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Il gioco (dal latino iocus, scherzo, burla, in seguito "gioco") può essere inteso come una libera attività, regolata da principi interni, messa in atto individualmente o da gruppi, talora in competizione tra loro, al fine di realizzare sé stessa, senza altri scopi immediati che quelli ludici di ricreazione e svago, e, allo stesso tempo, di sviluppare attitudini fisiche, spirituali e intellettive.[1]
La riflessione filosofica sul gioco[2] è presente dagli inizi della storia del pensiero sino a quando l'interesse per questo tema si interrompe e si ripresenta all'attenzione della filosofia solo nel secolo XVIII.
Platone scriveva che «l'uomo è fatto per essere un giocattolo, strumento di Dio, e ciò è veramente la migliore cosa in lui. Egli deve, dunque, seguendo quella natura e giocando i giochi più belli, vivere la sua vita, proprio all'inverso di come fa ora»[3] Per Platone dunque l'uomo è soltanto un giocattolo nelle mani degli dei, non un giocatore che possa sedersi al loro tavolo.
Aristotele distingueva il gioco dal lavoro e lo assimilava alla felicità e alla virtù, poiché come queste il gioco non nasceva per necessità ma si caratterizzava per l'autosufficienza e la libertà. Tutta la società poi è un grande gioco, nel quale ogni pezzo si muove secondo regole predeterminate[4]
Kant riprende l'elemento fondante della libertà nel gioco e lo associa all'estetica dove il giudizio di gusto si fonda sul «libero gioco delle nostre facoltà conoscitive» dell'immaginazione e dell'intelletto.[5] Kant vede nel gioco anche una funzione biologica di sviluppo materiale e spirituale nell'uomo e in molte specie animali.
Friedrich Schiller vede nel gioco quell'attività che fra tutti gli stati dell'uomo è ciò che lo fa completo[6] e che realizza l'accordo della sua duplice natura che oscilla tra sensibilità ed intelletto, materia e forma. Nell'arte intesa come gioco si equilibrano le due opposte componenti dell'uomo.[7] Bisognerà quindi educare l'uomo al sentimento della bellezza facendo rivivere in lui l'antico ideale pedagogico greco della kalokagatia, del bello e del buono. Una pedagogia estetica che renda completo l'uomo come armonica sintesi di sensibile e sovrasensibile basata sul "libero gioco" delle facoltà umane. Il gioco è un'attività ineliminabile nella natura umana che non persegue alcun fine esterno a sé stessa, né esso è ispirato da un preciso scopo razionale, ma è un atto dove sensibilità e razionalità convivono nell'azione ludica rendendo l'uomo libero. In questa armonia di forma e materia si realizza la bellezza e l'essenza umana per cui «l'uomo è completamente uomo solo quando gioca»
Hegel parla del gioco, dicendo che esso «nella sua indifferenza e nella suprema leggerezza è la serietà più elevata e quella unicamente vera»[8]
Già Eraclito notava in un frammento, oggetto di numerose interpretazioni, come il tempo, la vita stessa sia un gioco: qualcosa di puramente casuale e privo di scopo, come il gioco dei bambini[9]:
«Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων παιδὸς ἡ βασιληίη[10]»
«Il tempo [della vita] è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno»
E non è casuale che nella lingua greca l'espressione "bambino che gioca" (pais paizon) abbia la stessa radice nei due termini a significare come il gioco fosse concepito nei bambini come un'attività spontanea e senza uno scopo ma allo stesso tempo impregnata di razionalità com'è nel gioco delle tessere.[11]
Una profonda analogia con questa concezione eraclitea la ritroviamo in Nietzsche che riconosce in Eraclito un suo maestro:
«Nel considerare il mondo un gioco divino e al di là del bene e del male – ho come predecessori la filosofia dei Vedanta ed Eraclito»
Il gioco si riferisce a una realtà chiusa in sé stessa con le sue regole e senza alcuno scopo pratico se non quello di allontanarsi dalla vita reale creandosi liberamente un mondo senza leggi morali ed innocente che Nietzsche, nelle opere giovanili, riconduce a un fenomeno estetico poiché l'arte è capace di dare un senso alla bruttezza dell'esistenza. Il gioco e la lotta tra l'apollineo e il dionisiaco vengono rappresentati ne La nascita della tragedia come «la forza plasmatrice del mondo» che «viene paragonata da Eraclito l'oscuro ad un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda»[13]
Nell'opera più matura Così parlò Zarathustra il gioco diviene la precisa volontà dionisiaca di distruzione e creazione senza un razionale perché: «Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo»[14] È l'erompere del caos dionisiaco: «bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante»[15]. Il fanciullo che gioca è dunque il simbolo dell'avvento dell'oltreuomo.
Johan Huizinga può essere considerato come uno dei maggiori teorici del gioco, tema al centro della sua opera Homo ludens[16] che assegna all'attività ludica dell'uomo il motore propulsore dell'arte, della letteratura, del teatro, del diritto, della scienza, della religione, della filosofia:
«La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata... Ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d'animo ludici...Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme sovrabiologiche che le conferiscono maggior valore.[17]»
Il gioco, secondo Huizinga, ha un intrinseco aspetto di attività connessa alla stessa corporeità umana ed animale ma nello stesso tempo esprime qualcosa che va oltre l'aspetto fisiologico poiché non si collega a scopi di sopravvivenza o di sussistenza. Il gioco è un'attività libera con la quale si costruisce consapevolmente una realtà fittizia, diversa da quella della vita ordinaria, disinteressata, in quanto non persegue scopi materiali o di sopravvivenza; dotata di regole non rispondenti a necessità razionali ma volute liberamente per stabilire un ordine, liberamente osservate ma che, se violate, comportano la fine dell'intero mondo ludico creato.
Da questo tentativo di definizione del gioco di Huizinga nasce con Roger Caillois la proposta di classificazione dei giochi[18] sulla base di quattro "ludemi", principi basilari che caratterizzano sia i giochi che la stessa attività del giocatore:
Tutti i giochi rispettano queste categorie, talora presenti in forma binaria, e tutti possono essere giocati in due modi:
Il gioco nella sua intima realtà nasce come essenzialmente libero e sfrenato (paidia), come ad esempio in una corsa di bambini, e conserva questa caratteristica anche nelle attività ludiche sottoposte a una rigida organizzazione di regole come ad esempio nelle gare sportive.
Il gioco è nella paidia è ancora esigenza incontrollata di distrazione e fantasia (il "chiasso" dei bambini in cortile). Non ci sono nomi per designare queste attività perché restano al di qua "di ogni stabilità, di ogni connotazione distintiva".
Quando poi questa esigenza generica, ma potente, di giocare comincia a organizzarsi - a porsi cioè degli obiettivi e delle regole - ecco che interviene il ludus. La paidia è tumulto ed esuberanza, il ludus crea le occasioni e le strutture attraverso le quali il desiderio primitivo di giocare può essere appagato.
Secondo Caillois all'interno di ciascuna categoria di gioco è facilmente rintracciabile un passaggio dalla paidia al ludus. Così nei giochi di "agon" si può andare dalle corse sfrenate e improvvise tra bambini (paidia) alle competizioni sportive (ludus).
Ad una visione del linguaggio, "specchio del mondo", "immagine della realtà" Ludwig Wittgenstein ne sostituisce una in cui il carattere denotativo del linguaggio è solo una delle tante sue funzioni, dei suoi impieghi, è soltanto uno degli infiniti giochi linguistici.
«Si pensa che l'apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomini, forme, colori, dolori, stati d'animo, numeri, ecc. Come s'è detto, il denominare è simile all'attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all'uso della parola. Ma a che cosa ci prepara?»
«[Esistono] innumerevoli tipi differenti d'impiego di tutto ciò che chiamiamo segni, parole, proposizioni. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati.»
Nell'ambito di un comportamento strutturato secondo regole, Wittgenstein quindi, allontanandosi dal significato di gioco come attività ludica, ne identifica invece un aspetto sociale-culturale che si manifesta in un uso del linguaggio che è sottoposto a regole convenzionali, ma flessibili in modo tale da permettere di cogliere il significato nascosto del gioco linguistico. Il gioco linguistico cioè è un modo di alterare la lingua, come nei codici linguistici quelli cioè usati principalmente da gruppi che cercano di mascherare le loro conversazioni per non essere capiti dagli altri. Un gioco linguistico prevede una trasformazione semplice del parlato che poi viene estesa a tutto il discorso. Un parlante che si è ben addestrato nel procedimento riesce a parlare e a capire nello stesso intervallo di tempo del parlato normale.[20]
Nel pensiero di Hans-Georg Gadamer il gioco svolge una funzione autonoma rispetto ai giocatori che percepiscono come il gioco li strumentalizzi:
«L’autentico soggetto del gioco non è il giocatore ma il gioco stesso. È il gioco che ha in sua balia il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco. Il gioco come tale non lascia più sussistere per nessuno l’identità di chi gioca. Tutti domandano solo più che cosa è il gioco, che cosa esso significa. I giocatori non sono più; ciò che è, è solo ciò che da essi è giocato.[21].»
Quest'aspetto del gioco si manifesta chiaramente nell'arte, la quale, proprio come il gioco, è una realtà concreta ed autonoma che, per una specie di primato, trascende i singoli fruitori e autori, non protagonisti ma giocatori di un gioco che li supera.
Nel gioco si rivela anche il rischio esistenziale dell'aut-aut della libertà di scelta:
«Il primato del gioco rispetto ai giocatori, quando si tratta del soggetto umano che si atteggia nel comportamento ludico, viene riconosciuto in maniera peculiare anche dai giocatori stessi. Ancora una volta sono qui gli usi impropri della parola a fornire le migliori indicazioni per scoprire la sua natura propria. Si dice ad esempio di qualcuno che "gioca" con le possibilità o con i progetti. Ciò che si intende dire con tale espressione è chiaro: quel tale non si è ancora seriamente risolto per quelle possibilità. D’altro lato, però, tale libertà non è priva di pericoli. Anzi il gioco stesso è un rischio per chi lo gioca. Solo con possibilità serie si può giocare. Ciò significa chiaramente che uno si abbandona ad esse al punto che possono prendere il sopravvento e farsi valere contro di lui. Il fascino che il gioco esercita sul giocatore risiede proprio in questo rischio. Ciò che si gode in esso è una libertà di decisione che però nello stesso tempo è minacciata è irrevocabilmente limitata. Si pensi ad esempio ai giochi di pazienza. Ma lo stesso vale nell’ambito della vita seria. Se qualcuno, per compiacersi della propria libertà di scelta, sfugge a decisioni importanti e urgenti, oppure si occupa di possibilità che in realtà non prende sul serio e che quindi non implicano il rischio che egli le scelga e, di conseguenza si limiti, costui lo si chiama verspielt (poco serio)[22]»
Per Jürgen Moltmann (1926), filosofo e teologo luterano, il gioco assume nella società alienata contemporanea una funzione sospensiva dalla normale attività e distensiva dalle tensioni quotidiane. Ma la efficientista società odierna esercita un controllo anche dell'attività ludica e del riposo riproducendo nel tempo libero il ritmo del mondo del lavoro di modo che il gioco perda la sua valenza liberatrice ed assuma quella di semplice sgravio. Occorre allora liberare il gioco per restituirgli la sua funzione emancipatrice e liberatrice:
«Per una emancipazione umana dell'uomo nell'attuale società è più importante togliere al controllo i giochi alienati agli interessi dominanti per renderli così preludio della libertà dell'uomo e di una società più libera...Ci si libera nel gioco, e cioè giocando, dalla pressione dell'attuale sistema di vita e ridendo si riconosce che le cose non devono stare così come stanno e come viene asserito da tutti che così devono stare.[23]»
Sulla base della filosofia del gioco di Eugen Fink (1905–1975) sviluppata soprattutto in Il gioco come simbolo del mondo (Das Spiel als Weltsymbol) Moltman elabora una nuova teologia dove assegna alla creazione la funzione del gioco. Secondo la sua teologia infatti la creazione è un atto libero di Dio:
«Per questo la creazione è un gioco di Dio, un gioco della sua sapienza senza fondo e origine. Essa è lo spazio per il dispiegamento della magnificenza di Dio.[24]»
Questo non vuol dire che la creazione sia avvenuta per arbitrio poiché
«Dio ha creato quel che gli piaceva e gli piace quel che risponde alla sua interiore essenza. Per questo la creazione di Dio è buona. L'unità tra il libero creare e compiacenza per quel che corrisponde al proprio essere, possiamo esprimerla, meglio che in ogni altra, nella categoria del gioco.[25]»
Anche se Moltmann si richiama a Fink, le due concezioni sono però incompatibili perché la riflessione di Fink riprende la visione dionisiaca e nietzschiana del gioco. Come precisa Aldo Masullo, che di Fink è stato allievo, "Fink non aveva fatto altro che mettersi nelle mani di un celebre passo di Eraclito: "Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo". Ne diede una traduzione un po' diversa, ma il senso era che costruire e distruggere hanno in sé il tratto dell'assoluto e anche dell'innocenza".[26]
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