora ricevuto rinforzi, né dal loro quartier generale, né da Durando. Quest'ultimo, indeciso, mandò tuttavia un biglietto mezz'ora dopo mezzogiorno: «Vengo correndo»[49].
In prima linea, mentre i soldati di Nugent si rinforzavano ancora, Ferrari inviò ai suoi un battaglione da Montebelluna e, per guadagnare tempo, ordinò a 50 dragoni di caricare gli austriaci. Il sacrificio fu quasi completo (i caduti furono 40) ma si ottenne una pausa nell'avanzata nemica. Successivamente gli austriaci, giunti altri rinforzi, iniziarono una manovra avvolgente da Feltre verso Cornuda: oramai erano 6000 contro 2000 pontifici che, stanchissimi, correvano il rischio di essere circondati. Per cui alle 5 pomeridiane, dopo che il combattimento si trascinava da 12 ore, Ferrari si decise, visto che nessun rinforzo arrivava da Durando, a ordinare la ritirata. Quest'ultima fu disordinata e continuò fino a Treviso[50].
L'attacco austriaco a Vicenza
Dopo la battaglia di Cornuda la situazione in Veneto divenne per gli italiani sempre più grave. Durando in campo aperto non disponeva che di 4000 uomini e il 18 maggio si portava con alcune unità a difesa di Treviso, città che il generale austriaco Nugent avrebbe voluto occupare. Radetzky insisteva invece affinché le forze provenienti da est raggiungessero subito Verona per congiungersi al grosso dell'armata. Intorno al 17 maggio, adducendo il riacutizzarsi di una vecchia ferita, Nugent lasciava il comando al generale Georg Thurn Valsassina (1788-1866)[51]. Thurn, approfittando dello spostamento delle truppe di Durando da Piazzola, compì la sua prima missione attraversando il fiume Brenta e attaccò Vicenza che respinse l'attacco. Difendevano la città 5000 uomini, soprattutto pontifici. Queste forze però si andavano ingrossando poiché man mano vi giungevano vari reparti veneti, forze di Durando e il battaglione del generale Giacomo Antonini, un affiliato alla Giovine Italia che aveva riunito in Francia un reparto cosmopolita di volontari[52].
Il 22 maggio Radetzky, cambiando idea sulla necessità di congiungere le forze, comandò a Thurn di attaccare Vicenza che si trovava ora presidiata da 11000 uomini, oltre alla Guardia Nazionale e i cittadini. La battaglia si sviluppò tra la notte del 23 e la mattina del 24 e vide gli austriaci attaccare la città da occidente ostacolati da allagamenti causati dai difensori che resistevano e contrattaccavano tenacemente. Anche una colonna austriaca inviata sui Colli Berici non ebbe migliore fortuna e Thurn alle nove del mattino ordinò la ritirata su Verona. Infine, le forze di Thurn si unirono a quelle di Radetzky il 25 maggio 1848[53].