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fisico, astronomo, filosofo, matematico e scrittore italiano (1564-1642) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642) è stato un fisico, astronomo, filosofo, matematico e scrittore italiano, considerato il padre della scienza moderna.
Uno dei personaggi chiave della rivoluzione scientifica[1][2][3][4] per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo galileiano" o "metodo sperimentale"),[1][5] il suo nome è associato a importanti contributi in fisica[N 1][N 2][3][6][7][8] e in astronomia.[N 3][9] Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico[N 4] e alla teoria copernicana.[N 5][10]
I principali contributi di Galileo Galilei al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica. Grazie a questo metodo la scienza abbandonò per la prima volta la posizione metafisica predominante fino ad allora. Si acquisì così una nuova prospettiva autonoma, sia realistica che empiristica, che privilegiava la quantità rispetto alla qualità. Attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura, si iniziò a elaborare una descrizione razionale e oggettiva della realtà fenomenica, superando la tradizione precedente che si concentrava solo sulla ricerca dell'essenza degli enti.[1][11][12][13][14][15][16][17][18][19]
Inizialmente appoggiato dal papa e dai gesuiti,[20][21] venne poi sospettato di eresia,[22] accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa (denominata "Il Gioiello") ad Arcetri.[23] Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galileo venne gradualmente accettato dalla Chiesa e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, il papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando Galileo.[24][25]
Galileo Galilei nacque il 15 febbraio 1564 a Pisa,[N 6] primogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati.[N 7] Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini;[N 8] Vincenzo Galilei invece apparteneva a una casata più umile, per quanto i suoi antenati facessero parte della buona borghesia fiorentina.[N 9] Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte nel 1520, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità di maggiori guadagni, la professione del commercio.
La famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo, che fu musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto, morto in fasce, e tre sorelle, Virginia, Anna e Livia e forse anche una quarta di nome Lena.[27]
Dopo un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto dell'Università di Pisa, il giovane fu ospitato "senza spese" da Muzio Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di Michelangelo, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro.[28]
A Pisa Galileo Galilei conobbe la giovane cugina Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo Tebaldi, il quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposò nel 1578 probabilmente per metter fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si facevano sul conto della giovane nipote.[29][N 10] Successivamente il giovane Galileo fece i suoi primi studi a Firenze, prima con il padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio fino all'età di quattordici anni.[30]
Vincenzo, il 5 settembre 1580, iscrisse il figlio all'Università di Pisa[N 11] con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.
Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni l'attenzione di Galileo fu presto attratta dalla matematica, che cominciò a studiare dall'estate del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Niccolò Tartaglia.[31] Caratteristica del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta, ma di una disciplina che servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche.[32][33][34] Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci" (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e il lato pragmatico della ricerca scientifica.[35] È probabile che a Pisa, Galileo abbia seguito anche i corsi di fisica tenuti dall'aristotelico Francesco Bonamici.[N 12]
Durante la sua permanenza a Pisa, protrattasi fino al 1585, Galileo arrivò alla sua prima, personale scoperta, l'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, di cui continuerà a occuparsi per tutta la vita, cercando di perfezionarne la formulazione matematica.[36]
Dopo quattro anni il giovane Galileo rinunciò a proseguire gli studi di medicina e andò a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi scientifici, occupandosi di meccanica e di idraulica. Nel 1586 trovò una soluzione al "problema della corona" di Gerone inventando uno strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei corpi.[N 13] L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi.[N 14]
Galileo cercava intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private di matematica a Firenze e a Siena, nel 1587 andò a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna al famoso matematico Christoph Clavius,[N 15] ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono alla cattedra di matematica il padovano Giovanni Antonio Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne nel 1588 due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante, difendendo le ipotesi già formulate da Antonio Manetti sulla topografia dell'Inferno immaginato da Dante.
Galileo Galilei si rivolse allora all'influente amico Guidobaldo Del Monte, matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Guidobaldo fu fondamentale nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando, superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de' Medici,[N 16] lo raccomandò al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la sua protezione, Galileo ebbe nel 1589 un contratto triennale per una cattedra di matematica all'Università di Pisa, dove espose chiaramente il suo programma pedagogico, procurandosi subito una certa ostilità nell'ambiente accademico di formazione aristotelica:
«Il metodo che seguiremo sarà quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici... Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione.[37]»
Frutto dell'insegnamento pisano è il manoscritto De motu antiquiora, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino nel 1585, Diversarum speculationum mathematicarum liber di Giovanni Battista Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'«impeto» come causa del «moto violento». Benché non si sapesse definire la natura di un tale impeto impresso ai corpi, questa teoria, elaborata per la prima volta nel VI secolo da Giovanni Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel quale i corpi stessi si muovono.
A Pisa Galilei non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue Considerazioni sul Tasso che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico.»[38]
Nell'estate del 1591 il padre Vincenzo morì, lasciando a Galileo l'onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, sposatasi quello stesso anno,[N 17] Galileo dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della sorella Livia nel 1601 con Taddeo Galletti,[N 18] e altri denari avrebbe dovuto spendere per soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo.[N 19]
Guidobaldo Del Monte intervenne ad aiutare nuovamente Galilei nel 1592, raccomandandolo al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante la cattedra di matematica dopo la morte, nel 1588, di Giuseppe Moleti.[N 20]
Il 26 settembre 1592 le autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno.[39] Il 7 dicembre Galilei tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la mia età».[40] Galilei arrivò nella Repubblica di Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Giordano Bruno (23 maggio 1592) avvenuto nella medesima città.
Nel dinamico ambiente dello Studio di Padova (risultato anche del clima di relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana), Galileo intrattenne rapporti cordiali anche con personalità di orientamento filosofico e scientifico lontano dal suo, come il docente di filosofia naturale Cesare Cremonini, filosofo rigorosamente aristotelico. Frequentò anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con il nobile Giovanfrancesco Sagredo, che Galilei rese protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e con Paolo Sarpi, teologo ed esperto altresì di matematica e di astronomia. È contenuta proprio nella lettera indirizzata il 16 ottobre 1604 al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi:
«gli spazii passati dal moto naturale[N 22] esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto [...].[N 23]»
Galileo aveva tenuto a Padova lezioni di meccanica dal 1598: il suo Trattato di meccaniche, stampato a Parigi nel 1634, dovrebbe essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle Questioni meccaniche di Aristotele.
Nello Studio di Padova Galileo attrezzò, con l'aiuto di Marcantonio Mazzoleni, un artigiano che abitava nella sua stessa casa, una piccola officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio. È del 1593 la macchina per portare l'acqua a livelli più alti, per la quale ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Dava anche lezioni private – suoi allievi furono, tra gli altri, Vincenzo Gonzaga, il principe d'Alsazia Giovanni Federico, i futuri cardinali Guido Bentivoglio e Federico Cornaro – e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente nel 1598, passò ai 1.000 ottenuti nel 1609.
Una "nuova stella" fu osservata il 9 ottobre 1604 dall'astronomo fra' Ilario Altobelli, il quale ne informò Galilei.[N 24] Luminosissima, fu osservata successivamente il 17 ottobre anche da Keplero, che due anni dopo ne fece oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede Serpentarii, così che quella stella è oggi nota come Supernova di Keplero.
Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre lezioni, il cui testo ci è noto solo in parte (le note rimaste sono pubblicate nell'Edizione Nazionale delle Opere). Nelle lezioni Galileo sosteneva che la stella dovesse collocarsi tra le stelle fisse, contro il dogma che il cielo delle stelle fisse fosse immutabile. Contro le sue argomentazioni scrisse un opuscolo un certo Antonio Lorenzini, sedicente aristotelico originario di Montepulciano,[42] probabilmente su suggerimento di Cesare Cremonini,[N 25] e intervenne a sua volta con un opuscolo anche lo scienziato milanese Baldassarre Capra.[43]
Da loro sappiamo che Galileo aveva interpretato il fenomeno come prova della mutabilità dei cieli sulla base del fatto che, non presentando la "nuova stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre l'orbita della Luna.
A favore della tesi di Galilei fu pubblicato nel 1605 un caustico libretto in dialetto pavano intitolato Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova a opera di un autore sotto lo pseudonimo Cecco di Ronchitti. Nello scritto si difendeva la validità del metodo della parallasse per determinare le distanze (o almeno la distanza minima) anche di oggetti accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli oggetti celesti. Rimane incerta l'attribuzione dello scritto, se cioè sia opera dello stesso Galilei[44] o del suo allievo Girolamo Spinelli, benedettino padovano (1580 ca. - 1647).[45][N 26] È anche probabile, secondo Antonio Favaro, che l'opera sia stata scritta da entrambi.
Verso il 1594 Galilei compose due trattati sulle opere di fortificazione, la Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazione; intorno al 1597 fabbricò un compasso, che descrisse nell'opuscolo Le operazioni del compasso geometrico et militare, pubblicato a Padova nel 1606 e dedicato a Cosimo II. Il compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato, né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione; ma il solito Baldassarre Capra, allievo di Simon Mayr, in un opuscolo scritto in latino nel 1607[N 27] lo accusò di aver plagiato una sua precedente invenzione. Il 9 aprile 1607 Galileo ribaltò le accuse del Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra milanese, dove ritornava anche sulla precedente questione della Supernova.[46]
L'apparizione della supernova creò grande sconcerto e Galileo non disdegnò di approfittare del momento per elaborare, su commissione, oroscopi personali[47] al prezzo di 60 lire venete[N 28]. Peraltro, nella primavera di quel medesimo anno, il 1604, Galilei era stato messo sotto accusa dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio.[48] Il caso venne probabilmente abbandonato anche perché Galileo si era occupato di astrologia natale e non previsionale[49].
«La sua fama come autore di oroscopi gli portò richieste, e senza dubbio pagamenti più sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi Sagredo, Morosini e qualcuno che si interessava a Sarpi. Scambiò lettere con l'astrologo del granduca, Raffaello Gualterotti, e, nei casi più difficili, con un esperto di Verona, Ottavio Brenzoni.»[50] Tra i temi natali calcolati e interpretati da Galileo figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo proprio, calcolato tre volte: «Il fatto che Galileo si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore.»[51]
«Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono.»
Non sembra che, negli anni della polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già pubblicamente pronunciato a favore della teoria copernicana: si ritiene [53] che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente l'assenso della universalità degli studiosi. Aveva, tuttavia, espresso privatamente la propria adesione al copernicanesimo già nel 1597: in quell'anno, infatti, a Keplero – che aveva recentemente pubblicato il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum – scriveva « Ho già scritto molte argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico, nostro maestro ». Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che Galileo punterà per la prima volta verso il cielo nel 1609.[54] Di ottica si erano occupati già Giovanni Battista Della Porta nella sua Magia naturalis (1589) e nel De refractione (1593), e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, del 1604, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale: ma lo strumento fu costruito per la prima volta, indipendentemente da quegli studi nei primi anni del XVII secolo dall'artigiano Hans Lippershey, un ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo decise allora di preparare un tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, « ambedue con una faccia piana e con l’altra sfericamente convessa nella prima lente e concava nella seconda; quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii gli oggetti abbastanza grandi e vicini, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e nove volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista naturale ». Il 25 agosto 1609 Galilei presenta l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia che, apprezzando l'«invenzione», gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto vitalizio d'insegnamento.
L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del cannocchiale non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità sta nel fatto che Galileo è stato il primo a portare dentro la scienza questo strumento, usandolo in maniera prettamente scientifica e concependolo come un potenziamento dei nostri sensi.
La grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata proprio questa: egli superò tutta una serie di ostacoli epistemologici, di idee e pregiudizi, utilizzando suddetto strumento per rafforzare le proprie tesi.
Grazie al cannocchiale Galilei propone una nuova visione del mondo celeste:
Le nuove scoperte furono pubblicate il 12 marzo del 1610 nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo inviò al granduca di Toscana Cosimo II, già suo allievo, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare polemiche. Sempre a Padova, successivamente alla pubblicazione del Sidereus Nuncius, osservando Saturno Galileo scopre e disegna una struttura che in seguito verrà identificata con gli anelli.[N 30]
Il 7 maggio 1610 Galileo chiede a Belisario Vinta, Primo Segretario di Cosimo II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando: «quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura».[55]
Il 6 giugno 1610 il governo fiorentino comunicava allo scienziato l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di Filosofo del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentina»[56] Galileo firmò il contratto il 10 luglio[57] e in settembre raggiunse Firenze.
Qui giunto si premurò di regalare a Ferdinando II, figlio del granduca Cosimo, la migliore lente ottica[58] che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato quando era a Padova dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano[N 31] confezionava «occhialetti» sempre più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con il cannocchiale mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de observatis a sé quattuor Jovis satellitibus erronibus del 1611, così scrivendo: «Vicisti Galilaee»,[N 32] riconoscendo la verità delle scoperte di Galilei. Il giovane Ferdinando o qualcun altro ruppe la lente, e allora Galilei gli regalò qualcosa di meno fragile: una calamita "armata", cioè fasciata da una lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumentava la forza d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once, il magnete «sollevava quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro».[59]
In occasione del trasferimento a Firenze Galilei lasciò la sua convivente, la veneziana Marina Gamba (1570-1612), una ex prostituta (come documentato da Antonino Poppi, Cremonini e Galilei inquisiti a Padova nel 1604: nuovi documenti d’archivio, Editrice Antenore, Padova 1992, pp. 89–94), conosciuta presso Ponte Corbo, zona veneziana dei lupanari, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia (1600-1634) e Livia (1601-1659), mai legittimate e forzate a entrare in convento, e Vincenzio (1606-1649), che riconobbe nel 1619. Galileo affidò a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già conviveva l'altra figlia Virginia, e lasciò il figlio Vincenzio a Padova alle cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a una tale Marina Bartoluzzi.
In seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Giulia Ammannati, Galileo fece entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), nel 1613, costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni: Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre la prima si rassegnò alla sua condizione e rimase in costante contatto epistolare con il padre, Livia non accettò mai l'imposizione paterna.[N 33]
La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscitò apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gli apparteneva, fu messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia il celebre aristotelico patavino Cesare Cremonini, sia il matematico bolognese Giovanni Antonio Magini, che sarebbe l'ispiratore del libello antigalileiano Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum scritto da Martin Horký, pur accogliendo l'invito di Galilei a guardare attraverso il telescopio che egli aveva costruito, ritennero di non vedere alcun supposto satellite di Giove.
Solo più tardi Magini si ricredette e con lui anche l'astronomo vaticano Christoph Clavius, che inizialmente aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da Galilei fossero soltanto un'illusione prodotta dalle lenti del telescopio. Era, quest'ultima, un'obiezione difficilmente confutabile nel 1610-11, conseguente sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio di Galilei,[N 34] sia all'ipotesi che le lenti potessero non solo potenziare la visione ma anche deformarla. Un appoggio molto importante fu dato a Galileo da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verificò l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte nel 1611 la Narratio de observatis a sé quattuor Jovis satellitibus erronibus quos Galilaeus Galilaeus mathematicus florentinus jure inventionis Medicaea sidera nuncupavit.
Poiché i gesuiti docenti presso il Collegio Romano erano considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, il 29 marzo del 1611 Galileo si recò a Roma per presentare le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori dallo stesso papa Paolo V, dai cardinali Francesco Maria Del Monte e Maffeo Barberini, e dal principe Federico Cesi, che lo iscrisse nell'Accademia dei Lincei, da lui stesso fondata otto anni prima. Il 1º aprile Galileo poteva già scrivere al segretario ducale Belisario Vinta che i gesuiti «avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatte da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo riscontrate con le mie, e si rispondano giustissime».
Galilei, però, a quel tempo non sapeva ancora che l'entusiasmo con il quale egli andava diffondendo e difendendo le proprie scoperte e teorie avrebbe suscitato resistenze e sospetti in ambito ecclesiastico.
Il 19 aprile il cardinale Roberto Bellarmino incaricò i matematici vaticani di approntargli una relazione sulle nuove scoperte fatte da «un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale» e la Congregazione del Santo Uffizio, il seguente 17 maggio, precauzionalmente chiese all'Inquisizione di Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale, qualche procedimento a carico di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana cominciava già a intravedere quali conseguenze «avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della scienza sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi della teologia tradizionale».[60]
Nel 1612 Galileo scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostrava, contro quella di Aristotele, che i corpi galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma, provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso di Galileo Galilei del letterato e aristotelico fiorentino Ludovico delle Colombe. Il 2 ottobre, a Palazzo Pitti, presenti il granduca, la granduchessa Cristina e il cardinale Maffeo Barberini, allora suo grande ammiratore, diede una pubblica dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando definitivamente Ludovico delle Colombe.
Nel suo Discorso Galilei accennava anche alle macchie solari, che egli sosteneva di aver già osservate a Padova nel 1610, senza però darne notizia: scrisse ancora, l'anno seguente, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a tre lettere del gesuita Christoph Scheiner che, indirizzate alla fine del 1611 a Mark Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle scienze e amico dei Gesuiti dei quali era banchiere[61][N 35]. A parte la questione della priorità della scoperta,[N 36] Scheiner sosteneva erroneamente che le macchie consistevano in sciami di astri rotanti intorno al Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida appartenente alla superficie del Sole e ruotante intorno a esso proprio a causa della rotazione stessa della stella.
L'osservazione delle macchie consentì, quindi, a Galileo la determinazione del periodo di rotazione del Sole e la dimostrazione che il cielo e la terra non erano due mondi radicalmente diversi, il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e imperfetto. Il 12 maggio del 1612, infatti, ribadì a Federico Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il Sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose dal Peripato per mantenimento della immutabilità de i cieli, la quale non so dove potrà esser salvata e celata». Anche l'osservazione del moto di rotazione del Sole e dei pianeti era molto importante: rendeva meno inverosimile la rotazione terrestre, a causa della quale la velocità di un punto all'equatore sarebbe di circa 1700 km/h anche se la Terra fosse immobile nello spazio.
La scoperta delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da Galileo, non era compatibile con il modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di Tycho Brahe, che Galileo non prese mai in considerazione, e con quello eliocentrico di Copernico. Galileo, scrivendo a Giuliano de' Medici il 1º gennaio 1611, affermava che «Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[N 37] provata, come ora in Venere e in Mercurio».[62]
Fra il 1612 e il 1615 Galileo difese il modello eliocentrico e chiarì la sua concezione della scienza in quattro lettere private, note come "lettere copernicane" e indirizzate a padre Benedetto Castelli, due a monsignor Pietro Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena.
Secondo la dottrina aristotelica in natura il vuoto non esiste poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa parte del corpo stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste corpo. Sostiene Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta sempre di riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote. Un'eccezione però a questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava che l'acqua aspirata in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva inspiegabilmente una parte che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò dovesse essere colmata dalla Natura; ma questo non si verificava. Galilei rispondendo a una lettera inviatagli nel 1630 da un cittadino ligure Giovan Battista Baliani confermò questo fenomeno sostenendo che «la ripugnanza del vuoto da parte della Natura» può essere vinta, ma parzialmente, e che, anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile far salire l’acqua per aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia, circa 10 metri e mezzo.» [63] Galilei quindi crede che l'horror vacui sia limitato[N 38] e non si chiede se in effetti il fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come dimostrerà Evangelista Torricelli.
Il 21 dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze il frate domenicano Tommaso Caccini (1574 – 1648) lanciava contro certi matematici moderni, e in particolare contro Galileo, l'accusa di contraddire le Sacre Scritture con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Giunto a Roma, il 20 marzo 1615, Caccini denunciò Galileo in quanto sostenitore del moto della Terra intorno al Sole. Intanto a Napoli era stato pubblicato il libro del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini (1565-1616), la Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare i passi biblici con la teoria copernicana interpretandoli «in modo tale che non gli contradicano affatto».[64]
Il cardinale Roberto Bellarmino, già giudice nel processo di Giordano Bruno, nella lettera di risposta al Foscarini[65] affermava che sarebbe stato possibile reinterpretare i passi della Scrittura che contraddicevano l'eliocentrismo solo in presenza di una vera dimostrazione di esso e, non accettando le argomentazioni di Galileo, aggiungeva che finora non gliene era stata mostrata nessuna, e sosteneva che comunque, in caso di dubbio, si dovessero preferire le sacre scritture.[N 39] Il rifiuto, da parte di Galileo, di accettare la proposta di Bellarmino di sostituire la teoria tolemaica con quella copernicana - a patto che Galileo la riconoscesse come una mera "ipotesi matematica" atta a "salvare le apparenze" - era un invito, seppur non intenzionale, a far condannare la teoria copernicana.[66]
L'anno dopo il Foscarini verrà, per breve tempo, incarcerato e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant'Uffizio stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere all'esame delle Lettere sulle macchie solari e Galileo decise di venire a Roma per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il Galileo matematico» – scriveva Cosimo II al cardinale Scipione Borghese – «et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli».
Il 25 febbraio 1616 il papa ordinò al cardinale Bellarmino di «convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Nello stesso anno il De revolutionibus di Copernico fu messo all'Indice donec corrigatur (fino a che non fosse corretto). Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato.[67]
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.»
A novembre del 1618 comparvero nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica.
Galilei decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era probabilmente presente. Nella sua replica Guiducci sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo.
Galilei a questo punto rispose direttamente: solo nel 1622 fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma nel maggio 1623. Il 6 agosto, dopo la morte del papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio pontificio Maffeo Barberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse erroneamente Galileo che «risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era stato costretto», come scritto al nipote del papa Francesco Barberini.
Il Saggiatore presenta una teoria rivelatasi successivamente erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Nel Saggiatore, Galileo scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo)»[68], mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della verità sulle questioni naturali.
Il 23 aprile 1624 Galilei giunse a Roma per rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla Disputatio di Francesco Ingoli. Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni teologiche. Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana:[69] alla comune obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria e a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[70]
Nello stesso 1624 Galilei cominciò il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia, e dunque anche quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura dell'opera fino al 1630: dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa nel 1628, si sposò l'anno dopo con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affittò vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l'imprimatur ecclesiastico, l'opera venne pubblicata nel 1632.
Nel Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello tolemaico e quello copernicano (Galileo esclude così dalla discussione l'ipotesi recente di Tycho Brahe) e tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, e all'epoca già defunti, il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614) e il veneziano Gianfrancesco Sagredo (1571-1620), nella cui casa si fingono tenute le conversazioni, mentre il terzo protagonista è Simplicio, un personaggio inventato che richiama nel nome un noto, antico commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Egli è il sostenitore del sistema tolemaico, mentre l'opposizione copernicana è sostenuta dal Salviati e, svolgendo una funzione più neutrale, dal Sagredo, che finisce però per simpatizzare per l'ipotesi copernicana.
Il Dialogo ricevette molti elogi, tra i quali quelli di Benedetto Castelli, di Fulgenzio Micanzio, collaboratore e biografo di Paolo Sarpi, e di Tommaso Campanella, ma già nell'agosto 1632 si diffusero le voci di una proibizione del libro: il Maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi aveva scritto il 25 luglio all'inquisitore di Firenze Clemente Egidi che per ordine del Papa il libro non doveva più essere diffuso; il 7 agosto gli chiedeva di rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il 5 settembre, secondo l'ambasciatore fiorentino Francesco Niccolini, il Papa adirato accusò Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione dell'opera. Urbano VIII esternò tutto il suo risentimento in quanto una sua tesi era stata trattata, secondo lui, maldestramente ed esposta al ridicolo. Discutendo della teoria sulle maree, sostenuta dal copernicano Salviati - e che avrebbe dovuto essere la prova definitiva della mobilità della Terra - Simplicio propugna "una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi, e alla quale è forza quietarsi" (chiaro riferimento a Urbano), secondo la quale Dio, grazie alla sua "infinita sapienza e potenza", avrebbe potuto causare le maree in modi diversissimi tra loro, e non si poteva essere sicuri che quello proposto da Salviati fosse l'unico corretto. Ora, a prescindere dal fatto che la teoria galileiana delle maree era errata, sarà parso sicuramente oltraggioso il commento ironico di Salviati, il quale definisce la proposta di Simplicio "una mirabile e veramente angelica dottrina".[71] Infine l'opera si chiudeva con l'affermazione che agli uomini si "concede il disputare intorno alla costituzione del mondo" a patto di non "ritrovare l'opera fabbricata" da Dio. Questa conclusione non era altro che un espediente diplomatico escogitato pur di andare in stampa. La qual cosa aveva fatto infuriare il Pontefice. Il 23 settembre l'Inquisizione romana sollecitava quella fiorentina perché notificasse a Galileo l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del Sant'Uffizio». Galileo, in parte perché malato, in parte perché sperava che la questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo, ritardò per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del Sant'Uffizio, il 20 gennaio 1633 partì per Roma in lettiga.
Il processo cominciò il 12 aprile, con il primo interrogatorio di Galileo, al quale il commissario inquisitore, il domenicano Vincenzo Maculano, contestò di aver ricevuto, il 26 febbraio 1616, un «precetto» con il quale il cardinale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria copernicana, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio Galileo negò di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare che nella dichiarazione del Bellarmino vi fossero le parole quovis modo (in qualsiasi modo) e nec docere (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore, Galileo non solo ammise di non avere detto «cosa alcuna del sodetto precetto», ma anzi arrivò a sostenere che «nel detto libro io mostro il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti».[72] Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, «pur sotto strettissima sorveglianza», in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, «con ampia e libera facoltà di passeggiare».[73]
Il 22 giugno il giorno successivo all'ultimo interrogatorio di Galilei, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai cardinali Felice Centini, Guido Bentivoglio, Desiderio Scaglia, Antonio Barberini, Berlinghiero Gessi, Fabrizio Verospi e Marzio Ginetti, «inquisitori generali contro l'eretica pravità», nella quale si riassumeva la lunga vicenda del contrasto fra Galileo e la dottrina della Chiesa, cominciata dal 1615 con lo scritto Delle macchie solari e l'opposizione dei teologi nel 1616 al modello Copernicano. Nella sentenza si sosteneva poi che il documento ricevuto nel febbraio 1616 fosse un'effettiva ammonizione a non difendere o insegnare la teoria copernicana.[74]
Imposta l'abiura «con cuor sincero e fede non finta» e proibito il Dialogo, Galilei venne condannato al «carcere formale ad arbitrio nostro» e alla «pena salutare» della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre anni,[N 40] riservandosi l'Inquisizione di «moderare, mutare o levar in tutto o parte» le pene e le penitenze.[75]
Se la leggenda della frase di Galileo, «E pur si muove»,[N 41] pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione del processo segnava la sconfitta del suo programma di diffusione della nuova metodologia scientifica, fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale – contro la vecchia scienza che produce «esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate»[76] – e contro i pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: un programma di rinnovamento scientifico, che insegnava «a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e nel senso comune», che voleva «insegnare a pensare».[77]
La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti: la prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso la residenza romana dell'ambasciatore del Granduca di Toscana, Pietro Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, nella casa dell'arcivescovo Ascanio Piccolomini a Siena, su richiesta di questi. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incaricò di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Maria Celeste[78], suora di clausura. A Siena il Piccolomini favorì Galileo permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera anonima che denunciò l'operato dell'arcivescovo e dello stesso Galileo,[79] il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa («Il Gioiello») che lo scienziato possedeva nella campagna di Arcetri.[N 42] Nell'ordine del 1º dicembre 1633 si intimava a Galileo di «stare da solo, di non chiamare né di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santità».[N 43] Solo i familiari potevano fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la perdita della figlia suor Maria Celeste, l'unica con cui avesse mantenuto legami, avvenuta il 2 aprile 1634.
Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori, anche fuori d'Italia: a Elia Diodati, a Parigi, scrisse il 7 marzo 1634, consolandosi delle sue sventure che «l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro» con la considerazione che «l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza». Da Diodati seppe della traduzione in latino che Matthias Bernegger andava facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di «un tal Antonio Rocco [...] purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla né di matematica né d'astronomia» che scriveva a Venezia «mordacità e contumelie» contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.
Dopo il processo del 1633 Galilei scrisse e pubblicò nei Paesi Bassi[N 44] nel 1638 un grande trattato scientifico dal titolo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e i moti locali grazie al quale lo si considera il padre della scienza moderna. È organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi (Sagredo, Salviati e Simplicio).
Nella prima giornata, Galileo tratta della resistenza dei materiali: la diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutti i corpi «discenderebbero con eguale velocità», in opposizione con la scienza contemporanea che riteneva l'impossibilità del moto nel vuoto.
Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni del pendolo.
Negli ultimi anni di vita, Galilei intraprende un'affettuosa corrispondenza con Alessandra Bocchineri.[N 45] La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato nel 1629 una giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di Galilei, Vincenzio.
Quando Galilei, nel 1630, ormai sessantaseienne, incontra Alessandra,[N 46] questa è una donna di 33 anni che si è affinata e ha coltivato la sua intelligenza come dama d'onore della imperatrice Eleonora Gonzaga presso la corte viennese dove conosce e sposa Giovanni Francesco Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei.
Nella corrispondenza Alessandra e Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e Galilei non manca di elogiare l'intelligenza della donna dato che «sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa».[80][81][82] Con la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute[N 47] lo scienziato pisano è costretto talvolta a rifiutare gli inviti «non solo per le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son note».[83][84]
L'ultima lettera mandata ad Alessandra nel 20 dicembre del 1641 di "non volontaria brevità"[N 48] precede di poco la morte di Galilei che sopraggiungerà diciannove giorni dopo nella notte dell'8 gennaio 1642 ad Arcetri, assistito da Viviani e Torricelli.
«Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento.»
Galilei venne tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze insieme ad altri grandi come Machiavelli e Michelangelo ma non fu possibile innalzargli l'«augusto e suntuoso deposito» desiderato dai discepoli, perché il 25 gennaio il nipote di Urbano VIII, il cardinale Francesco Barberini, scrisse all'inquisitore di Firenze Giovanni Muzzarelli di «far passare all'orecchie del Gran Duca che non è bene fabbricare mausolei al cadavero di colui che è stato penitentiato nel Tribunale della Santa Inquisitione, ed è morto mentre durava la penitenza; nell'epitaffio o iscrittione che si porrà nel sepolcro, non si leggano parole tali che possano offendere la reputatione di questo Tribunale. La medesima avvertenza dovrà pur ella avere con chi reciterà l'oratione funebre [...]».
La Chiesa mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi di Galileo: quando questi diedero vita all'Accademia del Cimento, essa intervenne presso il Granduca, e l'Accademia fu sciolta nel 1667.[85] Soltanto nel 1737 Galileo Galilei fu onorato con un monumento funebre in Santa Croce, che sarebbe stato celebrato da Ugo Foscolo.[86]
Per completezza giova ricordare che solo nel 1992, dopo undici anni di studio di un'apposita commissione pontificia voluta dal papa Giovanni Paolo II, dopo quasi 360 anni dalla condanna la Chiesa ha riconosciuto come ingiusta la pena inflitta allo scienziato, ritenendola tuttavia motivata dal fatto che Galileo avesse introdotto nuove tesi "senza averne fornito adeguate prove" (relazione Card. Poupard,[87] )
Galilei, convinto della correttezza della cosmologia copernicana, era ben consapevole che essa fosse ritenuta in contraddizione con il testo biblico e la tradizione dei Padri della Chiesa, che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo. Poiché la Chiesa considerava le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (ex suppositione) o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti.[N 49] Proprio a questa condizione il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico non era stato condannato dalle autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti, almeno fino al 1616.[88]
Galilei, intellettuale cattolico, si inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a padre Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613.[N 50] Egli difese il modello copernicano sostenendo che esistono due verità necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali Lutero e Giovanni Keplero, i fatti della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto da Agostino d'Ippona, il messaggio propriamente religioso dalla descrizione, storicamente connotata e inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti, episodi e personaggi:
«Dal che seguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio e anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future [...]»
Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno del sistema geocentrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema tolemaico la rotazione diurna (giorno/notte) non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve essere reinterpretata e «bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati».[89] Invece, secondo Galileo, nel sistema copernicano la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra attorno all'asse terrestre (ipotesi poi mostratesi entrambe errate). Quindi, scrive Galileo, l'episodio biblico «ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano».[90] Infatti se Dio avesse fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della (ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la critica proposta da Arthur Koestler, in cui sostiene che Galileo "sapeva meglio di chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città, crollerebbero come un castello di carte; il più ignorante dei frati, senza sapere nulla del momento di inerzia, sapeva benissimo quel che succedeva quando i cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli scogli. Se si interpretava la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari di qualsiasi altro miracolo; in base all'interpretazione di Galileo, Giosuè avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera. Sperando di far passare queste sciocchezze penose, Galileo rivelava il suo disprezzo per gli avversari".[91] Galileo fece analoghe considerazioni in lettere indirizzate al fiorentino monsignor Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena, le quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere polemico e l'ardimento con i quali lo scienziato sosteneva che alcuni passi della Bibbia dovessero venire reinterpretati alla luce del sistema copernicano, all'epoca non ancora dimostrato.
Per Galileo le Sacre Scritture si occupano di Dio; il metodo per condurre le indagini sulla Natura deve fondarsi su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio; di conseguenza, in caso di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro, bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del significato superficiale di quest'ultimo. In altri termini, come spiega lo studioso di Galilei Andrea Battistini, «il testo biblico è conforme soltanto "al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune, velando così con una sorta di allegoria il senso più profondo degli enunciati. Se il messaggio letterale può divergere dagli enunciati della scienza, non lo può mai il suo contenuto "recondito" e più autentico, ricavabile dall'interpretazione del testo biblico oltre i suoi significati più epidermici».[92] Circa il rapporto tra scienza e teologia, celebre è la sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l'intenzione dello Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»,[93] usualmente attribuita al cardinale Cesare Baronio.[94] Si noti che, applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema copernicano, e la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico. Deriva invece proprio da tale criterio la visione galileiana secondo la quale esistono due sorgenti di conoscenza ("libri"), che sono in grado di rivelare la stessa verità che proviene da Dio. Il primo è la Bibbia, scritta in termini comprensibili al "volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione dell'anima, e richiede quindi un'attenta interpretazione delle affermazioni relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), [...] scritto in lingua matematica»,[95] che va letto secondo la razionalità scientifica e non va posposto al primo ma, per essere ben interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui il medesimo Dio della Bibbia ci ha dotati: sensi, discorso e intelletto:
«[...] nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio [...].»
Sempre nella lettera alla granduchessa Cristina di Lorena del 1615, alla domanda se la teologia potesse ancora essere concepita come la regina delle scienze, Galilei rispose che l'oggetto di cui trattava la teologia la rendeva d'importanza primaria, ma che questa non poteva pretendere di pronunciare giudizi nel campo delle verità della scienza. Al contrario, se un certo fatto o fenomeno scientificamente dimostrato non si accorda con i testi sacri, allora sono questi che devono essere riletti alla luce dei nuovi progressi e delle nuove scoperte.[96]
Secondo la dottrina galileiana delle due verità non vi può essere, in definitiva, disaccordo tra vera scienza e vera fede essendo, per definizione, entrambe vere. Ma, in caso di apparente contraddizione su fatti naturali, occorre modificare l'interpretazione del testo sacro per adeguarla alle conoscenze scientifiche più aggiornate.
La posizione della Chiesa al riguardo non differiva sostanzialmente da quella di Galileo: con molte più cautele, anche la Chiesa cattolica ammetteva la necessità di rivedere l'interpretazione delle sacre scritture alla luce di fatti nuovi e nuove conoscenze solidamente comprovate.[97] Ma nel caso del sistema copernicano, il cardinal Roberto Bellarmino e molti altri teologi cattolici sostennero, ragionevolmente, che non vi fossero prove conclusive a suo favore:[98]
«Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel 3° cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata»
La mancata osservazione, con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare (che si sarebbe dovuta riscontrare come effetto dello spostamento della Terra rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece, all'epoca, evidenza contraria alla teoria eliocentrica.[N 51] In tale contesto, la Chiesa ammetteva quindi che si parlasse del modello copernicano solo ex suppositione (come ipotesi matematica). La difesa di Galileo ex professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente) della teoria copernicana quale reale descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei corpi celesti si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale della Chiesa cattolica. Secondo Galileo la teoria copernicana non poteva essere considerata una semplice ipotesi matematica per il semplice fatto che era l'unica spiegazione perfettamente accurata e non utilizzava quelle "assurdità" costituite dagli eccentrici e epicicli. In realtà, diversamente da quanto si diceva a quel tempo, per mantenere un livello di precisione paragonabile a quello del sistema tolemaico, erano stati necessari a Copernico più eccentrici e epicicli di quelli utilizzati da Tolomeo.[99] Il numero esatto di quest'ultimi è inizialmente di 34 (nella sua prima esposizione del sistema, contenuta nel Commentariolus), ma raggiunge la cifra di 48 nel De revolutionibus, secondo i calcoli di Koestler. Invece, il sistema tolemaico non ne utilizzava 80, come affermato da Copernico, bensì solamente 40, secondo la versione aggiornata del 1453 del sistema tolemaico da parte di Peurbach. Lo storico della scienza Dijksterhuis fornisce altri dati, ritenendo che il sistema copernicano utilizzasse solo cinque "cerchi" in meno di quello tolemaico. L'unica differenza sostanziale, pertanto, consisteva esclusivamente nell'assenza degli equanti nella teoria copernicana.[100] Il sopracitato Koestler si è chiesto se questo errore di valutazione sia da attribuirsi alla mancata lettura da parte di Galileo dell'opera di Copernico, oppure alla sua disonestà intellettuale.[101] Questa contrapposizione sfociò inizialmente nella messa all'Indice del De revolutionibus, e infine, molti anni dopo, nel processo a Galileo Galilei del 1633, che si concluse con la condanna[N 52] per "veemente sospetto di eresia" e l'abiura[N 53] forzata delle sue concezioni astronomiche.
Al di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere epistemologico e di ermeneutica biblica che furono al centro del processo sono state oggetto di riflessione da parte di innumerevoli pensatori moderni, che spesso hanno citato la vicenda di Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente paradossali, il loro pensiero in merito a tali questioni. Per esempio il filosofo austriaco Paul Feyerabend, sostenitore di un'anarchia epistemologica, sostenne che:
«La Chiesa dell'epoca di Galilei si attenne alla ragione più che lo stesso Galilei, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galilei fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione[N 54]»
Questa provocazione sarà poi ripresa dal cardinale Joseph Ratzinger, dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica[102]. Ma il vero scopo per cui Feyerabend aveva espresso tale provocatoria affermazione era "solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano Galileo e condannano la Chiesa, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo era la Chiesa ai tempi di Galileo".[103]
Nel corso dei secoli che seguirono la Chiesa modificò la propria posizione nei confronti di Galilei: nel 1734 il Sant'Uffizio concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze; Benedetto XIV nel 1757 tolse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra, con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto il papa Alessandro VII nel 1664 con il ritiro del Decreto del 1616.
La definitiva autorizzazione all'insegnamento del moto della Terra e dell'immobilità del Sole arrivò con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato dal papa Pio VII il 25 settembre 1822.
Particolarmente significativo risulta un contributo del 1855 del teologo e cardinale britannico John Henry Newman, a pochi anni dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo e quando le teorie di Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e provate sperimentalmente. Innanzitutto il teologo riassume il rapporto dell'eliocentrismo con le Scritture:
«[...] Quando il sistema copernicano cominciò a diffondersi, quale uomo religioso non sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione della Chiesa e con l'enunciato della Scrittura? Generalmente si accettava, come se gli Apostoli lo avessero espressamente annunciato sia oralmente che per iscritto, come verità della Rivelazione, che la terra fosse immobile e che il sole, fissato in un solido firmamento, ruotasse intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e un'analisi completa, si scoprì che la Chiesa non aveva deciso quasi niente su questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con le decisioni dell'autorità ecclesiastica.»
Interessante è la lettura che il Cardinale compie della vicenda Galileo come conferma, e non negazione, dell'origine divina della Chiesa:
«[...] è certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai cattolici una certa interpretazione di queste affermazioni fisiche della Scrittura, che la Chiesa non l'abbia formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando alla questione da un punto di vista umano, era inevitabile che essa dovesse far propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto alle nuove scienze di questi ultimi tempi, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin dall'inizio essa ha sempre fatto sui testi sacri, com'è suo compito e suo diritto fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente i testi in questione o a dar loro un senso di autorità che la scienza moderna può mettere in discussione.»
Nel 1968 il papa Paolo VI fece avviare la revisione del processo e, con l'intento di porre una parola definitiva riguardo a queste polemiche, il papa Giovanni Paolo II il 3 luglio 1981 auspicò che fosse intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con la Chiesa e istituì una Commissione Pontificia per lo studio della controversia tolemaico-copernicana del XVI e del XVII secolo, nella quale il caso Galilei si inserisce. Il papa ammise, nel discorso del 10 novembre 1979 in cui annunciava l'istituzione della commissione, che "Galileo ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini e organismi di Chiesa".[105]
Dopo ben tredici anni di dibattimento, il 31 ottobre 1992, la Chiesa cancellò la condanna, formalmente ancora esistente[106], e chiarì la sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galileo Galilei fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla «mancanza di perspicacia», ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei teologi che lo condannarono, incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione della Scrittura e responsabili di aver inflitto molte sofferenze allo scienziato.