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Neurodiversità
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Il termine neurodiversità è un termine ombrello che sta ad indicare la normale variabilità della mente umana in riferimento alle funzioni cognitive, emotive, talvolta fisiche e comportamentali e ad altre funzioni mentali, come quelle relative alla socialità, all'apprendimento, all’attenzione e all’umore. Il termine propone una visione inclusiva delle diversità cognitive, mettendo in evidenza le differenze neurobiologiche dei sistemi nervosi e considerando, al contempo, i contesti socio-culturali in cui si esplica l’esperienza umana.
L’espressione fu coniata nel 1998 dalla sociologa Judy Singer, che l’ha poi resa popolare insieme al giornalista Harvey Blume; i due hanno collocato la variabilità cognitiva umana nel più ampio contesto della biodiversità[1], dandole una valenza politica e collocandola inoltre nel contesto della difesa delle minoranze
La visione ha avuto origine, in particolare, all’interno del movimento per i diritti delle persone autistiche, come risposta a un approccio esclusivamente medicalizzato che considera queste neurovarianti come disturbi del neurosviluppo intrinsecamente patologici. In particolare, il concetto di neurodiversità si appoggia sul modello sociale della disabilità, secondo il quale la disabilità sarebbe il risultato dell’interazione tra le barriere sociali e le differenze individuali, piuttosto che il prodotto di “deficit” intrinseci al singolo individuo.
Il paradigma della neurodiversità, all'interno della variabilità tra le caratteristiche che compongono la neurologia di ogni essere umano, distingue gli individui a sviluppo tipico (detti neurotipici) che presentano un insieme di caratteristiche che ricorrono più frequentemente nella popolazione (in circa l'80% dei casi) e quelli a sviluppo atipico o divergente, chiamati neurodivergenti o neuroatipici[2].
Il modello medico tradizionale è spesso focalizzato sul deficit, trascurando talvolta l'influenza ambientale, che spesso in contesti favorevoli e adattati, potrebbe trasformare vulnerabilità neurologiche in punti di forza e risorse. Tuttavia riconoscere le differenze, non nega la necessità di supporto e sostegno, e la sofferenza implicata, ma ha lo scopo di rifiutare la patologizzazione dei funzionamenti del cervello umano.[3]
Secondo alcuni proponenti, tra cui Judy Singer e Patrick Dwyer, lo stesso paradigma della neurodiversità si collocherebbe a metà strada tra il modello integralmente medico della disabilità e quello integralmente sociale.
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Il paradigma per la variabilità neurologica umana
Riepilogo
Prospettiva
Il paradigma della Neurodiversità, che riconosce le variazioni neurologiche umane come naturali, fu inizialmente proposto e sviluppato dalla comunità autistica negli anni '90[4][5], ma è stato successivamente esteso ad altre neurodivergenze quali ADHD, Alta Sensibilità(PAS)[6] Plusdotazione intellettiva, dislessia, disgrafia, disprassia[7], discalculia, disabilità intellettive, disturbi del linguaggio e della comunicazione, Sindrome di Tourette, che generalmente sono funzionamenti innati. Vengono talvolta inserite alcune condizioni quali il disturbo ossessivo compulsivo di personalità(DOC), schizofrenia, disturbi della nutrizione e dell'alimentazione e disturbo bipolare, e attualmente è in dibattito l'inserimento di disturbi di personalità e altre condizioni acquisite all'interno della categoria. Tuttavia, alcuni attivisti per l'autismo, quali Nick Walker, hanno suggerito di preservare "forme di neurodivergenza innate o per lo più innate, come l'autismo", mentre condizioni come l'epilessia, il trauma cranico e altre condizioni acquisite potrebbero essere rimosse dalla persona senza cambiare fondamentalmente la persona stessa, poiché queste non sono pervasivamente legate alla personalità o alla percezione del mondo dell'individuo e in quei casi il trattamento può spesso mirare al ripristino di un funzionamento precedente.[8]
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Interventi di normalizzazione
Per normalizzazione si intende l'insieme di terapie e pratiche che mirano a modificare comportamenti, cognizioni e espressioni delle varianti neurologiche dello sviluppo, avvicinandoli a quelli considerati "normativi" in una data cultura e periodo storico, al fine di promuovere benessere e adattamento all'interno della società. Alcuni esempi sono la l'analisi applicata del comportamento(ABA)[9] , pratiche di social skills, farmaci antipsicotici e terapie occupazionali. Tuttavia, alcuni ricercatori e attivisti stanno sollevando dubbi e preoccupazioni riguardo la modalità di tali pratiche che tendono spesso a "normalizzare" comportamenti, infatti varie analisi attuali sembrano correlare lo sforzo di nascondere i propri tratti neurodivergenti al fine di apparire "neurotipici" a problemi di salute psicofisica[10] quale maggiori tassi di depressione, ansia patologica, ideazione suicidaria, disturbi del sonno e disturbo da stress post-traumatico(PTSD)[11], con risultati che non si discostano notevolmente in diverse aree geografiche e culturali.[12][13]
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