Storia del fascismo italiano
Storia del fascismo italiano (1914-1945) / Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
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La storia del fascismo italiano prende avvio alla fine del 1914 con la fondazione, da parte del giornalista Benito Mussolini, del movimento dei Fasci d'azione rivoluzionaria, in seno ad un movimento interventista nella prima guerra mondiale.
Le espressioni ventennio fascista o, semplicemente, ventennio si riferiscono al periodo che va dalla presa del potere del fascismo e di Benito Mussolini, ufficialmente avvenuta il 31 ottobre 1922, sino alla fine del regime, avvenuta formalmente il 25 luglio 1943. Specialmente dalla propaganda del regime, veniva inoltre utilizzata la locuzione Italia fascista per indicare il Regno d'Italia sotto il governo di Mussolini e del Partito Nazionale Fascista.
All'indomani della prima guerra mondiale il Regno d'Italia si trovò in una situazione economica, politica e sociale precaria e difficile. Il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre 650 000 caduti e circa 1 500 000 tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse nell'Italia nord-orientale, divenuta fronte bellico con il dislocamento e, sovente, la perdita della casa e di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggiti dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.
Il sorgere del Jugoslavia alle frontiere orientali pose una pesante e decisiva ipoteca sulle idee di irredentismo italiano, con l'acquisizione dei territori promessi e inclusi nel patto di Londra: gli altri Alleati si erano appoggiati ai quattordici punti del presidente statunitense Woodrow Wilson per assegnare allo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi stesso (in slavo SHS, Slovenaca, Hrvata i Srba, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni a partire dal 1º dicembre) la Dalmazia, Fiume (che secondo il trattato del 1915 sarebbe dovuto restare all'Impero austro-ungarico o, in subordine, a un piccolo Stato croato) e l'Istria orientale. La città - dal canto suo - aveva espresso fin dagli ultimi fuochi della guerra la volontà di essere riunita all'Italia, ponendo così il governo di Roma nell'imbarazzo di dover accettare i voti della cittadinanza fiumana e, contemporaneamente, entrare in urto con Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Regno di Jugoslavia. Infine, nonostante la fine delle ostilità con gli Imperi centrali, l'Italia restava coinvolta nella campagna di Albania, dai contorni incerti e dagli obiettivi ancora più incerti, mentre il Montenegro, Stato vincitore della guerra e col quale l'Italia per motivi dinastici e strategici intratteneva rapporti privilegiati, veniva annesso alla Jugoslavia con il consenso delle altre potenze alleate e ciò venne recepito come un'altra grave ferita alla politica adriatica italiana.
Alla situazione politica internazionale difficile si aggiungeva una situazione economica interna drammatica: l'Italia dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone e aveva contratto pesantissimi debiti con gli Stati Uniti. Le casse statali erano quasi vuote, anche perché la lira, durante il conflitto, aveva perso buona parte del suo valore, con un costo della vita aumentato di almeno il 450%.[senza fonte] Alla mancanza di materie prime faceva seguito anche la progressiva smobilitazione del Regio Esercito (dopo averne impiegato una grandissima parte come manodopera per le immediate necessità del dopoguerra e nel primo raccolto del 1919) e la fine della produzione bellica, che implicava una riconversione delle fabbriche. La mancanza di un solido mercato interno e la crisi di quelli esteri impediva - tuttavia - che la produzione potesse trovare sfogo e, di conseguenza, molte manifatture semplicemente chiusero.
In breve, inoltre, l'Italia si trovò ad affrontare il problema dell'assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell'industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati. Molte delle promesse fatte durante la guerra a costoro (come l'espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocando malcontento e delusione. L'attrito fra le masse di ex combattenti e quelle operaie si delineò immediatamente, con l'accusa nei confronti dei secondi di essersi "imboscati" e dei primi di essere stati "servi della guerra borghese". In un primo momento ciò provocò un'importante crescita di partiti e movimenti di sinistra, in particolar modo del Partito Socialista Italiano, la cui componente minoritaria rivoluzionaria era galvanizzata dal successo della rivoluzione russa. La fine della guerra, delle restrizioni politiche e della censura permise di riprendere le attività propagandistiche e sindacali. A destra, invece, le formazioni nazionaliste e interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace, mentre attorno ai circoli dannunziani veniva creata l'idea della "vittoria mutilata", che sarebbe poi divenuta il simbolo della delusione dell'opinione pubblica italiana.
Lo Stato si venne quindi a trovare sotto un triplice attacco: dall'estero, con l'evidente tentativo delle potenze alleate di ridimensionare la portata della vittoria e delle rivendicazioni italiane a vantaggio del Regno di Jugoslavia.[senza fonte] Dalle formazioni socialiste e sindacali, che cominciarono una campagna para-rivoluzionaria, soprattutto attraverso una durissima campagna di scioperi. Dalle formazioni nazionaliste, la cui campagna denigratoria verso l'azione del governo sarebbe poi culminata nel settembre 1919 con l'Impresa di Fiume. A risentire di questa instabilità fu soprattutto l'ordine pubblico, con l'acuirsi del radicalismo e della violenza, l'urto fra le compagini socialiste e internazionaliste (compresse durante gli anni del conflitto e ora libere di agire nuovamente) e quelle nazionaliste e interventiste. Subito dopo la fine della prima guerra mondiale, l'iniziativa politica rimase nelle mani dei movimenti sindacali rappresentati dalle leghe socialiste e popolari che lanciarono un'escalation di scioperi e occupazioni, storicamente nota come "Biennio rosso", culminata nell'estate del 1920 in un'occupazione generalizzata di terreni agricoli, opifici e installazioni industriali in quasi tutta l'Italia, con esperimenti di autogestione, autoproduzione e la creazione di consigli di fabbrica sul modello dei soviet.[1]
I fasci di combattimento e la genesi del fascismo
Immediatamente prima della fine del conflitto mondiale, Benito Mussolini, uno degli esponenti più importanti[2] dell'interventismo, agì cercando varie sponde per dar vita a un movimento che imprimesse alla guerra una svolta rivoluzionaria. Tuttavia i suoi sforzi riuscirono a concretizzarsi solo sei mesi dopo il termine delle ostilità, quando un piccolo gruppo di reduci e intellettuali interventisti, nazionalisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, si radunò in un locale di Piazza San Sepolcro a Milano, dando vita ai Fasci di Combattimento, il cui programma[3] si configurava come rivoluzionario, socialista e nazionalista allo stesso tempo.
Dagli strati sociali più scontenti e soggetti alle suggestioni della propaganda nazionalista che, a seguito dei trattati di pace, si infiammò e alimentò il mito della vittoria mutilata, emersero organizzazioni di reduci e, in particolare, quelle che raccoglievano gli ex-arditi. Queste ultime, riconosciute subito dai comandi militari come fonte di turbolenza politica, furono sciolte e i membri congedati, restituendo alla vita civile decine di migliaia di ex soldati agguerriti e portatori di un'ideologia aggressiva, violenta e gerarchizzante. Fra costoro, e fra gli altri congedati al malcontento generalizzato, si faceva largo un risentimento causato dal non aver ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in anni di duri combattimenti al fronte e per le offese subite dai militanti socialisti, giunte fino alla bastonatura degli ufficiali in uniforme e all'insulto nei confronti dei decorati che ostentassero le medaglie. Come numerosi storici hanno fatto notare (ad esempio Federico Chabod[4]) è poi soprattutto dalla piccola borghesia, in particolare quella rurale, che il primitivo fascismo attinge i suoi militanti. Questo strato sociale - tendenzialmente costretto in Italia da un proletariato industriale e agricolo più o meno organizzato e rappresentato da partiti di massa (PSI e popolari) e sindacati e l'alta borghesia, protagonista ed egemone dell'Italia del periodo liberale - con la guerra aveva acquisito un ruolo fondamentale, fornendo alle forze armate italiane il nerbo degli ufficiali di complemento.
In qualche misura, a fronte dunque delle altre classi sociali, già organizzate o rappresentate, la piccola borghesia nel dopoguerra si trovò priva di referenti e minacciata di essere riportata a un ruolo di secondo piano, minacciata com'era dal basso dalle agitazioni socialiste e, dall'alto, dal grande capitalismo che prometteva di assorbirne mercati e risorse. La frustrazione per questa situazione fu terreno fertile per la fondazione il 23 marzo 1919 a Milano del primo fascio di combattimento, adottando simboli che sino ad allora avevano contraddistinto gli arditi, come le camicie nere e il teschio.
Le elezioni del 1919 e lo squadrismo
Nel movimento fascista, oltre ad arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari ed ex combattenti d'ogni arma fra i quali si ricorda personaggi come Arturo Toscanini, Filippo Marinetti e Pietro Nenni [5]confluirono successivamente anche elementi di dubbia moralità e avventurieri. Appena 20 giorni dopo la fondazione dei fasci di combattimento le neonate squadre d'azione si scontrarono con i socialisti e condussero l'assalto all'Avanti! (un quotidiano politico socialista), devastandone la sede: l'insegna del giornale fu divelta e portata a Mussolini come trofeo. Nel giro di qualche mese i Fasci si diffusero in tutta Italia, sebbene con una consistenza assai scarsa.
Il 23 giugno 1919 si insediò il governo di Francesco Saverio Nitti, sostituendo il dimissionario Vittorio Emanuele Orlando, dopo le delusioni seguite ai trattati di pace. Le politiche intraprese da Nitti sollevarono un fortissimo malcontento, soprattutto fra militari, reduci congedati e nazionalisti.
Il 19 settembre, Gabriele D'Annunzio ruppe gli indugi e alla testa di reparti ammutinati del Regio Esercito marciò su Fiume dove, manu militari, instaurò un governo rivoluzionario con l'obiettivo di affermare l'unione all'Italia del comune carnero. Questa azione fu immediatamente esaltata dal movimento fascista, anche se Mussolini non offrì – né avrebbe potuto offrire – alcun reale appoggio alla causa dei legionari. Per il suo contributo politico e alla propaganda, già all'epoca il poeta D'Annunzio (Massone di 33° grado) fu definito il vate del fascismo italiano.
Le elezioni politiche italiane del 1919 (per la prima volta secondo il sistema proporzionale) videro il trionfo dei due partiti di massa: il Partito Socialista Italiano che si affermò primo partito con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare Italiano di don Sturzo che, alla sua prima prova elettorale ottenne il 20% dei voti e 100 seggi. Il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.
In seguito alla durissima sconfitta elettorale, Mussolini meditò seriamente l'abbandono della politica,[6] nonostante la sbandierata esistenza di 88 Fasci combattenti con 20.000 iscritti; cifra che alcuni storici ritengono viziata[chi sono?] da eccessivo ottimismo. In ogni caso, sul Popolo d'Italia del 23 marzo 1929, il segretario del PNF Augusto Turati, affermò che al 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti.[senza fonte] I risultati elettorali non garantirono tuttavia al paese la stabilità necessaria e il PSI, che aveva il maggior peso, continuò a rifiutare alleanze con i partiti "borghesi"; in particolare le occupazioni di terreni agricoli convinsero molti latifondisti, principalmente in Emilia, nell'alta Toscana e nella bassa Lombardia, a svendere cascine e fattorie a ex-mezzadri, fattori o piccoli coltivatori diretti. Fu questa la nuova categoria di proprietari terrieri, ben più decisa a difendere i propri beni dalle occupazioni rispetto ai precedenti latifondisti, alla quale Mussolini si rivolse per dare consistenza al movimento fascista, sposandone appieno le necessità.
Così, mentre i socialisti erano dilaniati dalle diatribe interne e dalla concorrenza sindacale delle leghe bianche dei Popolari sturziani, schiere di appartenenti alla piccola borghesia agraria, artigiana o del commercio, allarmati dalle occupazioni e dai disordini, confluirono nel movimento guidato da Mussolini. In pochi mesi si costituirono in Italia oltre 800 nuovi Fasci, con circa 250.000 iscritti, i quali diedero vita alle squadre d'azione, dette spregiativamente "squadracce" dagli avversari politici, che contrastarono le leghe rosse e bianche, durante gli scioperi o le azioni di occupazione, in un diffuso clima di violenza politica. La direzione velleitaria e confusa delle occupazioni, che aveva mostrato l'incapacità delle forze politiche più radicali a sviluppare una reale e progressiva azione rivoluzionaria, fu immediatamente chiara a molti politici, in particolar modo a Gramsci e a Giolitti,[7] subentrato al secondo governo Nitti. Nel settembre 1920 Giolitti riuscì a spezzare il fronte occupazionista, attraverso la concessione di limitati progressi salariali, ottenendo il ritorno della legalità. Stabilita una temporanea pace sociale interna, affrontò la questione di Fiume, deciso a risolvere il problema internazionale della Reggenza del Carnaro. Dopo serrate trattative fra Italia, Jugoslavia e D'Annunzio, Giolitti diede il via all'azione militare, volta a sgomberare con la forza i legionari dal comune carnero, culminata con il Natale di sangue del 1920.
La componente militare largamente prevalente nelle squadre, conferì a queste una netta superiorità negli scontri coi socialisti, i popolari e i sindacati non fascisti, che sebbene notevolmente più numerosi subirono l'urto delle camicie nere. La sistematica campagna fascista di distruzione dei centri di aggregazione socialista, popolare e sindacale di intimidazione e aggressione dei loro militanti, assieme alla contemporanea politica sotterranea condotta da Mussolini nei confronti dei partiti moderati e della destra, portarono il socialismo a una crisi, mentre parallelamente cresceva la forza numerica e il morale dei Fasci di Combattimento. Così, mentre nel 1921 il Partito Socialista Italiano si disgregava in due successive scissioni, dando vita al Partito Comunista d'Italia, il 7 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista (PNF), trasformando il movimento in partito, abbandonando le posizioni del sindacalismo rivoluzionario, accettando alcuni compromessi legalitari e costituzionali con le forze moderate e distaccandosi sostanzialmente dalla linea politica fondativa del movimento, sancita nel programma di San Sepolcro del 1919. In quel periodo il PNF giunse ad avere 300.000 iscritti (nel momento di massima espansione il PSI aveva superato di poco i 200.000 iscritti).
Dal punto di vista organizzativo, al "gruppo di Milano" (nucleo originario del Fascismo) si aggiunse una componente rurale e agraria, forte dell'appoggio dei latifondisti e possidenti terrieri emiliani, pugliesi e toscani. Proprio in queste regioni le squadre guidate dai ras furono più determinate a colpire i sindacalisti, i popolari e i social-comunisti, e le masse rurali organizzate che avanzavano rivendicazioni sociali, politiche ed economiche, intimidendoli con la famigerata pratica del manganello e dell'olio di ricino o addirittura commettendo omicidi che restavano a volte impuniti.[8] In questo clima di violenze alle elezioni del 15 maggio 1921 i fascisti riuscirono a portare in parlamento i loro primi deputati, fra cui Mussolini. Mimmo Franzinelli ha scritto in "Squadristi" (Mondadori 2003) che nei primi 3 mesi del 1921 i socialisti ebbero 164 fra morti e feriti, nello stesso periodo i fascisti ne ebbero 133, la forza pubblica 70, cittadini estranei 123, di cui una parte erano i cosiddetti crumiri. Renzo De Felice ha presentato dati analoghi per il primo semestre 1921. Gaetano Salvemini ha calcolato circa 300 fascisti uccisi nel triennio 1920-1922, 400 i "bolscevichi".[9]
La celebrità del partito crebbe ancora quando i sindacati non fascisti proclamarono per il 1º agosto 1922 uno sciopero generale, come reazione agli scontri avvenuti a Ravenna: i fascisti per ordine di Mussolini sostituirono gli scioperanti, nel tentativo di far fallire la protesta. Sempre nell'agosto del 1922 gli abitanti di Parma, con epicentro nel quartiere popolare di Oltretorrente, organizzati dagli Arditi del Popolo, comandati da Guido Picelli e Antonio Cieri riuscirono a resistere alle squadre fasciste guidate da Italo Balbo, futuro "trasvolatore atlantico"; fu l'ultima resistenza all'incalzare del fascismo.
Particolare fu la situazione in Romagna, regione di origine di Mussolini: qui, nelle zone dove precedentemente era più forte il socialismo marxista più rapido fu il passaggio al fascismo, mentre nelle aree, come il forlivese e il cesenate, dove prevaleva la tradizione repubblicana fu molto più tenace la resistenza[10].
Inoltre tra le squadre fasciste dell'Italia meridionale militavano anche alcuni delinquenti, particolarmente a Napoli, dove la centralista organizzazione camorristica ottocentesca stava attraversando una fase di anarchia. Alcuni camorristi si dettero anima e corpo alla causa fascista, intravedendo la possibilità di carriera e di cancellazione dei reati precedenti. Ad esempio come nel caso di Guido Scaletti, piccolo camorrista dei Quartieri Spagnoli, che fondò il primo sindacato padronale partenopeo, o di Enrico Forte che per i suoi servigi di squadrista fu ricompensato, nel 1924, con la direzione della "Manifattura Tabacchi". Il fascismo, una volta preso il potere, usò abilmente i camorristi per controllare e reprimere l'attività di delinquenza comune, in cambio dispensando piccole cariche pubbliche, posti di lavoro e soprattutto tollerando il contrabbando. L'attività di Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri venne intensificata e diretta verso i malavitosi che non collaboravano con il regime. Nella zona di Aversa, dove si era formata una struttura camorristica potente e concorrente a quella napoletana, nel 1927 le forze dell'ordine operarono la maggiore retata anticamorra della storia, con 4.000 arrestati.[11]
La marcia su Roma e l'arrivo al potere
Dopo il congresso di Napoli, in cui 40.000 camicie nere inneggiarono a marciare su Roma, Mussolini decise di agire: il momento pareva propizio e così un forte contingente di 50.000 squadristi venne radunato in Umbria e Lazio e spinto dai quadrumviri contro la Capitale. Era il 28 ottobre 1922. Mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare il colpo di mano fascista[senza fonte] il re Vittorio Emanuele III non dichiarò lo stato di assedio e vietò al Regio Esercito di intervenire per contrastare il tentativo di colpo di Stato e disperdere gli insorti, per opportunità della Corona e strumentale calcolo politico, nonché per evitare un bagno di sangue che avrebbe potuto potenzialmente far precipitare il paese in una guerra civile.[senza fonte] Il re non avendo firmato il decreto di stato d'assedio, aprì di fatto la strada alle colonne fasciste verso la capitale dello Stato. Le camicie nere entrarono così a Roma il 30 ottobre.
Lo stesso giorno, a compimento della marcia su Roma, il re mandò una missiva firmata a Benito Mussolini in cui lo convocava a Roma con il fine di formare il nuovo governo dopo che il primo ministro Luigi Facta si dimise.[senza fonte] Il capo del fascismo aveva lasciato Milano per Roma e si mise immediatamente all'opera. A soli 39 anni Mussolini diveniva presidente del consiglio, il più giovane nella storia del regno. Il nuovo governo comprendeva elementi dei partiti moderati di centro e di destra, militari e alcuni esponenti fascisti.
Fra le prime iniziative intraprese dal nuovo corso politico vi fu il tentativo di "normalizzazione", cioè rendere legali le squadre fasciste - che in molti casi continuavano a commettere violenze - , provvedimenti a favore dei mutilati e degli invalidi di guerra, drastiche riduzioni della spesa pubblica, la riforma della scuola (Riforma Gentile), la firma degli accordi di Washington sul disarmo navale, l'accettazione dello status quo col regno di Jugoslavia circa le frontiere orientali e la protezione della minoranza italiana in Dalmazia.
Nei primissimi mesi del governo Mussolini venne anche istituito il Parco nazionale del Gran Paradiso, grazie alla donazione, fatta nel 1919 allo Stato italiano, della riserva di caccia reale da parte di Vittorio Emanuele III.