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ente o istituto che raccoglie, preserva e valorizza fondi archivistici Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Per archivio si intende una raccolta organizzata e sistematica di informazioni fissate su un supporto e di diversa natura.
«The whole of the documents made and received by a juridical or physical person or organization in the conduct of affairs, and preserved.»
«L'archivio è l'insieme di documenti di ogni tipo, prodotti e ricevuti da una persona fisica o giuridica, da un organismo nell'ambito della sua attività, e conservati»
In secondo luogo, per estensione, con il termine archivio si designa anche l'ente che ha il compito istituzionale di tutelare e valorizzare un insieme di documenti e i locali destinati alla loro conservazione.
Secondo un'etimologia accettata, il termine archivio deriva dal greco antico ἀρχεῖον?, archeîon, tramite il latino archium/archivum/archivium, che significa "palazzo dell'arconte", luogo in cui, presumibilmente, si conservavano anche gli atti emanati dal magistrato[1].
La prima definizione moderna di archivio risale alla fine del XIX secolo e fu formulata dal Manuale degli archivisti olandesi di Samuel Muller, Johann Adrian Feith e Robert Fruin, ove per archivio si intende
«Archivio è l’intero complesso degli scritti, disegni e stampe, ricevuti o redatti in qualità ufficiale da qualunque autorità o amministrazione, o da qualsiasi impiegato di queste, purché tali documenti, conformemente alla loro funzione, debbano rimanere presso la stessa autorità o amministrazione, o presso i suoi impiegati.»
La traduzione del manuale ad opera di Giovanni Vittani e di Giuseppe Bonelli e la sua pubblicazione in Italia nel 1908, segnò definitivamente il tramonto del metodo peroniano.
Eugenio Casanova (1867-1951), considerato il padre dell'archivistica italiana, nel suo manuale Archivistica del 1928, riprese la definizione data dagli archivisti olandesi aggiungendo però l'elemento dell'ordine dei documenti come stabiliti dal soggetto produttore:
«L’archivio è la raccolta ordinata degli atti di un ente o individuo, costituitasi durante lo svolgimento della sua attività e conservata per il conseguimento degli scopi politici, giuridici e culturali di quell’ente o individuo.»
Giorgio Cencetti, nel suo articolo L'archivio come "universitas rerum" del 1937, indicò un altro elemento essenziale per l'identificazione di un archivio, ovvero il vincolo archivistico:
«I singoli componenti di un archivio non solo provengono da un medesimo individuo, aggregato familiare o ente...ma poiché costituiscono niente altro che uno dei mezzi usati dall'ente o individuo per raggiungere i propri scopi, portano in loro stessi fin dall'origine il vincolo della destinazione comune, sintetizzato nell'adempimento dalle funzioni dell'ente o individuo medesimo.»
Due anni più tardi, nell'articolo Il fondamento teorico della scienza archivistica, ribadisce l'unitarietà dell'archivio nelle sue tre fasi di vita, ribadisce l'assoluto valore del vincolo e pone le basi teoriche per lo svolgimento del mestiere d'archivista che ancora oggi sono valide.
L'archivista inglese Hilary Jenkinson (1882-1961), nel suo Manual of Archive Administration del 1937, aggiunse il criterio dell'ininterrotta custodia, elemento che conferisce attendibilità alla conservazione dell'archivio:
«I documenti accumulatisi per un procedimento naturale nel corso della trattazione di affari di ogni genere, pubblici e privati, in ogni epoca, e conservati per documentazione, nella propria custodia, dalle persone responsabili.»
Mentre nella comunità internazionale si stava ormai sedimentando che l'archivio, nato essenzialmente per uno scopo amministrativo e non di ricerca e che è caratterizzato da tre fasi di vita, alcuni archivisti tedeschi e italiani adottarono il principio secondo cui l'elemento caratterizzante dell'archivio è l'oggetto dell'indagine storica, per cui vi è la divisione tra la fase di registratura (registratur) e quella di archiv[2], ossia l'archivio propriamente detto che custodisce documenti non più necessari nella fase corrente; documenti che abbiano un valore amministrativo e scientifico; che siano, perciò, conservati in un istituto di conservazione[3]. Il primo a formulare questa concezione fu il tedesco Adolf Brenneke (1875-1946) che, nel suo manuale Archivistica edito postumo nel 1953, giunse a definire l'archivio come:
«L’archivio è la totalità di scritti e di altri documenti, che si sono formati presso persone fisiche o giuridiche in base alla loro attività pratica o giuridica e che, quali fonti documentarie e prove del passato, sono destinati a permanente conservazione in un determinato luogo.»
In Italia la posizione tedesca fu recuperata da Elio Lodolini (1922-viv.) che, nel suo Archivistica. Principi e problemi del 1985, dichiarò che
«L'archivio è un complesso di documenti formatisi presso una persona fisica o giuridica o anche di un'associazione di fatto nel corso della esplicazione della sua attività e pertanto legati da un vincolo necessario, i quali, una volta perduto l'interesse per lo svolgimento dell'attività medesima, sono stati selezionati per la conservazione permanente quali beni culturali.»
Posizione ancora più esplicita la espone ancora Lodolini nel suo ancora attuale Lineamenti di storia dell'archivistica italiana:
«La stessa espressione "archivio storico" va considerata come una formula di comodo, adottata perché nell'uso più frequente in lingua italiana la parola "archivio" - a differenza dell'uso costante in altri Paesi, come la Germania o il Nordamerica - è adoperata anche per indicare i complessi di documenti correnti, cioè quelle che, ad evitare equivoci, è preferibile chiamare "registrature correnti" [...] Inoltre, l'archivio definitivo, o archivio destinato alla conservazione permanente, cioè l'"archivio" propriamente detto...»
Claudio Pavone (1920-2016), nel suo saggio Ma è poi tanto pacifico che l'archivio rispecchi l'istituto? del 1970, benché accolga in linea generale secondo cui l'archivio rispecchi l'attività del soggetto produttore, ammette però che non ci possa sempre essere una perfetta speculiarità tra quanto prodotto e chi produce, a causa dei mutamenti dell'ente produttore (soppressione, cambio di finalità, etc...). Per Pavone, dunque, l'archivio non è il riflesso del soggetto produttore, quanto del suo modo organizzativo:
«L'archivio rispecchia infatti innanzi tutto il modo con cui l'istituto organizza la propria memoria, cioè la propria autodocumentazione [...] Il "metodo storico", partito con l'ambizione di fare dell'archivio uno specchio privilegiato della storia dell'istituto, di fronte ai troppo evidenti scarti e sfasature fra i due elementi rischia di concludere con l'affermazione che l'archivio rispecchia in realtà soltanto la storia di sé stesso [...] Ci sembra invece che se l'archivio viene innanzi tutto ricondotto alla sua natura, modesta ma precisa, di ordine formale della memoria dell'istituto, anche i problemi della sua autonomia e della sua storicità, della sua forma e dei suoi contenuti, possono essere portati su un terreno più piano e solido.»
Il modenese Filippo Valenti (1919-2015), nel suo Nozioni di base per un'archivistica come euristica del 1975, opera la distinzione tra l'archivio "proprio" e quello in "senso lato": se il primo risponde alla definizione di archivio caratterizzato dalla presenza di un vincolo ben preciso prodotto da un soggetto produttore per finalità pratiche, il secondo invece è l'assemblamento di vari archivi in un istituto di concentrazione quale può essere un Archivio di Stato:
«Si riferisce, cioè, all'archivio di un singolo e ben determinato ente, e quindi a quello che io sono solito chiamare archivio "in senso proprio" in contrapposizione all'unione, confluenza o concentrazione di vari archivi, che propongo di chiamare invece archivio "in senso lato".»
Paola Carucci (1941-viv), ne Le fonti archivistiche del 1983, opera una plurima definizione del concetto di archivio, sviluppando nel contempo la terminologia di quello che è definito come fondo.
Se per la Carucci l'archivio è il «complesso dei documenti prodotti o comunque acquisiti da un ente (magistrature, organi, e uffici centrali e periferici dello Stato; enti pubblici; istituzioni private, famiglie o persone) durante lo svolgimento della propria attività» e riprende la distinzione operata già da Valenti in archivio proprio e archivio in senso lato, il fondo ha un'accezione più generica, dove non è più presente il vincolo a causa di una serie di motivi quali smembramenti e agglomeramenti di archivi prodotti da soggetti diversi:
«Si usa il termine archivio, in un'accezione più generica e anche fondo, parola ormai molto usata anche se non ha un significato chiaramente definito in italiano (la parola è d'origine francese), per indicare, all'interno di un Archivio di Stato o di un qualsiasi istituto in cui siano concentrati archivi di diversa provenienza, ciascun complesso documentario che abbia un carattere di unitarietà, sia nel caso si tratti di un archivio di un determinato ente (archivio in senso proprio), sia che si tratti di un complesso di documenti prodotti da enti diversi ma confluiti per ragioni varie nell'ente che ha effettuato il versamento o il deposito, sia che si tratti di un complesso di documenti che sia il risultato di smembramenti, fusioni e riordinamenti eseguiti in Archivi di concentrazione, sia che si tratti di miscellanee o di raccolte.»
Secondo questa definizione, la Carucci intende affermare che, poiché all'interno di un istituto di conservazione si possono trovare tanti archivi i quali, l'uno rispetto all'altro, sono però svincolati fra di loro in quanto non prodotti da un unico soggetto produttore. Inoltre, un fondo può essere anche stato creato non da un unico soggetto produttore (si veda i fondi creati col metodo peroniano, per esempio), per cui non vi è neanche la presenza del vincolo che è l'elemento caratterizzante dell'archivio secondo quanto definito decenni prima da Cencetti, come definito nel glossario del Sistema Archivistico Nazionale:
«FONDO. Insieme di documenti d'archivio conservato presso un soggetto conservatore e gestito presso quest'ultimo come un unico complesso. In genere corrisponde a un archivio: può tuttavia verificarsi che un archivio, prodotto e organizzato da un determinato soggetto produttore, venga successivamente diviso o smembrato e che la sua documentazione entri a far parte di altri complessi, andando a costituire più fondi archivistici. Analogamente, è possibile che un unico fondo comprenda documentazione in origine risalente ad archivi distinti.»
Gli archivi, intesi come testimonianza dell'attività umana, sono sempre esistiti in quanto l'archivio serve all'uomo per la sua attività quotidiana. Le prime testimonianze di archivio risalgono all'epoca dei Sumeri (III millennio), a quando cioè risalgono i primi supporti stabili[N 1]. I Sumeri, infatti, si legarono in civiltà stabile, svilupparono la scrittura (scrittura cuneiforme, in uso dal 3500 a.C.) e avevano un bisogno di lasciare testimonianza delle loro attività quotidiane (come i commerci, esercizi contabili). Tra il 1976 e il 1977, una spedizione guidata da Paolo Matthiae riportò alla luce gli archivi regali di Ebla[4].
Al contrario, presso gli antichi greci e la civiltà romana i supporti utilizzati (tavole di cera e papiro) non permisero la conservazione degli archivi statali e privati per un lungo periodo: dei rotoli conservati al metroon di Atene o di quelli del Tabularium tardo-repubblicano non si è conservato assolutamente nulla, così come dell'archivio d'età Imperiale.
In seguito al crollo dell'Impero Romano d'Occidente e la confusione generata dagli sconvolgimenti sociopolitici successivi, la documentazione prodotta durante l'Alto Medioevo è alquanto esigua: da un lato, furono prodotti pochi documenti (o se ne sono conservati pochi) da parte delle cancellerie dei regni romano-barbarici[5]; dall'altro, i sovrani e anche le autorità ecclesiastiche locali (vescovi, abati) avevano l'abitudine di portare con sé la documentazione archivistica, delineando così la nozione di archivi itineranti, concezione che rimarrà in uso fino al XII secolo[6]. Al contrario, un ruolo fondamentale per la conservazione dei documenti è stata la Chiesa: grazie ai monasteri, nei cui scriptoria operavano i monaci amanuensi dediti alla conservazione della memoria classica e alla produzione di Bibbie o Evangeliari, molta documentazione fu salvata dall'oblio, grazie anche all'imporsi, a partire dalla tarda antichità, dell'utilizzo della pergamena come materiale scrittorio[5].
Al contrario, con il Basso Medioevo (XI-XV secolo), la rinascita delle città e dei commerci produsse una rifioritura delle città e una maggiore laicizzazione, per quanto fosse possibile, della società: si vennero a creare così gli archivi comunali e quelli dei notai[7].
Con l'inizio dell'età moderna e la formazione delle monarchie nazionali, gli archivi diventarono necessari ai fini dell'esercizio del potere e della consultazione dei documenti da parte dei sovrani. Gli archivi in quest'epoca furono definiti dei veri e propri "arsenali del potere" (o arsenal de l'autorité), cioè strumenti a disposizione del sovrano, e crescono in funzione dell'attività del governo[8]. Tra questi si ricordano principalmente l'Archivio generale di Castiglia, l'Archivio di corte a Vienna (oggi Archivio di Stato Austriaco), istituito da Maria Teresa col nome di Geheimes Hausarchiv (ossia Archivio di Corte), l'Archivio di Corte a Torino, oggi sede dell'Archivio di Stato di Torino e l'Archivio napoleonico di Parigi.
Inoltre, sul finire del XVIII secolo i nobili italiani godevano di una serie di prerogative che, però, dovevano essere dimostrate davanti al tribunale araldico: si sentì la necessità di creare degli archivi "nobiliari", affidando l'opera di riordinamento agli archivisti[9].
A fianco degli archivi laici, si vennero a formare dal XVI secolo gli archivi ecclesiastici, in seguito alle disposizioni disciplinari emanate dal Concilio di Trento (1545-1563) che obbligavano i parroci a tenere i registri dello stato delle anime, così come dei battesimi, dei matrimoni e dei funerali. Agli inizi del XVII secolo, papa Paolo V (1605-1621) decise infatti di creare un archivio che raccogliesse le carte di governo dello Stato della Chiesa[10]. Si trattava del nucleo di quello che verrà chiamato successivamente Archivio Segreto Vaticano[11].
Nel corso dell'Ottocento, l'archivio da memoria di autodocumentazione (ovvero ha una funzione esclusivamente pragmatico-amministrativa per il soggetto produttore) diventa fonte della memoria collettiva: i documenti, quando smettono di funzionare per il soggetto che lo produce, assumono un'importanza storica agli occhi di altre persone, in primis gli studiosi, che non l'hanno prodotto. Oltre al granduca Pietro Leopoldo che creò nel 1778 il Museo Diplomatico di Firenze, si ricordano anche la creazione, nel 1790, dell'Archivio Nazionale francese ad opera dell'Assemblea Nazionale[12].
Verso il finire del '700, vengono creati dei grandi depositi che perdono il collegamento con la cancelleria di provenienza, in seguito alla soppressione di enti religiosi o di magistrature civili. Il tutto è finalizzato in un'ottica razionale, finalizzata alla ricerca immediata di determinati atti da parte delle autorità pubbliche secondo la materia trattata. I documenti così ordinati secondo lo spirito illuminista (si pensi all'Encyclopèdie di Diderot e d'Alambert, ma anche ai testi di Pierre Camille Le Moine, Diplomatique pratique, 1765 e di De Chevrières, Le nouvel archiviste, 1775[13]) trovarono un primo luogo di sviluppo a Vienna, e poi in Lombardia grazie all'archivista Ilario Corte prima e poi a Luca Peroni.
Nella seconda metà dell'Ottocento, però, vi fu una reazione nei confronti del metodo per materia. In Francia, su proposta dello storico Natalis de Wailly, il ministero degli Interni emanò una circolare (le Instructions del 24 aprile 1841) in cui si stabilisce il principio di provenienza o rispetto dei fondi[14]. Questo principio, già diffuso in Danimarca e nel Regno di Prussia, profondamente antitetico rispetto al precedente, fu accolto poi in Italia dal toscano Francesco Bonaini il quale estremizzò tale metodo dando origine al metodo storico, ossia alla ricostruzione storica del soggetto produttore e del fondo da esso creato per la migliore comprensione della struttura del fondo in questione. Si pose in tal modo la teorizzazione, in Italia, del moderno ordinamento archivistico.
L'imposizione del metodo storico e gli ordinamenti statali nei confronti degli istituti di conservazione hanno omologato la gestione archivistica in tutto il mondo. Negli anni più recenti sono tornati alla ribalta i problemi legati alla formazione, alla gestione e alla conservazione degli archivi, soprattutto riguardo all'introduzione di nuove tecnologie, che in futuro potrebbero rivoluzionare la consistenza degli archivi. Si tratta in particolare delle tecnologie informatiche e telematiche, che hanno reso impellente la revisione di metodologie ormai consolidate da decenni. L'uso delle nuove tecnologie, soprattutto dopo aver superato una prima fase di sperimentazione un po' improvvisata all'inizio degli anni ottanta, si sta via via affinando sempre maggiormente, con procedimenti più meditati, consapevoli e raffinati, sostenuti anche dall'istituzione di appositi organismi statali (in Italia l'AgID, acronimo per l'Agenzia per l'Italia digitale), anche se restano da sciogliere i dubbi legati all'organizzazione dei documenti che non comprometta il vincolo e alla conservazione dei nuovi supporti digitali nel futuro: se un foglio di carta ha infatti dimostrato di poter essere conservato, tramite le opportune cautele, anche per secoli, per quanti anni sarà consultabile un supporto DVD o un disco rigido? Questi sono i nodi da sciogliere nel presente e nell'immediato futuro.
Una prima definizione internazionale degli archivi come beni di interesse culturale risale alla Convenzione dell'Aja del 1954 (ratificata in Italia nel 1958), dove si citavano i beni artistici, architettonici, archeologici, librari e archivistici "di grande importanza"[15]. La Conferenza Generale del 1970, voluta dall'UNESCO, riconobbe agli "archivi, compresi i fonografici, fotografici e cinematografici" le misure atte a impedirne l'illecita importazione, esportazione o trasferimento di proprietà[16].
In Italia, il processo per il riconoscimento a livello legale degli archivi come beni culturali fu lungo e complesso, in quanto partì soltanto dall'Istituzione del Ministero dei beni culturali nel 1975 e proseguì fino all'emanazione dell'attuale codice del 2004.
L'archivio, essenzialmente, ha tre scopi principali:
Gli utenti che usufruiscono dei documenti d’archivio, principalmente, sono gli studiosi di storia, storia locale e di altre discipline umanistiche (storia dell'arte, letteratura, geografia) o di discipline scientifiche (biologia, tecnologia). Vi si possono trovare anche i genalogisti, i biografi o studenti appartenenti a vari gradi di formazione per consultare documenti utili a ricerche o alla stesura della tesi.
Il mestiere dell’archivista è basato non solo su una formazione scientifica concernente la conoscenza dei fondi a lui affidati e della specifica legislazione in materia di beni archivistici, ma anche su una comprovata competenza nella gestione dell’archivio. Tra i suoi principali compiti vi sono quelli di:
Il nesso che distingue un archivio da una raccolta qualsiasi o da una collezione è il cosiddetto vincolo archivistico. Tale vincolo, come esplicitato da Giorgio Cencetti ne Il fondamento teorico della dottrina archivistica (1939) deve necessariamente avere le tre seguenti caratteristiche:
In base alla conclusione stabilita da Paola Carucci nel saggio sovramenzionato, un archivio per essere tale dev'essere caratterizzato dal vincolo archivistico. Qualora non sia presente questo vincolo, mancanza dovuta a varie cause quali lo smembramento o l'agglomeramento di archivi prodotti da soggetti diversi, si parla più generalmente di fondo.
Altro elemento fondamentale per la nascita e la vita di un archivio è la presenza del soggetto produttore, ovvero, secondo la definizione data dall'ISAAR, questi tre grandi macrogruppi[18]:
«L'ente, la famiglia o la persona che ha posto in essere, accumulato e/o conservato la documentazione nello svolgimento della propria attività personale o istituzionale.»
Gli enti produttori, come delineato da Paola Carucci[19], possono essere di diverso tipo in base al loro status legale:
I soggetti possono distinguersi in due tipologie: in produttori e in conservatori.
1. I soggetti produttori sono coloro i quali producono la documentazione nell'ambito della loro attività[20].
2. I soggetti conservatori (o istituti di conservazione o soggetti collettori[21]) sono quegli enti deputati alla conservazione del materiale prodotto dai soggetti produttori, come per esempio gli Archivi di Stato[22].
N.B: i soggetti conservatori possono essere anche soggetti produttori. Difatti, gli Archivi di Stato, oltre a conservare, producono una documentazione archivistica in seno alla loro attività istituzionale.
Oltre alle persone, vi possono anche esserci gli archivi prodotti da determinate famiglie (aristocratiche, borghesi o proletarie) nel corso del tempo e che vanno a costituire il cosiddetto patrimonio di famiglia, costituito da documenti di genealogia famigliare, carteggi privati, fotografie, documentazioni anagrafiche e altro materiale ancora. Tra gli archivi di famiglia si possono riscontrare anche quelli legati ad una determinata attività istituzionale, come nel caso delle dinastie (Archivio del patrimonio privato Casa Savoia, conservato presso l'Archivio Centrale dello Stato[25]), delle famiglie aristocratiche (il fondo Sormani Giussani Andreani Verri conservato presso l'Archivio di Stato di Milano[26]) o di importanti famiglie imprenditoriali, quali gli Agnelli (Centro Storico Fiat).
Esistono inoltre gli archivi ecclesiastici, cioè dipendenti da un'autorità ecclesiastica, che li gestisce coi suoi fondi. Oltre all'Archivio Segreto Vaticano, gli archivi ecclesiastici in territorio italiano si dividono per sottotipi a seconda del grado di organizzazione territoriale della Chiesa locale: gli archivi diocesani e capitolari (cioè di un'assemblea di presbiteri) e gli archivi parrocchiali (di peculiare interesse per quanto riguarda gli studi storici e demografici). Non bisogna dimenticarsi degli archivi dei seminari e quelli degli ordini religiosi[27].
Gli archivi ecclesiastici presenti sul suolo italiano sono gestiti contemporaneamente dalla Santa Sede che dallo Stato Italiano come stabilito dagli Accordo di Villa Madama del 1984, cui seguirono altre modifiche fino a giungere all'intesa del 18 aprile 2000 tra il cardinale Camillo Ruini, allora presidente della C.E.I., e il ministro Giovanna Melandri (con cui si decisero le modalità di consultazione del materiale archivistico e il luogo della conservazione del medesimo)[28]. Con l'entrata in vigore del Codice dei beni culturali nel 2004, gli archivi ecclesiastici figurano nella tipologia dei beni privati e sono sottoposti al controllo sia della Diocesi di riferimento, che della Soprintendenza archivistica e bibliografica competente[29].
Il documento, in ambito archivistico, ha un'accezione molto più ampia rispetto alla sua controparte della scienza diplomatista: se nella diplomatica il documento preso in esame ha sempre una forma giuridica, in ambito archivistico il documento ha anche qui valore giuridico-probatorio, ma la tipologia documentaria è sicuramente più estesa: non vi rientrano solo atti normativi, ma anche documenti di natura privata quali lettere, diari, poesie, fotografie et similia[30]. Il documento archivistico dunque, secondo quanto riportato dalla DGA, si può definire come la:
«Testimonianza scritta di un fatto di natura giuridica, compilata con l'osservanza di determinate forme che conferiscono al documento pubblica fede e forza di prova. L'archivistica tende a ricomprendere sotto la dizione di documento tutta la documentazione di cui si compone un archivio, anche se si tratta di documenti informali, lettere private, documenti a stampa, fotografie, eccetera.»
Parlare della struttura di un archivio non è compito facile, in quanto si deve prendere in considerazione la natura del soggetto produttore dell'archivio medesimo e la complessità più o meno accentuata del medesimo. Comunemente un archivio (o un fondo) si struttura secondo quella definizione che è stata definita ad albero rovesciato da parte dell'ISAD(G)[31], cioè una struttura che parte dall'insieme delle unità documentarie (il fondo) fino al singolo documento:
Non bisogna confondere l'unità archivistica con l'unità di condizionamento (o conservazione)[32]:
1. L'unità archivistica è l'insieme dei documenti di un determinato affare che sono raggruppati attraverso varie tipologie di unità archivistiche, quali il registro, la filza, il volume, il fascicolo.
2. L'unità di condizionamento, invece, è «il contenitore in forma di busta, faldone, scatola, cartella» di un'unità archivistica.
La nomenclatura, però, può variare in base al titolario/piano di classificazione adottato dal vertice del soggetto produttore: difatti, non è raro trovare come struttura di un archivio la ripartizione del titolario in diversi modi[34]:
Un archivio nasce innanzitutto quando un soggetto, detto "produttore" (di documentazione), decide di conservare le testimonianze delle proprie operazioni: a questa decisione è legata la convinzione che tali documenti possano tornare ad essere utili in un futuro più o meno vicino, per questo se ne evita la distruzione. Nelle fasi iniziali la conservazione dei documenti ha essenzialmente finalità pratiche, amministrative e giuridiche, mentre solo col passare del tempo, mentre questi interessi vanno sfumando o decadendo, subentra un altro valore, di tipo storico, legato alla ricerca della conoscenza del passato, da parte degli studiosi. La vita di un archivio si muove su una coordinata temporale (verticale) che va dalla nascita alla chiusura dell'archivio (l'"archivio morto", cioè il cui soggetto produttore non produce più documenti per la cessazione dell'attività, e quindi non è più soggetto agli accrescimenti), fino all'ipotetica data della distruzione dell'archivio. Inoltre l'archivio si riferisce a un determinato territorio ed a una serie di soggetti col quale il soggetto produttore interagisce (coordinata orizzontale). Fondamentale è poi il concetto di "ordine", che serve per garantire una struttura logica e utile per la consultazione, anche se non incide la natura dell'archivio stesso: un archivio disordinato resta sempre un archivio, magari in attesa dell'inventariazione e del riordino, mentre un archivio senza vincolo non è un archivio.
Inoltre occorre mettere in rapporto il fruitore col fondo medesimo attraverso vari strumenti di corredo tra i quali si ricordano gli elenchi, i censimenti, i catologhi e lo strumento principe, ossia l'inventario, un elenco o registro per trovare e catalogare ciò che è in un dato luogo, come una biblioteca o un archivio.
La vita di un archivio, secondo la normativa italiana (che ha preso spunto dal capitolo IX De ordinis archivis servando[35] del De archivis liber singularis del vescovo e poeta cremonese Baldassarre Bonifacio) è stata schematizzata in tre fasi, che corrispondono a: l'archivio corrente (per gli affari in corso); l'archivio di deposito (per gli affari detti "esauriti"); l'archivio storico (per i documenti con più di 30 anni di età, destinati a venir conservati per sempre). Tutte queste tre fasi, secondo il D.P.C.M. 31 ottobre 2000, devono essere gestite attraverso il cosiddetto manuale di gestione[36].
È la fase dell'archivio in cui si trattano gli affari in corso e rispecchia l'attività del soggetto produttore che ne stabilisce l'ordinamento. In sostanza, durante la fase dell'archivio corrente, si esplicano la registrazione o protocollazione, con cui si dà ad un documento prodotto o entrante nell'archivio un numero progressivo e analitico e lo si registra nell'apposito registro di protocollo. Poi, sulla base del titolario (o piano di classificazione), si inquadra il documento nell'ordine logico dato all'archivio dal soggetto produttore ed infine lo si fascicola, segnandolo nell'apposito repertorio dei fascicoli. Viene ricordato anche il piano di conservazione, o massimario di scarto, con cui il vertice dell'ente produttore stabilisce la durata degli archivi prodotti o ricevuti. Tale strumento permette di addentrarci e affrontare, per quanto sinteticamente, la fase di deposito.
Quando la documentazione non ha più un interesse quotidiano, si passa alla fase di deposito o di sedimentazione. I documenti di deposito sono gestiti in altri locali in cui c'è il soggetto produttore, oppure può affidare in outsourcing la fase di deposito (ovvero la conservazione in altri locali di sua proprietà oppure presso terzi). Durante la fase di deposito v'è l'attività fondamentale, per la vita dell'archivio, consistente nella selezione dei documenti e, qualora questi non verranno riconosciuti come beni culturali, verranno scartati.
Per quanto riguarda gli archivi degli organi periferici dello Stato, questo compito è affidato alle Commissioni di sorveglianza che, basandosi sui massimari di scarto (o piani di conservazione), sono in grado di valutare la durata di "vita" di un determinato documento. Per quanto concerne i documenti provenienti dagli archivi degli enti statali, essi giacciono nei depositi, in linea generale, per circa 30 anni; per i soggetti pubblici e privati, invece, non v'è una normativa solida come quella per gli archivi statali, in quanto non sono previste delle commissioni per i primi, mentre per i secondi vi sono varie modalità stabilite dalla legge con cui versare negli Istituti di concentrazione il loro patrimonio documentario (comodato, cessione, donazione, vendita...).
Quando la documentazione ha perso ogni attività di legame con il soggetto produttore ed è stata valutata da una 'Commissione di sorveglianza' di rilevanza storica, inizia la fase storica dell'archivio. Nel passaggio all'archivio storico ci sono cambiamenti importanti: in un soggetto produttore privato l'archivio è tenuto dal privato e quindi non c'è passaggio di proprietà da un ente a un altro; per il soggetto produttore statale, invece, i documenti non scartati andranno a sedimentarsi negli appositi fondi custoditi dall'Archivio di Stato competente. L'ordinamento archivistico italiano, basato sul metodo storico patrocinato dall'archivista toscano Francesco Bonaini (1806-1874), prevede il rispetto dei fondi e la ricostruzione storica del soggetto produttore e della storia dell'archivio suddetto.
Durante questa fase, in cui l'archivio diventa oggetto di studio per gli studiosi, l'archivista ha il compito non solo di conservarlo correttamente sia dal punto di vista materiale che tecnico-archivistico.
In area tedesca prevale l'impostazioni in quattro fasi delle quali solo l'ultima è definita "archivio", mentre le altre sono dette "registratura" (corrente, di deposito e prearchivio, ovvero la fase di scarto), sottolineandone le finalità più immediate e pratiche[37]. In Italia, questa definizione è stata adottata da Elio Lodolini, come si è visto nella sezione relativa alla definizione di archivio.
In area francese esistono pure quattro fasi, come in Germania, ma vengono denominate già tutte "archivio", come in Italia. Se la terza fase è denominata archivio intermedio o pre-archivio, che serve a liberare gli archivi di deposito e porli in altre strutture (come nei depositi della Cité des archives contemporaines a Fontainebleau, località poco distante da Parigi)[38], la quarta fase del modello francese è in sintesi la fase dello scarto, che in Italia è inglobata al termine della fase di deposito. Durante lo scarto si distruggono tutti i documenti ritenuti superflui per la memoria futura, ad esempio i doppioni, i contenuti accessori, ecc. Nell'archivistica francese, vengono spesso distrutte intere serie organiche, secondo le circolari di scarto degli archivi (archiviato dall'url originale l'8 novembre 2010)..
In tutti i paesi del mondo esiste un interesse verso gli archivi come luoghi della conservazione della memoria (culturale, amministrativa, pratica, giuridica, ecc.), per questo essi sono tenuti e gestiti secondo precise disposizioni statali, che ne garantiscono la conservazione. Ogni nazione segue però principi propri, che vengono stabiliti in maniera autonoma e, pur con molteplici punti in comune, possono essere contraddistinti da forti differenze sia nella forma che nella sostanza.
A livello internazionale esistono alcune organizzazioni che facilitano il collegamento tra le singole entità nazionali, senza però imporre normative da applicare a livello sopranazionale. Il Consiglio Internazionale degli archivi (CIA) fu fondato nel giugno 1949 per assicurare la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio archivistico mondiale. Vi partecipano le istituzioni archivistiche nazionali, regionali, locali, pubbliche e private, le associazioni professionali di categoria, archivisti a titolo individuale e membri d'onore: la sua struttura è quindi molto articolata[39].
L'ICA ha patrocinato, a partire dagli anni '90, la creazione di standard descrittivi per gli elementi che partecipano alla consistenza di un archivio:
L'UNESCO, acronimo per Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, è uno dei dipartimenti in cui si divide l'ONU. Fondata nel 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le Nazioni nelle aree dell'istruzione, scienza, cultura e comunicazione, l'UNESCO ha una sezione dedicata esclusivamente agli archivi risalente al 1947 e denominata UNESCO Archives[40], col compito di preservare gli archivi di fondazioni, enti non governativi e altri, ma soprattutto di spiegare e sensibilizzare sulla digitalizzazione del patrimonio archivistico mondiale[41].
Al momento dell’Unità la normativa riguardante i 15 archivi statali italiani, concentrati prevalentemente nelle capitali degli Stati preunitari[42], era quanto mai più frastagliata: se nell'ex Granducato di Toscana e nell'ex Regno delle Due Sicilie gli archivi - in quest'ultimo Stato vi erano poi gli "archivi provinciali" per distinguerli dai due principali di Napoli e di Palermo - erano posti sotto il Ministero dell'Istruzione Pubblica, nell'ex Lombardo-Veneto e negli altri Stati pre-unitari invece gli archivi erano governativi, per cui sottoposti al controllo diretto del Ministero dell'Interno[N 3].
Tra il 1861 e il 1870, Francesco Bonaini cercò di proporre più volte (1861 e 1865) che gli archivi di Stato fossero sottoposti alle dipendenze del Ministero dell'Istruzione Pubblica e che fossero poi messi alle dipendenze di quattro grandi Sovrintendenze archivistiche[N 4] che avessero competenze anche sugli archivi comunali e su quelli notarili. Inoltre, Bonaini proponeva la creazione delle scuole di paleografia (antesignane delle attuali Scuole di Archivistica, Paleografia e Diplomatica) per la formazione del nuovo personale archivistico[43]. Tali proposte furono riprese, infine, nel 1867, quando a Firenze si riunì il Congresso internazionale di Statistica cui parteciparono, oltre a vari storici italiani, anche i direttori dell'Archivio di Stato di Venezia Tommaso Gar, quello di Napoli Francesco Trinchera ed infine lo stesso Bonaini[44].
Il dibattito che archivisti ed intellettuali stavano sviluppando in riunioni e congressi, fu poi portato all'attenzione del Parlamento. Il governo, col decreto 15 marzo 1870, istituì la "Commissione Cibrario", dal nome del senatore e ministro Luigi Cibrario che analizzò i 14 quesiti posti dal Parlamento. La commissione, composta sia da politici quali i senatori Michelangelo Castelli e Diodato Pallieri che da archivisti quali Francesco Bonaini (che per problemi di salute mentale non vi partecipò), Francesco Trinchera, Tommaso Gar e il direttore dell'Archivio di Stato di Milano Luigi Osio[45], aveva il compito di valutare l'importanza degli archivi comunali e notarili; di stabilire delle normative relative ai versamenti e la creazione delle Sovrintendenze archivistiche formulate dal Bonaini, così come l'adozione del metodo storico per l'ordinamento degli Archivi di Stato. Il problema più spinoso, però, riguardò la questione del ministero cui far dipendere gli archivi. La commissione, infatti, si trovò disgiunta se affidare gli archivi al Ministero dell'Istruzione (in quanto i documenti sono testimonianza storica e culturale) o al Ministero dell'Interno (in quanto gli archivi sono i depositari degli atti emanati dal potere). Per un solo voto, si decise alla fine di far dipendere gli archivi dal Ministero dell'Interno:
«[La Commissione ] non fu poi concorde in questo: che taluni sopra la importanza storica ponevano la politica e l'amministrativa; altri a queste preponevano la storica. E se i primi dicevano che gli archivi per quanto possano servire agli studi non prendono mai tanto la qualità diistituti scientifici, che non rimangano soprattutto depositi di documenti, nei quali il governo come il pubblico ha i più vitali e più comuni interessi; i secondi dicevano che la politica e l'amministrazione possono e debbono avere le loro riserve, ma il documento che passa in archivio entra già nel dominio della storia [...] Le quali sentenze portavano una parte della Commissione a propendere pel Ministero che governa e amministra lo Stato; l'altra per quello che ha cura dell'istruzione. Raccolti i suffragi, la maggioranza fu pel Ministero dell'Interno.»
Tale verdetto fu poi legiferato tramite il Regio Decreto 1852/1874, che stabilì quanto deciso dai membri della Commissione.
Ecco le principali tappe della normativa legislativa italiana in materia archivistica dopo la Commissione Cibrario:
Con la marcia su Roma del 28 ottobre del 1922, Benito Mussolini, con la complicità della Corona, dell'esercito e dell'industria, prendeva il controllo del governo, aprendo così la stagione del Ventennio (1922-1943).
In materia archivistica Mussolini, per lungo tempo ministro dell'Interno, intendeva istituire degli Archivi di Stato in ogni provincia e, successivamente, quella di far dipendere i medesimi dallo stessa presidenza del consiglio e quindi dal Duce, idea poi accantonata. Tuttavia, il fascismo si occupò di quanto i governi dell'età liberale e giolittiana non si erano interessati, ovvero la definitiva statalizzazione degli archivi provinciali meridionali, finora dotati di uno status particolare e assumendo il nome di Archivi provinciali di Stato (1932)[51]; l'intervento sugli archivi privati, che erano ancora regolati secondo quanto stabilito nel 1848 da Carlo Alberto; e l'aggregazione degli archivi notarili agli Archivi di Stato.
I principali risultati legislativi dei progetti di Mussolini si realizzarono, poi, attraverso la legge 2006/1939 (Legge Bottai) e gli articoli 822-23-24 del Codice Civile del 1942:
Riassumendo, tra 1874 e 2004 le principali disposizioni normative in materia archivistica sono state:
Seguendo la linea già prevista a livello internazionale fin dal 1954 con la Convenzione dell'Aja, anche nel contesto italiano ci si avviò alla definizione di bene culturale (Commissione Franceschini del 1964, chiamata così perché presieduta dall'onorevole Francesco Franceschini), partendo dall'articolo 9 della Costituzione Italiana del 1948[62]. Con la creazione del Ministero per i beni culturali e ambientali nel 1975, voluto da Giovanni Spadolini e Aldo Moro, si decise, e solo in fase di conversione del decreto legge in legge (29 gennaio 1975) grazie ad una presa di posizione di gran parte degli archivisti di Stato italiani, di inserire anche gli archivi tra i beni culturali[63]. La presenza degli archivi tra i beni culturali è stata ribadita dalle disposizioni del Testo Unico (Dlgs. n. 490 del 29 ottobre 1998) e del Codice dei Beni Culturali (Dlgs. 42 del 22 gennaio 2004). In quest'ultimo testo sono precisamente indicati tra i beni culturali «gli archivi e singoli documenti dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico»[64] e «gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante»[65].
In Italia gli archivi ricadono sotto la giurisdizione del Ministero per i beni e le attività culturali, il quale ha una serie di Direzioni Generali competenti per argomento: gli archivi ricadono sotto il controllo della Direzione generale Archivi (DGA), che svolge le funzioni e i compiti, non attribuiti ai segretari regionali o ai soprintendenti di settore ai sensi delle disposizioni in materia, relativi alla tutela dei beni archivistici. L'amministrazione, entrando nel dettaglio, si articola in organi centrali e in una serie di organi periferici.
L'unico organo centrale è la:
Gli organi periferici si dividono, invece, in:
Oltre al sito della DGA., che fornisce uno sguardo d'insieme sulle attività degli archivi in Italia, si ricordano i seguenti portali web afferenti a varie realtà:
Patrocinata verso il 1966[70] da Claudio Pavone e da Piero d'Angiolini[71], la Guida generale degli Archivi di Stato Italiani vide la stesura delle voci di 95 Archivi di Stato in circa trent'anni di lavori[72], voci a loro volta distribuite in quattro volumi. In seguito al processo di digitalizzazione del società, si è avviato il caricamento delle voci tramite internet, cercando al contempo di riadattarle secondo le normative provenienti dagli standard nazionali. Nel 2009 fu completato questo processo, dando avvio al progetto digitale Sistema Guida Generale degli Archivi di Stato[71].
L'A.N.A.I., costituita nel 1949, originariamente era l'associazione degli archivisti di Stato, ma successivamente divenne l'associazione di tutti gli archivisti italiani. L'ANAI è articolata in Sezioni Regionali e pubblica la rivista «Archivi» e si occupa di fornire percorsi formativi agli archivisti riguardo alle ultime novità in campo legislativo.
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