Prostituzione nell'antica Grecia
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La prostituzione costituiva parte della vita quotidiana degli abitanti dell'antica Grecia. Nei maggiori centri urbani, ed in particolarmente nelle città portuali, quest'attività occupava un numero significativo di persone, finendo col rappresentare una parte importante dell'attività economica. Nella stragrande maggioranza delle polis la prostituzione era ampiamente legalizzata; il bordello era quindi un'istituzione a norma di legge amministrata e regolata dal governo locale.
Nell'antica Atene, il celebre legislatore e giurista Solone avrebbe anche avuto il merito, tra le altre cose, di aver creato bordelli di stato con prezzi abbordabili; questo per venire incontro soprattutto alle esigenze giovanili. La pratica della prostituzione ha coinvolto entrambi i sessi, seppur in maniera alquanto differente: non vi erano pertanto solo donne di ogni età, ma anche giovani uomini che si davano alla prostituzione maschile, con una clientela quasi esclusivamente maschile.
Allo stesso tempo le relazioni extraconiugali con una donna libera venivano trattate molto severamente; nel caso di adulterio il marito offeso aveva il diritto legale di uccidere sul posto l'autore del reato, se colto sul fatto; lo stesso valeva per la violenza sessuale. Alle adultere, ma per estensione alla totalità delle prostitute, era vietato sposarsi o prendere parte a cerimonie pubbliche[1]; ora, in quanto l'età media in cui si contraeva matrimonio era di circa trent'anni per gli uomini, il giovane ateniese non aveva altra scelta - se voleva intrattenere rapporti sessuali - che rivolgersi alle prostitute o agli schiavi (maschi o femmine che fossero).
L'esistenza di una clientela femminile che potesse rivolgersi a coloro che esercitavano la prostituzione non è invece ben documentata: vi è una menzione però nel Simposio di Platone nei riguardi delle ἑταιρίστριαι-hetairistriai in cui viene specificato che queste "seguaci delle etere", non avendo una gran predisposizione nei confronti degli uomini, si trovano ad esser piuttosto inclini nei confronti delle donne[2]. Si è ipotizzato che tali intrattenitrici fossero prostitute che mantenevano una clientela lesbica.
Luciano di Samosata, molto tempo dopo, si trova anch'egli a toccare l'argomento della presunta pratica di prostituzione lesbica nei suoi Dialoghi delle cortigiane (cap. V), ma è ben possibile che egli semplicemente alluda al brano precedente di Platone.