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primo imperatore romano (27 a.C. - 14 d.C.) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (in latino Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus; nelle epigrafi: C·IVLIVS·C·F·CAESAR·IIIVIR·RPC[33]; Roma, 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14), nato come Gaio Ottavio (Gaius Octavius) con in seguito aggiunto l'agnomen di Turino (Thurinus)[34] e meglio conosciuto come Ottaviano e/o Augusto, è generalmente riconosciuto come il fondatore dell'Impero romano, e primo imperatore di esso per 41 anni, dal 27 a.C. al 14 d.C.
Ottaviano Augusto | |
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Imperatore romano | |
Augusto di Prima Porta, Musei Vaticani | |
Nome originale | Gaius Octavius (alla nascita) Gaius Iulius Caesar Octavianus (dopo l'adozione) Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus (dopo l'ascesa al potere imperiale) |
Regno | 16 gennaio 27 a.C. – 19 agosto 14 d.C. |
Tribunicia potestas | 37 anni consecutivi,[1][2] dal 1º luglio 23 a.C.[3] |
Titoli | Augustus nel 27 a.C., Pontifex maximus (dopo la morte di Marco Emilio Lepido nel 13 a.C.),[4][5] Pater Patriae nel 2 a.C.[6] e praefectus moribus (nel 19 a.C. e rinnovatagli nel 12 a.C.[7]) |
Salutatio imperatoria | 21 volte:[2] la prima nel 40 a.C.,[8] poi nel 36 a.C. (2ª),[8][9] 33 a.C. (3ª[10]), 31 a.C. (4ª),[11] 30 a.C. (5ª[12]), 27 a.C. (6ª),[8] 26 a.C. (7ª),[8][13] 21 a.C. (8ª),[8] 19 a.C. (9ª[14] e 10ª[8]), 16 a.C. (11ª),[15] 10 a.C. (12ª),[16] 8 a.C. (13ª),[17] 7 a.C. (14ª),[18] 3 a.C. (15ª),[19] 2 (16ª),[20] 6 (17ª), 8 (18ª),[21] 9 (19ª),[21][22] 11 (20ª),[23] 13 (21ª).[24] |
Nascita | 23 settembre 63 a.C.[25] Roma (ad Capita Bubula)[25] |
Morte | 19 agosto 14 d.C. Nola |
Sepoltura | Mausoleo di Augusto |
Predecessore | carica creata (Repubblica romana) |
Successore | Tiberio |
Coniuge | Clodia Pulcra[26] (fino al 40 a.C.) Scribonia[26] (40–38 a.C.) Livia Drusilla[26] (38 a.C.-14) |
Figli | Giulia maggiore[27] Adottivi: Lucio Cesare[28] Gaio Cesare[28] Marco Vipsanio Agrippa Postumo (poi ripudiato e mandato in esilio)[29] Tiberio[29] |
Dinastia | Giulio-claudia |
Padre | Gaio Ottavio[30] Gaio Giulio Cesare (adottivo) |
Madre | Azia maggiore[31] |
Consolato | 13 volte:[2] 43 a.C. (il I, a soli vent'anni),[32] 33 a.C. (II),[32] 31 a.C. (III),[32] 30 a.C. (IV, inaugurato in Asia),[32] 29 a.C. (V, inaugurato a Samo),[32] 28 a.C. (VI),[32] 27 a.C. (VII),[32] 26 a.C. (VIII, inaugurato a Tarraco),[32] 25 a.C. (IX, inaugurato a Tarraco),[32] 24 a.C. (X),[32] 23 a.C. (XI),[32] 5 a.C. (XII),[32] 2 a.C. (XIII),[32] |
Proconsolato | 40 a.C. - 33 a.C. in Spagna e Gallia |
Princeps senatus | dal 28 a.C. e associato con l'imperatore romano fino al dominato |
Pontificato max | dal 13 a.C., dopo la morte di Marco Emilio Lepido |
Insieme con Marco Antonio ed Emilio Lepido creò il secondo triumvirato, ottenendo il proconsolato sulle province di Sicilia, Sardegna e Corsica, e Africa. Con il ritiro di Lepido e gli accordi di Brindisi del 40 a.C. Ottaviano divenne proconsole in tutte le province occidentali (Sicilia, Sardegna e Corsica, Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore, Gallia Narbonense, Gallia Cisalpina [con Illyricum settentrionale], Gallia Comata e Africa) e in più ottenne in affidamento l'Italia.
Nel 27 a.C. egli rimise le cariche nelle mani del Senato; in cambio ebbe un imperio proconsolare che lo rese capo dell'esercito e il Senato romano, dietro suggerimento di Lucio Munazio Planco, gli conferì il titolo onorifico di Augustus il 16 gennaio 27 a.C.,[35] cioè "degno di venerazione e di onore". Il suo nome ufficiale fu da quel momento Imperator Caesar Divi filius Augustus (nelle epigrafi IMPERATOR·CAESAR·DIVI·FILIVS·AVGVSTVS).[36]
Augusto volle essere identificato come l'artefice del ripristino della Repubblica, dei Costumi degli Antenati (mores) e, soprattutto, come il portatore della Pax Romana, cioè quel clima di pace e di ordine che imponeva su tutto l'impero di Roma le stesse leggi, la stessa lingua e un'unica economia. Questa idea di Roma come trionfatrice universale venne creata attraverso un uso accorto delle immagini, l'abbellimento della città, la tutela degli intellettuali che celebravano il principato, la riqualificazione del Senato e dell'ordine degli equites. La storiografia contemporanea si è occupata dell'eredità storica di Augusto, che ha bisogno di essere ridefinita dopo le iperboli del ventennio fascista.[37]
Lo stesso Augusto ha voluto lasciare di sé un'immagine eroica nelle Res gestae, consapevolmente sostenne Virgilio in questa celebrazione nell'Eneide: durante la sua vita Augusto aveva evitato di attribuirsi appellativi divini, ma subito dopo la sua morte fu subito considerato figlio di Dio.[38] L'attributo "Augustus" indica un riconoscimento religioso e in seguito ebbe anche quello di "Princeps". Alcuni storici come Seneca il Vecchio, Lucio Anneo Seneca, Sallustio, Svetonio e Appiano indicano anche le proscrizioni, la conquista astuta del potere e la politica autocratica di Augusto. Augusto contribuì enormemente a fare di Roma la meraviglia dei secoli. Rimodellò l'Urbe lasciando la frase: "Ho trovato una città di mattoni, ne lascio una di marmo". In architettura Roma arrivò a uno splendore elevatissimo.
Dal punto di vista amministrativo, le riforme di Augusto furono importanti e durature. Attribuì le province non pacificate a legati imperiali scelti da lui stesso, lasciando le altre a proconsoli di rango senatorio; tutti però rispondevano all'imperatore. Augusto tenne per sé l'Egitto, sotto il governo di un suo prefetto. Riformò il sistema fiscale e monetario. Riorganizzò l'amministrazione della città di Roma, attribuendo ad alti funzionari statali la cura dell'urbanistica, la responsabilità dell'approvvigionamento alimentare e la gestione delle acque.
Nel 23 a.C. gli fu riconosciuta la tribunicia potestas (che mantenne poi a vita[1]) e l'Imperium proconsulare a vita;[39] mentre nel 12 a.C. divenne Pontefice massimo con la morte di Marco Emilio Lepido.[4][40] Restò al potere sino alla morte e il suo principato fu il più lungo della Roma imperiale (44 anni dal 30 a.C., 41 anni dal 27 a.C., 37 anni dal 23 a.C.).[41][42]
«Ottenne magistrature e onori prima del tempo [legale]: alcune furono create appositamente per lui o gli furono attribuite in modo perpetuo.»
L'età di Augusto ha rappresentato un momento di svolta nella storia di Roma e il definitivo passaggio dal periodo repubblicano al principato. La rivoluzione dal vecchio al nuovo sistema politico contrassegnò anche la sfera economica, militare, amministrativa, giuridica e culturale.
Augusto, negli oltre quarant'anni di principato, introdusse riforme d'importanza cruciale per i successivi tre secoli:[43]
Le principali fonti per la vita e il ruolo di Augusto e degli altri membri della famiglia imperiale sono rappresentate dalle biografie di Svetonio (Vite dei dodici Cesari), oltre ad Appiano di Alessandria (Historia Romana), Aurelio Vittore (De Caesaribus), Cassio Dione (Historia Romana), Tacito (Annales), Velleio Patercolo (Historiae Romanae ad M. Vinicium consulem libri duo) e lo stesso Augusto (Res gestae divi Augusti).
Nel corso della sua vita, Augusto ebbe modo di cambiare più volte il suo nome. Si riportano di seguito i nomi utilizzati nelle varie fasi della sua vita:
Secondo quanto riportato da Gaio Svetonio Tranquillo nelle Vite dei Cesari, Augusto aveva occhi chiari e nitidi, denti piccoli e mal tenuti, capelli castano chiaro dorato leggermente ricci e tenuti corti, orecchie non troppo grandi e il naso dritto leggermente aquilino. Non era inoltre particolarmente alto, ma aveva comunque un corpo molto proporzionato.[63]
Era figlio di Gaio Ottavio, uomo d'affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia (ricca famiglia di Velitrae),[64][65] cariche pubbliche e un posto in Senato (era quindi un homo novus).[66] La madre, Azia maggiore, proveniva invece da una famiglia da parecchie generazioni di rango senatorio e dagli illustri natali: era infatti imparentata sia con Cesare sia con Gneo Pompeo Magno.[67] Azia era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia minore, e di Marco Azio Balbo; Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare.[31]
Nacque a Roma nove giorni prima delle Calende di ottobre prima dell'alba, in quella parte del Palatino denominata ad Capita Bubula («teste di bue»), dove dopo la sua morte venne costruito un santuario a lui dedicato.[25] Svetonio aggiunge che inizialmente abitò nei pressi del Foro Romano, sopra le "scale degli orefici", nella casa che era stata dell'oratore Gaio Licinio Calvo, nei pressi del colle Velia.[68] In seguito si trasferì sul Palatino, in una casa ugualmente modesta che era appartenuta al consolare e oratore Quinto Ortensio Ortalo, di non grande ampiezza e priva di lusso, visto che le colonne dei suoi portici piuttosto basse, erano di pietra del monte Albano, mentre nelle stanze non c'era né marmo, né mosaici. Dormì nella stessa camera per più di quarant'anni, anche d'inverno, sebbene considerasse poco adatto alla sua salute il clima invernale di Roma.[68]
Il suo nome alla nascita era Gaio Ottavio, cui fu aggiunto Turino quando era fanciullo (Gaius Octavius Thurinus), soprannome in ricordo di suo padre Ottavio, vittorioso contro gli schiavi fuggitivi nella regione di Thurii.[69]
Circa a quattro anni perse il padre (nel 59 a.C.). A dodici anni circa pronunciò l'orazione funebre (laudatio funebris) per sua nonna Giulia (nel 51 a.C.).[70] Svetonio racconta di un episodio avvenuto in questo periodo secondo il quale, Cicerone, mentre accompagnava Gaio Giulio Cesare in Campidoglio, raccontò agli amici di aver fatto un sogno la notte precedente. Nel sogno aveva visto un fanciullo dai nobili lineamenti, che scendeva dal cielo appeso a una catena d'oro e si fermava davanti alle porte del Campidoglio, dove Giove gli consegnava una frusta. Quando Cicerone vide Ottaviano, che lo zio Cesare aveva fatto venire a un sacrificio, disse che era proprio lui il ragazzo apparsogli in sogno.[65]
Quattro anni dopo all'età di sedici anni indossò la toga virile[65] e ottenne alcune ricompense militari in Africa, in occasione del trionfo del prozio Gaio Giulio Cesare, senza nemmeno aver partecipato alla guerra per la giovane età. Quando poi lo zio partì per la Spagna per combattere contro i figli di Pompeo, lo seguì, sebbene ancora convalescente da una grave malattia. Raggiunse Cesare con una scorta ridotta, dopo aver percorso strade infestate da nemici e dopo un naufragio. Si fece subito apprezzare dallo zio per il coraggio dimostrato. Dopo aver portato a termine anche la guerra in Spagna, Cesare, che progettava una campagna militare prima contro i Daci e poi contro i Parti, lo inviò ad Apollonia, dove poté dedicarsi allo studio.[70]
Svetonio racconta che durante il soggiorno ad Apollonia, Ottaviano era salito insieme al fedele amico, Marco Vipsanio Agrippa, all'osservatorio dell'astrologo Teogene. Fu Agrippa a consultarlo per primo, ricevendo splendide previsioni sulla sua vita futura, quasi incredibili. Ottaviano, temendo di essere considerato di origini oscure, preferì inizialmente non fornire i dati relativi alla propria nascita, ma dopo numerose preghiere, vi acconsentì. Teogene allora si alzò dal suo seggio e lo adorò. Per questo motivo Ottaviano ebbe così tanta fiducia nel suo destino che fece pubblicare il suo oroscopo e coniare una moneta d'argento con il segno del Capricorno, suo ascendente: in epoca imperiale si dava più importanza a quest'ultimo piuttosto che al segno di nascita (Bilancia per Augusto).[65]
Nel 44 a.C., in occasione della morte di Cesare, seppe di essere stato adottato per testamento dal prozio come figlio ed erede e, secondo la consuetudine, assunse il nomen gentilizio (Iulius) e il cognomen (Caesar) del padre adottivo, omettendo però di aggiungere come tradizione un secondo cognome derivato della gens di provenienza aggettivata in -anus, divenendo così Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar).[69] Il nome Ottaviano venne generalmente diffuso dalla propaganda degli avversari politici, ma non risulta nei documenti ufficiali. Si narra che poco prima di venire assassinato, Cesare lo avesse nominato magister equitum in seconda,[71] accanto a Marco Emilio Lepido, in vista della grande spedizione d'Oriente che stava preparando contro i Parti, inviandolo appena diciottenne ad Apollonia a verificare i preparativi per la futura guerra. È qui che Ottaviano fu informato dell'uccisione del prozio (15 marzo 44 a.C.); pur restando indeciso sul da farsi, se chiamare in aiuto le legioni orientali o lasciar perdere, preferì desistere da un'impresa tanto temeraria e tornare a Roma a reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare.[70] Ancora Svetonio racconta di un episodio curioso:
«Tornando da Apollonia a Roma, dopo la morte di Cesare, nel cielo limpido e puro apparve all'improvviso un cerchio, simile all'arcobaleno, che circondò il sole, mentre la tomba di Giulia, figlia di Cesare, fu colpita più volte da un fulmine. […] Tutti l'interpretarono come un presagio di grandezza e prosperità.»
Giunto nella capitale rivendicò la sua eredità, nonostante le esitazioni di sua madre e l'opposizione del patrigno Lucio Marcio Filippo, ex console che aveva sposato la madre Azia dopo la morte del padre (59 a.C.)[70]
«Da questo momento, Ottaviano si procurò un esercito e governò la Res publica prima con Marco Antonio e Marco Lepido, poi per circa 12 anni con il solo Antonio (dal 42 al 30 a.C.), e infine per 44 anni da solo (dal 30 a.C. al 14).»
Come erede principale di Cesare, Ottaviano aveva diritto a tre quarti delle sue ricchezze. Informato dell'uccisione del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo. Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario e Quinto Pedio, a cui spettava il restante quarto del patrimonio di Cesare; solo Ottaviano, però, poté prendere, in quanto unico figlio adottivo, il nome del defunto, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare lasciava, inoltre, agli abitanti di Roma trecento sesterzi ciascuno, oltre ai suoi giardini lungo le rive del Tevere (Horti Caesaris).[72]
Svetonio sintetizzò il periodo che seguì delle guerre civili come segue:
«Augusto combatté cinque guerre civili: a Modena, a Filippi, a Perugia, in Sicilia e ad Azio. La prima e l'ultima contro Marco Antonio, la seconda contro Bruto e Cassio, la terza contro Lucio Antonio, fratello del triumviro, la quarta contro Sesto Pompeo, figlio di Gneo.»
Sbarcato a Brindisi, dove ricevette il benvenuto dalle legioni di Cesare lì acquartierate in attesa della spedizione in Oriente, Ottaviano si impossessò dei circa 700 milioni di sesterzi di denaro pubblico destinati alla guerra contro i Parti, che utilizzò per acquisire ulteriore favore tra i soldati e tra i veterani di Cesare stanziati in Campania.
«Ritenendo che la cosa più importante fosse quella di vendicare la morte di suo zio e di difendere ciò che aveva fatto, appena tornò da Apollonia, decise di essere estremamente duro con Bruto e Cassio, i quali non se lo aspettavano, e quando questi capirono di essere in pericolo, fuggirono; [allora Ottaviano] li perseguì con un'azione legale atta a farli condannare per omicidio.»
Ottaviano giunse a Roma il 21 maggio, dopo che i cesaricidi avevano già da più di un mese lasciato la città, grazie a un'amnistia concessa dal console superstite, Marco Antonio. Il giovane si affrettò a rivendicare il nome adottivo di Gaio Giulio Cesare, dichiarando pubblicamente di accettare l'eredità del padre e chiedendo pertanto di entrare in possesso dei beni familiari. Antonio, che in qualità di console e capo della fazione cesariana deteneva in quel momento il controllo del patrimonio, procrastinò però il versamento adducendo la necessità di attendere che una lex curiata del Senato ratificasse il testamento del defunto. Ottaviano decise allora, impegnando i propri beni, di anticipare al popolo le somme che Cesare aveva lasciato nel suo testamento e di eseguire i giochi per la vittoria di Farsalo. Ottenne così che molti dei cesariani si schierassero dalla sua parte contro Antonio, suo diretto avversario nella successione politica a Cesare.
Il Senato, e in particolare Marco Tullio Cicerone, che lo vedeva in quel momento come un principiante inesperto data la sua giovane età (e così Antonio che lo riteneva un ragazzo "di tutto debitore al nome" del padre),[73] pronto a essere manovrato dall'aristocrazia senatoria, e che apprezzava l'indebolimento della posizione di Antonio, approvò la ratifica del testamento, riconoscendo a Ottaviano lo status di erede legittimo di Giulio Cesare. Con il patrimonio di Cesare ora a sua disposizione, Ottaviano poté quindi reclutare in giugno un esercito privato di circa 3 000 veterani, garantendo a ciascuno di loro un salario di 500 denari, mentre Marco Antonio, ottenuta con legge speciale (lex de permutatione provinciarum) l'assegnazione - al termine del suo anno consolare - della Gallia cisalpina già affidata al propretore Decimo Bruto, si accingeva a portare guerra ai cesaricidi per recuperare il favore della fazione cesariana. In quest'occasione Cicerone scriveva ad Attico manifestando certezza sulla fedeltà di Ottaviano alla causa repubblicana, sicuro della possibilità di sfruttare le potenzialità di quel giovane rampollo per eliminare Antonio,[74] uscito indenne (con grave dispiacere dell'oratore) dalle Idi.[75] Tacito commenterà che in quell'occasione l'erede di Cesare simulò soltanto la fedeltà al partito neo-pompeiano comandato in quel momento da Cicerone, con l'idea - come si vedrà in seguito - di trarre profitto dalla situazione.[76]
Frattanto Ottaviano, poiché i magistrati incaricati non osavano celebrare i Ludi per la vittoria del prozio Cesare, si occupò personalmente di organizzarli (dal 5 al 19 settembre 44 a.C.). In seguito, per riuscire a portare a termine altri suoi progetti, sebbene fosse patrizio ma non ancora senatore, si presentò come candidato per sostituire un tribuno della plebe, che era appena deceduto. La sua candidatura incontrò l'opposizione del console Marco Antonio, sul cui appoggio il giovane Ottaviano contava, ma che evidentemente aspirava a ottenere una grossa ricompensa. Questa prima incomprensione con Antonio lo indusse a passare dalla parte degli ottimati.[77]
Quando nel mese di ottobre, l'appoggio del Senato a Ottaviano si fece più pressante, con Cicerone che tuonava con le sue Filippiche contro Antonio, questi decise di riprendere il controllo della situazione richiamando in Italia le legioni stanziate in Macedonia. Di fronte a quella minaccia, Ottaviano a novembre richiamò allora i veterani di Cesare a lui fedeli, ottenendo ben presto anche la diserzione di due delle legioni macedoni di Antonio, la IV e la Martia, appena sbarcate.
Fallito, per l'opposizione del Senato (Cicerone è infatti sicuro della fedeltà del giovane), il tentativo di far dichiarare Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne l'autorità (in realtà sarà Antonio a essere indicato come nemico dello Stato avendo preso d'assedio illegalmente un legittimo propretore), il console decise allora di accelerare i tempi dell'occupazione della Cisalpina, in modo da garantirsi una posizione di forza per l'anno successivo. Ricevuto il rifiuto da parte di Decimo Bruto alla cessione della Cisalpina, Antonio, grazie al consenso del Senato, poté marciare su Modena, dove strinse d'assedio Bruto.[77]
Intanto Ottaviano, su consiglio di alcuni ottimati, provò ad assoldare alcuni sicari perché uccidessero Antonio, ma scoperto il suo tentativo, credendosi a sua volta in pericolo, arruolò una buona parte dei veterani di Cesare, facendo loro grandi largizioni per ottenerne il loro aiuto.[77] Il 1º gennaio 43 a.C., giorno dell'insediamento dei nuovi consoli Pansa e Irzio, il Senato decretò l'abrogazione della legge che assegnava ad Antonio la Gallia Cisalpina e ordinò a questi di cessare immediatamente gli attacchi a Decimo Bruto. Ottenutone un netto rifiuto, i consoli vennero incaricati di marciare contro Antonio assieme a Ottaviano, cui venne conferito eccezionalmente l'imperium di pretore sì da legalizzare la condizione del suo esercito privato.[77]
Il 14 aprile e il 21 aprile Antonio venne sconfitto nella battaglia di Forum Gallorum e nella battaglia di Modena, nelle quali, però, rimasero uccisi i due consoli Irzio e Pansa, Ottaviano prese parte personalmente ai combattimenti del 21 aprile all'interno del campo di Antonio e alla fine rimase unico comandante delle legioni repubblicane.[78]
«Durante il primo scontro, se dobbiamo credere a quanto scrive Antonio, Ottaviano si diede alla fuga e ricomparve due giorni dopo, senza il suo mantello di comandante ed il cavallo; ma nella seconda sappiamo che fece il suo dovere non solo come generale, ma anche come soldato: vedendo, nel mezzo della battaglia, che l'aquilifer della sua legione era ormai ferito gravemente, prese con sé l'aquila sulle spalle e la tenne con sé per il tempo necessario.»
Svetonio aggiunge che corse voce allora che fosse stato Ottaviano a far uccidere Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, poiché, una volta messo in fuga Antonio e tolti di mezzo entrambi i consoli, potesse rimanere unico padrone degli eserciti vincitori. Tanto è vero che da Cicerone apprendiamo che, al termine della battaglia di Forum Gallorum, Pansa si ritirò al campo ferito, ma ancora in vita.[79] Una lettera a Cicerone scritta da Servio Sulpicio Galba, testimone oculare della battaglia, tace su eventuali ferite a danno del console.[80] Nel resoconto appianeo l'altro console, Irzio, risulta invece morire durante l'assalto al campo di Antonio, ma questa notizia è sospetta in quanto è quasi certo che Appiano abbia attinto all'autobiografia perduta di Augusto.[81]
A ogni modo la morte di Pansa sembrò talmente sospetta che Glicone, il suo medico, fu messo in prigione con l'accusa di aver lavato la ferita con il veleno. Aquilio Nigro sostenne, infine, che nella confusione della battaglia l'altro console, Irzio, fu ucciso dallo stesso Augusto.[78] E quando venne a sapere che Antonio, dopo la sconfitta, era stato accolto da Marco Emilio Lepido e che anche altri comandanti, insieme ai loro eserciti, si stavano avvicinando al partito a lui avverso, abbandonò la causa degli ottimati.[82] La tesi del complotto di Ottaviano sembra essere sostenuta anche da Tacito, che scrive:
«… tolti di mezzo Irzio e Pansa (furono uccisi dai nemici? Oppure a Pansa sparsero del veleno sulla ferita e Irzio venne ucciso dai suoi soldati e per macchinazione dello stesso Augusto?), si era impadronito delle loro truppe; che aveva estorto il consolato a un senato riluttante e rivolto le armi, avute per combattere Antonio, contro lo stato…»
Tornato a Roma con l'esercito, infatti, malgrado la giovane età (aveva soli vent'anni), Ottaviano si fece eleggere console suffectus[32] assieme a Quinto Pedio, ottenendo compensi per i suoi legionari e facendo approvare dal Senato la lex Pedia contro i cesaricidi. In tal modo i consoli poterono rifiutarsi di portare ulteriore soccorso a Decimo Bruto, che, in fuga, venne infine ucciso nella Cisalpina da un capo gallo fedele ad Antonio. Svetonio racconta che:
«A vent'anni prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma (urbem) e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell'esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l'impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: "Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà".»
Dalla sua nuova posizione di forza, divenuto legalmente capo dello Stato romano, Ottaviano prese contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione di ricomporre i dissidi interni alla fazione cesariana. Con gli auspici di Lepido, ottenne dunque che fosse organizzato un incontro a tre con Antonio nei pressi di Bononia. Da quel colloquio privato nacque un accordo a tre, tra lui, Antonio e Lepido[83] della durata di cinque anni. Si trattava del secondo triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con la Lex Titia, in cui veniva creata la speciale magistratura dei Triumviri rei publicae constituendae consulari potestate, ovvero "triumviri per la costituzione dello stato con potere consolare".
«Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. […] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. […] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto.»
Il patto prevedeva la divisione dei territori romani: a Ottaviano toccarono Siria, Sardegna e Africa proconsolaris. I triunviri redassero delle liste di proscrizione, sull'esempio di Silla, contro gli oppositori di Cesare, che portarono alla confisca dei beni e all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone che pagò le Filippiche rivolte contro Antonio. A Roma e in Italia si scatenò quindi una caccia all'uomo senza eguali e in molti casi più feroce e indiscriminata di quella operata dopo la vittoria di Silla su Gaio Mario. Molte furono le vittime illustri: ben 300 senatori caddero sotto i colpi degli assassini e 2 000 cavalieri ne seguirono la sorte. Si preparò nel contempo la guerra contro Bruto e Cassio e i cesaricidi.
Tra questi fu anche Cicerone, al quale Antonio non aveva perdonato le orazioni contro di lui, raccolte nelle Filippiche. Ottaviano, pur essendo stato protetto e incoraggiato dal grande intellettuale latino, non fece nulla per salvargli la vita. Altra barbarie decisa dai triumviri fu l'uso di appendere ai rostri del foro le teste dei nemici uccisi e di dare una ricompensa proporzionale a chi le portava: 25 000 denari agli uomini liberi, 10 000 agli schiavi con l'aggiunta della manomissione e della cittadinanza.
«Mandai in esilio quelli che trucidarono mio padre punendo il loro delitto con procedimenti legali; e muovendo poi essi guerra alla repubblica li vinsi due volte in battaglia.»
Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido al governo della capitale, si scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino e li sconfissero in due scontri a Filippi, nella Macedonia orientale.[83] I due anticesariani trovarono la morte suicidandosi.[84] La battaglia fu vinta soprattutto per merito di Antonio e la parte di Ottaviano non fu certo gloriosa visto che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, afferma che "alla battaglia di Filippi [Ottaviano] cadde malato, fuggì e si nascose per tre giorni in una palude" o come riferisce Svetonio "il suo campo venne preso dal nemico e riuscì a scappare a stento, rifugiandosi dalla parte dove si trovava l'esercito di Antonio".[83] La versione ufficiale fu che Ottaviano era stato esortato a fuggire in un sogno avuto dal suo medico.[85]
«Non fu certo moderato dopo la vittoria. Al contrario inviò a Roma la testa di Bruto affinché fosse gettata ai piedi della statua di Cesare; si accanì contro tutti i prigionieri nobili, riempiendoli di insulti; […] due prigionieri, padre e figlio, chiedevano la grazia di essere lasciati in vita, ma egli dispose che tirassero a sorte o giocassero alla morra per sapere chi dei due si sarebbe salvato. Poi assistette mentre morivano, poiché il padre, che si era offerto, venne sgozzato dallo stesso Ottaviano, mentre il figlio si suicidò. Ciò indusse tutti gli altri prigionieri […] quando vennero condotti al supplizio in catene, a salutare rispettosamente Antonio con il titolo di generale, non invece Ottaviano che ricoprirono dei più mostruosi insulti.»
Ottaviano, Antonio e Lepido trovandosi padroni, ora, dei territori orientali procedettero a una nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris, ad Antonio, la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, a Ottaviano spettarono l'Italia, la Sicilia, l'Iberia, e la Sardegna e Corsica.
Successivamente nacquero i primi contrasti: Lucio Antonio, fratello di Antonio, nel 41 a.C. si ribellò a Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite terre in Italia (oltre ai 170 000 veterani di Ottaviano), ma fu sconfitto a Perugia nel 40 a.C. Svetonio racconta che durante l'assedio di Perugia, mentre stava facendo un sacrificio non molto distante dalle mura cittadine, Ottaviano per poco non fu ucciso da un gruppo di gladiatori che avevano compiuto una sortita dalla città.[86] Non si può provare che Antonio fosse a conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo,[86] tanto Antonio come Ottaviano decisero di non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna come governatore).[67] Contemporaneamente a questi fatti, il legato di Antonio in Gallia, un certo Quinto Fufio Caleno, morì e le sue legioni passarono dalla parte di Ottaviano, che poté appropriarsi di nuove province del rivale. Svetonio aggiunge:
«Dopo l'occupazione di Perugia, [Ottaviano] prese provvedimenti contro un gran numero di prigionieri e a chi chiedeva la grazia e di essere perdonato, rispose: «Si deve morire.» Altri dicono che, tra quelli che si erano arresi, ne scelse trecento tra i due ordini [senatorio ed equestre] e li mandò a morte per le idi di marzo, di fronte ad un altare posto in onore del divo Giulio. Altri ancora raccontano che Ottaviano prese le armi in accordo con Antonio, per smascherare gli avversari che si nascondevano, […] Dopo averli sconfitti, confiscò i loro beni per poter mantenere le promesse di donativa fatte ai veterani.»
Ottaviano a questo punto sposò Scribonia, parente di Sesto Pompeo: da questa donna, Ottaviano ebbe la sua unica figlia, Giulia.[27][67] In realtà, però, né l'intesa, né il matrimonio durarono a lungo. Nell'estate del 40 a.C. Ottaviano e Antonio vennero ad aperte ostilità: Antonio cercò di sbarcare a Brindisi con l'aiuto di Sesto Pompeo, ma la città gli chiuse le porte. I soldati di ambedue le fazioni si rifiutarono di combattere e i triumviri, pertanto, misero da parte le discordie. Con il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne a una nuova divisione delle province: ad Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia; a Ottaviano l'Occidente compreso l'Illirico; a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia; a Sesto Pompeo fu confermata la Sicilia per metterlo a tacere, affinché non arrecasse problemi in Occidente.[67] Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulvia era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo la pace di Brindisi, Ottaviano ruppe inoltre l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia, e sposò Livia Drusilla, madre di Tiberio e in attesa di un secondo figlio.
Nel 39 a.C., a Miseno, Ottaviano attribuì a Sesto Pompeo la provincia di Sardegna e Corsica, fondando dunque la città di Turris Libisonis, porto granario di Roma e promettendogli l'Acaia, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti a Roma (Pompeo con la sua flotta bloccava le navi provenienti dal Mediterraneo). Sesto Pompeo, però, stava diventando un alleato scomodo e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così a una prima serie di scontri non particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta sia da Sesto sia da un violento fortunale.[67]
Nel 38 a.C. Ottaviano si risolse a incontrarsi a Brundisium con Antonio e Lepido per rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., però, grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo. Quest'ultimo, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio, fu infatti sconfitto definitivamente presso Nauloco.[5]
«La guerra di Sicilia fu una delle prime che [Ottaviano] cominciò, ma venne trascinata per lungo tempo, poiché fu interrotta più volte, sia per ricostituire le sue flotte che erano state distrutte dalle tempeste in due circostanze, nel bel mezzo dell'estate; sia perché, essendo stati interrotti i rifornimenti di grano alla città di Roma fu costretto a chiedere la pace, su insistenza del popolo, visto che la fame andava aggravandosi.»
Ancora Svetonio racconta di altri episodi curiosi di questa guerra contro Pompeo, che vide Ottaviano:
«al momento di combattere, fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono molto per svegliarlo, affinché desse il segnale d'attacco. Per questo motivo Antonio, lo credo io [Svetonio], aveva tutte le sue buone ragioni per rimproverarlo, sostenendo che egli non avesse avuto neppure il coraggio di osservare una flotta schierata a battaglia, al contrario di essere rimasto sdraiato sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, terrorizzato, rimanendo in quella posizione, senza presentarsi ai soldati, fino a quando Agrippa non mise in fuga la flotta nemica. […] Dopo aver fatto passare in Sicilia un'armata, tornò in Italia a prendere le restanti truppe, ma fu assalito all'improvviso da Democaro e Apollofane, luogotenenti di Pompeo; fu un miracolo se riuscì a salvarsi, fuggendo su una sola imbarcazione. Un'altra volta, quando si trovava a piedi nei pressi di Locri, in direzione di Reggio, vide da lontano le navi di Pompeo lungo la costa. Convinto che fossero le sue, si diresse in spiaggia e per poco non venne fatto prigioniero. E proprio in questa circostanza, mentre fuggiva per sentieri impraticabili in compagnia di Paolo Emilio, uno schiavo di quest'ultimo, poiché lo odiava in quanto in passato [Ottaviano] aveva proscritto il padre del suo padrone, provando a vendicarsi, tentò di ucciderlo.»
La Sicilia cadde e Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove poco dopo fu assassinato dai sicari di Antonio.[67]
A quel punto, però, Ottaviano dovette far fronte alle ambizioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui e, rompendo il patto di alleanza, mosse per impossessarsene con venti legioni. Sconfitto però rapidamente, dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu infine confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus.[5]
Dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio, a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimase nelle sole mani di Ottaviano, in Occidente, e Antonio, in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia. Ottenne un nuovo consolato, il secondo, nove anni dopo il primo (nel 33 a.C.) e un terzo, un anno dopo il secondo (nel 31 a.C.).[32] Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato (durò infatti dieci anni[1]). Ottaviano e Antonio inoltre non erano più legati da vincoli di sangue, visto che il primo aveva divorziato da Scribonia (parente di Antonio) nel 39 a.C. e il secondo aveva ripudiato Ottavia (sorella di Ottaviano) per congiungersi con Cleopatra.
Il conflitto era ora inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare.[87] Svetonio ricorda infatti che nel 32 a.C.:
«La sua alleanza con Antonio era sempre stata dubbia e poco stabile, mentre le loro continue riconciliazioni altro non erano che momentanei accomodamenti; alla fine si giunse alla rottura definitiva e per meglio dimostrare che Antonio non era più degno di essere un cittadino romano, aprì il suo testamento, da Antonio lasciato a Roma, e lo lesse davanti all'assemblea, dove designava come suoi eredi anche i figli che aveva avuto da Cleopatra.»
Ancora Svetonio aggiunge che Antonio scriveva ad Augusto in modo confidenziale, quando non era ancora scoppiata la guerra civile tra loro:
«Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi accoppio con una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che iniziò [la nostra storia d'amore]? E tu ti accoppi solo con Drusilla? E così starai bene se quando leggerai questa lettera, non ti sarai accoppiato con Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte. Giova forse dove e con chi ti accoppi?»
In seguito quando fece dichiarare nemico pubblico Antonio, gli rimandò i suoi parenti e i suoi amici, tra cui i consoli Gaio Sosio e Domizio Enobarbo.[87] Poi il Senato di Roma dichiarò guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C. Antonio e Cleopatra furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C. e si suicidarono entrambi, l'anno successivo in Egitto.[87][88]
Dopo Azio, Ottaviano non solo ordinò di uccidere il figlio di Cleopatra, Cesarione (la cui paternità veniva attribuita dalla regina a Cesare),[87] ma decise di annettere l'Egitto (30 a.C.), compiendo l'unificazione dell'intero bacino del Mediterraneo sotto Roma, e facendo di questa nuova acquisizione la prima provincia imperiale, governata da un proprio rappresentante, il prefetto d'Alessandria ed Egitto.[89] L'imperium di Ottaviano su questa provincia venne probabilmente sancito da una legge comiziale già nel 29 a.C., due anni prima della messa in opera del nuovo assetto provinciale. Svetonio racconta che in questa circostanza, quando si trovava ancora ad Alessandria, Ottaviano:
«[…] si fece mostrare il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, prelevato dalla sua tomba: gli rese omaggio mettendogli sul capo una corona d'oro intrecciata con fiori. E quando gli chiesero se voleva visitare anche la tomba di Tolomeo, rispose che voleva vedere un re, non dei morti.»
Per la storiografia moderna più datata, la nuova forma di governo provinciale riservata all'Egitto ebbe origine dal tentativo di compensare la popolazione indigena della perdita del loro monarca-dio (il faraone), con la nuova figura del Princeps;[90] in realtà, la scelta di Ottaviano di porre a capo della nuova provincia un prefetto plenipotenziario (figura che derivava direttamente dal prefetto della città tardo-repubblicana), il cosiddetto praefectus Alexandreae et Aegypti, titolo ufficiale attribuito al neo-governatore collegato alla soppressione della Bulè di Alessandria, fu dettata dal contesto in cui avvenne la conquista del paese: la guerra civile, ragioni di ordine strategico-militare nella lotta fra le due factiones tardo-repubblicane pro-occidente o pro-oriente, l'importanza del grano egiziano[89] per l'annona di Roma e, non da ultimo, il tesoro tolemaico. L'aver, infatti, potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie dei Tolomei consentì a Ottaviano di pagare molti debiti di guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti anni di campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose colonie,[44] sparse in tutto il mondo romano.[91] Svetonio aggiunge che Ottaviano:
«[…] per meglio ricordare la vittoria di Azio, fondò nelle vicinanze la città di Nicopoli, dove vennero istituiti dei giochi quinquennali; fece ingrandire l'antico tempio di Apollo e consacrò a Nettuno e a Marte dove aveva posto gli accampamenti, adornandoli con le spoglie navali.»
Ottaviano era divenuto, di fatto, il padrone assoluto dello Stato romano, anche se formalmente Roma era ancora una repubblica e Ottaviano stesso non era ancora stato investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas di triumviro non era stata più rinnovata: nelle Res Gestae riconosce di aver governato in questi anni in virtù del "potitus rerum omnium per consensum universorum" ("consenso generale"), avendo per questo motivo ricevuto una sorta di perpetua tribunicia potestas[1] (certamente un fatto extra-costituzionale).[92]
Finché questo consenso continuò a comprendere l'appoggio leale degli eserciti, Ottaviano poté governare al sicuro, e la sua vittoria costituì, di fatto, la vittoria dell'Italia sul vicino Oriente; la garanzia che mai il dominio romano avrebbe potuto trovare altrove il suo equilibrio e il suo centro al di fuori di Roma.
Il Senato gli conferì progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano doveva risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei rapporti istituzionali, lasciando intatta la forma repubblicana. I fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium e nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli, conferiva a chi ne era titolare il potere esecutivo, legislativo e militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva la facoltà di opporsi alle decisioni del Senato, controllandone la politica grazie al diritto di veto. Ottaviano cercò di ottenere tali poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando inoltre la soluzione cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima annualmente e poi a vita dictator). La carica di dittatore gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò:
«Il popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta.»
Egli considerò il titolo di dominus («signore») come un grave insulto e sempre lo respinse con vergogna.
Svetonio racconta che un giorno, durante una rappresentazione teatrale alla quale assisteva, un mimo esclamò: O dominum aequum et bonum! («O signore giusto e buono!»). Tutti gli spettatori approvarono esultanti, quasi che l'espressione fosse rivolta ad Augusto, ma egli, non solo pose fine a queste adulazioni con un gesto e lo sguardo, ma il giorno seguente emise anche un severo proclama che ne vietasse ulteriori piaggerie. Egli, infine, non permise che lo chiamassero dominus né i figli o i nipoti, che fosse per gioco o in tono serio.[93] Ancora Svetonio racconta che Ottaviano:
«Due volte pensò di restaurare la Repubblica: la prima volta subito dopo aver sconfitto Antonio, memore che quest'ultimo gli aveva ripetuto spesso che era lui il solo ostacolo al ritorno [della Repubblica]; [la seconda volta] di nuovo nella stanchezza di una malattia persistente. In quella circostanza convocò a casa sua magistrati e senatori dando loro un resoconto dell'Impero. Ma pensando che, come privato cittadino, non avrebbe potuto vivere senza pericolo e temendo di lasciare la Res publica in mano all'arbitrio di molti, continuò a mantenere [il potere]. Non sappiamo quale sia stata la cosa migliore da fare.»
Nel 27 a.C., Ottaviano restituì formalmente nelle mani del Senato e del popolo romano i poteri straordinari assunti per la guerra contro Cleopatra, ricevendo in cambio: il titolo di console da rinnovare annualmente, una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto l'Impero, a sua volta non assoggettato ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato;[94] l'imperium proconsolare decennale, rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali" (compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le province dove fosse necessario un comando militare, ponendolo di fatto a capo dell'esercito;[95] il titolo di Augusto (su proposta di Lucio Munazio Planco),[69] cioè "degno di venerazione e di onore",[96] che sancì la sua posizione sacra che si fondava sul consensus universorum di Senato e popolo romano; l'utilizzo del titolo di Princeps ("primo cittadino"); il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, compreso il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.[97]
Questi poteri decretarono che le province fossero divise in senatorie, rette da magistrati eletti dal Senato, e imperiali, rette da magistrati sottoposti al diretto controllo di Augusto; faceva eccezione l'Egitto, retto da un prefetto di rango equestre, munito di un imperium delegato da Augusto ad similitudinem proconsulis. L'imperium gli consentì di assumere direttamente il comando delle legioni stanziate nelle province "non pacatae" e di avere così costantemente a disposizione una forza militare a garanzia del suo potere, nel nesso inscindibile tra esercito e proprio comandante che era stato creato dalla riforma di Gaio Mario, ormai vecchia di quasi un secolo. L'imperium gli garantiva, inoltre, la gestione diretta dell'amministrazione e la facoltà di emanare decreta, decisioni di carattere giurisdizionale, ed edicta, decisioni di carattere legislativo.
Sotto il controllo del Senato restarono le truppe di stanza nelle province senatoriali, le quali furono rette da un proconsole o propretore. Formalmente, il Senato avrebbe potuto in qualunque momento emanare un senatus consultum limitando, o revocando del tutto, i poteri conferiti.
Nel 23 a.C. fu conferita ad Augusto la tribunicia potestas a vita[1] (che secondo alcuni gli era stata attribuita già dal 28 a.C.), la quale divenne la vera base costituzionale del potere imperiale: comportava infatti l'inviolabilità della persona e il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, e questo senza i vincoli repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale. Particolarmente significativo fu il diritto di veto, che garantì ad Augusto la facoltà di bloccare qualunque iniziativa legislativa che considerasse pericolosa per la propria autorità. Nello stesso anno l'imperium di cui già godeva divenne imperium proconsulare maius et infinitum, in modo da comprendere anche le province senatorie: tutte le forze armate dello Stato romano dipendevano ora da lui.[98]
«Egli stesso [Augusto] fece voto di compiere ogni sforzo, affinché nessuno potesse rammaricarsi del nuovo stato di cose.»
E ancora gli furono conferite nuove onorificenze negli anni a venire. Nel 13 a.C., quando il Pontefice massimo Lepido morì, Ottaviano assunse anche questa carica divenendo il capo religioso dello Stato.[4][40][99]
«[divenuto pontefice massimo] radunò tutte le profezie greche e latine che […] erano tramandate tra il popolo, circa duemila, e le fece bruciare. Conservò solo i libri sibillini e, dopo un'attenta selezione, li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino.»
Nell'8 a.C. fu emanata la Lex Iulia maiestatis, con cui per la prima volta venne punita l'offesa alla "maestà" dell'imperatore, in seguito foriera di conseguenze negative per tutto il periodo successivo. E per finire, nel 2 a.C., anno dell'inaugurazione del tempio di Marte Ultore e del Foro di Augusto, gli fu conferito il titolo onorifico di "Padre della patria" (Pater Patriae).[6]
L'ambizione di Augusto era quella di essere fondatore di un optimus status, facendo rivivere le più antiche tradizioni romane e nel contempo tenendo conto delle problematiche dei tempi. Il mantenimento formale delle forme repubblicane, nelle quali si inseriva il nuovo concetto della personale auctoritas del princeps (primo fra pari), permise di risolvere i conflitti per il potere vissuti nell'ultimo secolo della Repubblica. Egli non schiacciò affatto l'antica aristocrazia, ma le affiancò, in una più vasta cerchia del privilegio, il ceto degli uomini d'affari e dei funzionari, organizzati nell'ordine equestre, i cui membri furono spesso utilizzati dall'imperatore per controllare l'attività degli organi repubblicani e per il governo delle province imperiali.[100]
Ottaviano, una volta ricevuti i necessari poteri da parte di Senato e Popolo romano, cominciò ad assumere misure atte a dare all'Italia e alle Province il sospirato benessere dopo oltre un decennio di guerre civili: riordinò il cursus honorum delle magistrature repubblicane, ne creò di nuove (come la figura del curator o quella del