Loading AI tools
insieme dei movimenti politici e militari che in Italia si opposero ai nazi-fascisti Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La Resistenza italiana (anche detta Resistenza partigiana, o semplicemente Resistenza, oppure Secondo Risorgimento[1][2]) fu l'insieme di movimenti politici e militari che in Italia, dopo l'armistizio di Cassibile, si opposero al nazifascismo[3][4] nell'ambito della guerra di liberazione italiana.
Nella Resistenza vanno individuate le origini stesse della Repubblica Italiana: l'Assemblea Costituente fu in massima parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, scrissero la Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche e ispirandola ai princìpi della democrazia e dell'antifascismo.
Il movimento della Resistenza – inquadrabile storicamente nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all'occupazione nazifascista – fu caratterizzato in Italia dall'impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (comunisti, azionisti, monarchici, socialisti, democristiani, liberali, repubblicani, anarchici), in maggioranza riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), i cui partiti componenti avrebbero più tardi costituito insieme i primi governi del dopoguerra.[5]
Il periodo storico in cui il movimento fu attivo inizia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 (il CLN fu fondato a Roma il 9 settembre) e termina nei primi giorni del maggio 1945, durando quindi venti mesi circa. La scelta di associarne la fine con il 25 aprile 1945 fa riferimento alla data dell'appello diramato dal CLNAI per l'insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano dell'Alta Italia.[6] Alcuni storici evidenziano più aspetti contemporaneamente presenti all'interno del fenomeno della Resistenza: "guerra patriottica" e lotta di liberazione da un invasore straniero; insurrezione popolare spontanea; "guerra civile" tra antifascisti e fascisti, collaborazionisti con i tedeschi; "guerra di classe", con aspettative rivoluzionarie soprattutto in alcuni gruppi partigiani socialisti e comunisti.[7]
L'antifascismo, valore condiviso dai partiti del comitato di liberazione nazionale, si sviluppò progressivamente dalla metà degli anni Venti, quando già esistevano deboli forme di opposizione al regime fascista, fino all'inizio della seconda guerra mondiale. Inoltre, nella memoria dei combattenti partigiani, specialmente quelli di ispirazione comunista e socialista, rimaneva vivo il ricordo del cosiddetto "biennio rosso" e delle violente lotte contro le squadre fasciste nel periodo 1919-1922, considerate da alcuni esponenti dei partiti di sinistra (tra cui lo stesso Palmiro Togliatti) una vera "guerra civile" in difesa delle classi popolari contro le forze reazionarie.[8]
Dopo l'omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924) e la decisa assunzione di responsabilità da parte di Mussolini, nel Regno d'Italia prese avvio il processo di totalitarizzazione dello Stato, che avrebbe dato luogo a un controllo sempre maggiore e a severe persecuzioni degli oppositori, a rischio di carcerazione e di confino.
Gli antifascisti si organizzarono quindi in clandestinità in Italia e all'estero, creando con grande difficoltà una rudimentale rete di collegamenti, che però non produsse risultati pratici di rilievo. Restarono frammentati in piccoli gruppi non coordinati, incapaci di attaccare o di minacciare il regime, se si esclude qualche attentato realizzato in particolare dagli anarchici. L'attività si limitava al versante ideologico: era copiosa la produzione di scritti, specie tra le comunità degli esuli antifascisti, che però non raggiungevano le masse e non influivano sull'opinione pubblica.[9] Alcuni storici[10] hanno anche sottolineato i possibili legami del movimento della Resistenza con la Guerra di Spagna, in particolare con persone che avevano militato nelle Brigate internazionali.[11]
Solo la guerra e soprattutto l'andamento disastroso su tutti i fronti delle operazioni belliche e il progressivo distacco delle masse popolari dal regime (evidenziato anche dai grandi scioperi del 1943) condussero alla subitanea disgregazione dello Stato fascista dopo il 25 luglio, seguita, dopo i tormentati quarantacinque giorni del primo governo Badoglio, dall'armistizio di Cassibile dell'8 settembre 1943.
La catastrofe dello Stato nazionale e la rapida e aggressiva occupazione di gran parte dell'Italia da parte dell'esercito del Reich offrì alle forze politiche antifasciste, uscite dalla clandestinità, la possibilità di organizzare la lotta politico-militare contro l'occupante e contro il governo collaborazionista di Salò,[12] subito costituito dalle autorità naziste intorno a Mussolini, liberato dalla prigionia sul Gran Sasso dai paracadutisti tedeschi, nonché contro i superstiti fascisti, decisi a riprendere la lotta a fianco della Germania e a vendicarsi dei "traditori" interni.[13]
Subito dopo l'annuncio dell'armistizio di Cassibile i tedeschi attaccarono e disfecero le forze armate italiane nei teatri operativi all'estero e in gran parte dell'Italia; in alcuni territori vi fu una breve resistenza militare da parte di reparti del Regio Esercito, per ordine superiore, per iniziativa di ufficiali a capo di formazioni dislocate nei Balcani e in Egeo (come Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, protagonisti delle battaglie di Rodi e Lero) o per scelta volontaria delle truppe (per esempio, la Divisione Acqui, distrutta nell'eccidio di Cefalonia). Ciò avvenne anche in collaborazione con formazioni partigiane locali, come nella Yugoslavia occupata o nella liberazione della Corsica. Da ricordare è anche la difesa di Porta San Paolo da parte di formazioni dell'esercito affiancate dalla popolazione civile a principio della resistenza romana.
Tali fatti sono la premessa della partecipazione militare alla Resistenza propriamente detta, la guerra partigiana. Molti soldati, sbandati per lo scioglimento delle loro unità e sfuggiti ai tedeschi, decisero di costituire gruppi partigiani per continuare la lotta contro la Germania nazista che aveva invaso e occupato la patria a cui avevano prestato giuramento; le più famose furono le Formazioni autonome militari - conosciute anche come "azzurri" o "partigiani badogliani" - cui si aggiunsero quelle capeggiate dagli ufficiali Enrico Martini ("comandante Lampus" o "Mauri"), e Piero Balbo ("comandante Nord"), il gruppo "Cinque Giornate" del colonnello Carlo Croce e l'Organizzazione Franchi, la struttura di sabotaggio e informazioni, strettamente legata ai servizi segreti britannici,[14] costituita da Edgardo Sogno.
Della "resistenza dei militari",[15] cioè del personale in uniforme "sottoposto alla giurisdizione militare",[16] fece parte anche il Fronte Militare Clandestino della Resistenza (FCMR), composto da membri di esercito, carabinieri (banda "Caruso"), marina e aeronautica, strettamente legati alla monarchia. Formato dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, dopo la sua cattura e uccisione alle Fosse Ardeatine[17] operò sotto il comando di Quirino Armellini e Roberto Bencivenga. Venne più volte indebolito da numerosi arresti. Il fronte militare clandestino fu un'organizzazione conservatrice, spesso in polemica con altre formazioni della Resistenza; tuttavia giocò un ruolo importante nel rifornire di armi, esplosivi e informazioni i Gruppi di Azione Patriottica.[18]
Nelle zone dell'Italia libere, come la Sardegna, la Puglia e la Calabria, fu invece attuata anche una opposizione armata da reparti organizzati che confluiranno poi nell'Esercito Cobelligerante Italiano e parteciperanno alla guerra di liberazione italiana assieme alla Regia Marina e ai reparti della Regia Aeronautica che erano riusciti a raggiungere le aree controllate dagli Alleati.
Infine, artefici di un altro tipo di resistenza all'occupante tedesco e al governo collaborazionista di Salò furono i soldati italiani catturati dopo l'8 settembre e il collasso delle unità dell'esercito; su circa 800.000 prigionieri[19][20], solo 186.000 decisero di aderire al nuovo governo fascista per venire impiegati in prevalenza come ausiliari non combattenti, mentre oltre 600.000 soldati rifiutarono e vennero internati in Germania dove, con la denominazione di IMI, furono ridotti alla condizione di lavoratori servili sottoposti a un duro trattamento, che spesso subivano privazioni e violenze.[21]
«Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c'era, per chi non c'era e anche per chi era contro...»
Poche ore dopo la comunicazione radiofonica del maresciallo Badoglio e a battaglia già in corso, alle 16:30 del 9 settembre 1943, in via Carlo Poma a Roma sei esponenti politici dei partiti antifascisti, usciti dalla clandestinità a seguito del crollo del regime, si riunirono e costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), struttura politico-militare che avrebbe caratterizzato la Resistenza italiana contro l'occupazione tedesca e le forze collaborazioniste fasciste della Repubblica di Salò per tutto il periodo della guerra di liberazione.[23]
I sei erano Pietro Nenni per il PSIUP, Giorgio Amendola per il PCI, Ugo La Malfa per il Partito d'Azione, Alcide De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Meuccio Ruini per Democrazia del Lavoro e Alessandro Casati per i liberali. L'indomani mattina Nenni ebbe un contatto telefonico con altri esponenti politici a Milano e il 12 settembre si recò nel capoluogo lombardo dove, nonostante il rifiuto di Ferruccio Parri di assumere subito la guida delle formazioni antifasciste, venne costituito un altro comitato, chiamato "Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia" (CLNAI), che più tardi avrebbe coordinato la guerra partigiana al nord.[24]
Nei giorni seguenti si moltiplicarono i comitati di liberazione locali per organizzare la lotta armata nelle regioni occupate dai tedeschi: a Torino, a Genova, a Padova sotto la direzione di Concetto Marchesi, Silvio Trentin ed Egidio Meneghetti, a Firenze con Piero Calamandrei, Giorgio La Pira e Adone Zoli. Entro l'11 settembre la struttura dei CLN era costituita e i comitati passarono rapidamente alla lotta armata e alla clandestinità di fronte al rafforzarsi del potere politico militare delle forze tedesche e del nuovo Stato repubblicano fascista. Il 15 settembre i primi capi delle formazioni partigiane organizzate in montagna (Ettore Tibaldi, Vincenzo Moscatelli) e i rappresentanti dei CLN (Mario e Corrado Bonfantini, Aldo Berrini, l'avvocato Menotti e Gaspare Pajetta) si incontrarono ad Arona per discutere i dettagli organizzativi e le strutture di comando.[25]
Lo storico Paolo Spriano illustra tre caratteristiche fondamentali della Resistenza italiana presenti fin dal suo inizio e rimaste come elementi caratterizzanti per gran parte della sua storia. In primo luogo, il movimento si formò e crebbe partendo praticamente dal nulla in una situazione politico-militare estremamente critica; in secondo luogo, le circostanze del crollo del fascismo, scaturito da un'azione autonoma di ristrette autorità di potere compromesse con il regime e senza una reale partecipazione popolare, insieme al drammatico dissolvimento dello Stato dopo l'8 settembre, indussero gran parte del movimento resistenziale a rifiutare ogni compromesso con le forze conservatrici raccolte intorno al re e al maresciallo Badoglio. Infine l'assenza, nel momento della costituzione, di un reale riconoscimento da parte alleata della Resistenza italiana e di conseguenza di una sua rappresentatività nelle strutture di comando alleate, a differenza di altri movimenti di resistenza europei. Secondo le parole di Spriano: "le capitali della Resistenza non saranno né Algeri, né Londra, né Mosca, né Brindisi o Salerno, ma la macchia e le città della guerriglia e della cospirazione clandestina".[26]
In realtà, mentre si costituivano i comitati di liberazione nelle varie città in cui si estendeva rapidamente l'occupazione tedesca, i primi gruppi di ribelli erano già in fase di organizzazione spontanea nelle regioni più impervie dell'Italia settentrionale e centrale, con collegamenti minimi con le strutture clandestine politiche cittadine a causa della confusione generale seguita all'8 settembre e al totale fallimento delle gerarchie del Regio Esercito: in molti casi gli ufficiali rifiutarono di mettersi al comando di civili e soldati disponibili ad attaccare i tedeschi e si arresero con i loro comandi senza combattere.[27]
I primi raggruppamenti si costituirono nelle Prealpi e nel Preappennino per facilitare gli approvvigionamenti dalla pianura e per poter disporre di aree arretrate di sicurezza in alta montagna. Organizzati e comandati in un primo momento da giovani ufficiali inferiori e sottufficiali dell'esercito in dissoluzione, questi primi gruppi, composti da poche decine di elementi, vennero rafforzati dai primi capi politici che salirono in montagna per prendere parte alla lotta e organizzarla.[28] Nel tempo, peraltro, si assisterà a una progressiva politicizzazione di molti ufficiali inferiori dell'esercito e a una militarizzazione dei capi politici comunisti e azionisti, sempre più concentrati sull'organizzazione tecnica e sull'efficienza della guerra partigiana contro i nazifascisti.[29]
Le motivazioni dei primi gruppi di partigiani, calcolati alla metà di settembre in appena 1 500 uomini,[30] furono complesse e legate principalmente all'odio verso i tedeschi e il fascismo, al rifiuto di accettare il disastro e l'umiliazione nazionale, alla fedeltà di molti ufficiali all'ordine costituito rappresentato dalla monarchia, alla necessità di sottrarsi alla cattura e alla deportazione, alla paura delle vendette dei fascisti, alle speranze politiche di palingenesi sociale nutrite dagli elementi comunisti e azionisti e infine anche a sentimenti di avventurosità giovanile. Importante fu inoltre il ruolo degli ufficiali inferiori Alpini che, ritornati delusi e furenti contro i tedeschi e il regime dalla campagna di Russia che era costata tante perdite,[31] costituirono nuclei di comandanti combattivi ed esperti della guerra in montagna.[32]
Elemento fondamentale di coesione tra i partigiani fu l'antifascismo, il rifiuto totale della disastrosa "guerra fascista" subalterna all'alleato tedesco; il disprezzo e la critica radicale alle gerarchie del Regio Esercito, in specie agli ufficiali superiori considerati inetti e imbelli. In particolare tra le formazioni garibaldine comuniste e tra i giellisti si diffuse un netto rifiuto delle gerarchie militari, compromesse con il fascismo, e di tutte le formalità di gradi, divise, ordini e rituali tipici degli eserciti. La disciplina era basata soprattutto sulla coesione, sulle motivazioni e sull'autoconvincimento, mentre il soldo assegnato ai partigiani era esiguo e uguale per tutti.[33] I capi delle formazioni partigiane venivano selezionati sul campo e ottenevano ruolo e comando sulla base delle capacità mostrate e del consenso dal basso di tutti i membri delle formazioni, con procedure completamente estranee alla rigida gerarchizzazione degli eserciti regolari, indipendentemente dal grado eventualmente posseduto in precedenza nel Regio Esercito.[34] Accanto al comandante militare tutte le formazioni partigiane, tranne i reparti autonomi, avevano un "commissario politico" con parità di grado, che condivideva la responsabilità operativa e assumeva soprattutto la funzione di rappresentante politico incaricato dell'istruzione e dell'assistenza morale e pratica dei combattenti.[35]
Il rifiuto del Regio Esercito da parte della grande maggioranza dei partigiani non permise una vera unione morale tra le formazioni della Resistenza e i reparti dell'esercito faticosamente costituiti al Sud per combattere a fianco degli Alleati, considerati dai partigiani, nonostante la retorica propagandistica dispiegata non solo dalle autorità regie ma anche dagli stessi partiti del CLN, modesti resti di un'istituzione completamente screditata.[36]
Alla metà di settembre i nuclei più forti di partigiani erano nell'Italia settentrionale, circa 1.000 persone, di cui 500 in Piemonte, mentre nell'Italia centrale ne erano presenti circa 500, di cui 300 raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo.[30]
In Piemonte le formazioni si costituirono nelle valli alpine, specialmente nelle Alpi Marittime: In Val Pesio sorsero le formazioni autonome del capitano Cosa; in val Casotto incominciarono a organizzarsi le efficienti formazioni autonome guidate dal maggiore degli Alpini Enrico Martini "Mauri"; nelle colline di Boves salirono i reduci della IV Armata guidati da Ignazio Vian; in Valle Gesso si costituì la formazione Italia Libera per iniziativa di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Benedetto Dalmastro, da cui nasceranno le formazioni dei giellisti.[37] Altre formazioni autonome si formarono in Val d'Ossola sotto la guida di Alfredo e Antonio Di Dio, fratelli e ufficiali effettivi, in val Strona con Filippo Beltrami, in val Toce con Eugenio Cefis e Giovanni Marcora e in val Chisone, guidati dal sergente alpino Maggiorino Marcellin "Bluter".[38]
Le formazioni gielliste e quelle delle brigate Garibaldi si organizzarono a Frise (unità gielliste con Luigi Ventre, Renzo Minetto, Giorgio Bocca, tutti ufficiali degli Alpini), a Centallo (autonomi e giellisti organizzati da altri tre ufficiali alpini tra cui Nuto Revelli), in valle Po, dove, sotto la guida di Pompeo Colajanni "Barbato", ufficiale di cavalleria comunista, nacque una forte formazione garibaldina con Gian Carlo Pajetta, Antonio Giolitti, Gustavo Comollo; in val Pellice (giellisti); nel Biellese (nuclei di comunisti con vecchi antifascisti come Guido Sola, Battista Santhià e Francesco Moranino "Gemisto"); soprattutto in Valsesia dove si costituirono le formazioni comuniste garibaldine guidate da combattenti prestigiosi come Vincenzo Moscatelli "Cino", Eraldo Gastone "Ciro".[39]
Altri nuclei di partigiani si costituirono in Lombardia nel Varesotto, dove il colonnello Carlo Croce organizzò sul monte San Martino un gruppo di soldati sbandati; nella Valsassina, nelle valli bergamasche. Nel Veneto e in Friuli la situazione era ancor più confusa: nella provincia di Gorizia era attiva fin dal 1941 la crescente resistenza slovena. Si formarono numerosi gruppi cattolici, tra cui quello di Mario Cincigh, e azionisti (con Fermo Solari e Alberto Cosattini), mentre i comunisti, guidati da capi come Giovanni Calligaris, Mario Lizzero, Otello Modesti, Giovanni Padoan "Vanni" e Ferdinando Mautino "Carlino", cominciarono a costituire le formazioni garibaldine che avrebbero poi dato vita alla Divisione Natisone.[40] Non mancarono nemmeno i liberali, come Francesco Petrin che dopo aver condotto un'intensa propaganda antifascista e assistenza agli alleati prese parte attiva alla guerra di liberazione nella brigata G. Negri di Padova.[41][42]
Nel resto dell'Italia occupata dai tedeschi si formarono altri gruppi in Emilia e in Romagna, guidati dal comunista Arrigo Boldrini "Bülow" e da Silvio Corbari, operaio meccanico di Faenza ed ex calciatore, la cui "banda" divenne famosa e temuta per le sue arrischiate incursioni contro le basi nemiche.[43] In Piemonte, la Val Grande era stata occupata dai partigiani della "Valdossola" di Dionigi Superti: questi furono particolarmente degni di nota poiché fra loro si unì una delle prime donne partigiane, Maria Peron, una giovane infermiera che salvò numerosissime vite.[44] In Toscana sorsero "bande" sul passo dei Giovi e sul monte Morello, in Umbria (con la partecipazione di ex-prigionieri slavi); nelle Marche, sotto la guida di Spartaco Perini alcune centinaia di uomini si radunarono al colle San Marco; in Abruzzo al bosco Martese confluirono militari sbandati e volontari comunisti e giellisti,[45] mentre Ettore Troilo incominciò a costituire la sua "banda Patrioti della Maiella" che il 5 dicembre 1943 avrebbe attraversato le linee del fronte entrando a far parte dello schieramento alleato e partecipando con distinzione a tutta la campagna d'Italia lungo il versante adriatico.[46]
Le decisioni politiche prese soprattutto dai dirigenti del Partito comunista a Roma ebbero decisiva influenza sulla crescita del movimento: Pietro Secchia, "Botte" o "Vineis", ex operaio biellese, comunista fin dalla fondazione del partito, imprigionato dal regime fascista dal 1931, liberato da Ventotene il 19 agosto 1943, venne incaricato, durante una riunione tenuta a Roma il 10 settembre 1943, di recarsi a Milano per organizzare, assieme ad altri dirigenti del PCI inviati al nord, la guerra partigiana. Secchia raggiunse Milano in treno il 14 settembre dopo essere passato per Firenze e Bologna e aver raggiunto Cino Moscatelli a Borgosesia, per diffondere le direttive del partito tra numerosi militanti provenienti dall'antifascismo attivo.[47] Tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo "Italo", già dirigente delle Brigate internazionali in Spagna, partirà per il nord per affiancare Secchia nella organizzazione e direzione del movimento di resistenza.[48] Fin dal novembre 1943 i comunisti poterono costituire a Milano la prima struttura organizzativa unificata: il comando generale delle Brigate Garibaldi con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico; i componenti iniziali del comando furono, oltre a Longo e Secchia, Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini.[49] Le altre organizzazioni non costituirono comandi unificati, ma si assistette comunque a una proliferazione di Brigate, Divisioni e Gruppi di divisioni, in realtà costituite da poche migliaia di uomini e con strutture organiche rudimentali.
Pietro Secchia ha messo in evidenza nelle sue opere storiche dedicate alla Resistenza alcuni elementi che egli ritiene fondamentali per comprendere la natura e la forza del movimento partigiano: egli sottolinea come la Resistenza ebbe successo soprattutto per la tenace, faticosa e determinata attività di minoranze cresciute negli anni della deprimente e durissima militanza antifascista prima della guerra. Secchia rifiuta la semplicistica definizione di "popolo in armi" e l'interpretazione del fenomeno come "epopea miracolosa"; secondo il dirigente comunista la Resistenza fu opera soprattutto di avanguardie, di quadri, che furono in grado di raccogliere e organizzare importanti masse di giovani. Secchia documenta come su 1.673 nomi di dirigenti importanti del movimento partigiano circa il 90% fossero militanti che erano già stati condannati al carcere, al confino o all'esilio dal regime fascista; egli quindi evidenzia questo rapporto di continuità e colleganza tra la militanza antifascista organizzata e il movimento partigiano.[50]
Operanti al di fuori del CLN, e di qualche importanza dal punto di vista militare, agivano formazioni partigiane anarchiche locali (Anarchici e Resistenza) come le Brigate Bruzzi Malatesta, che talvolta mantenevano rapporti di intervento armato con altre formazioni legate a Giustizia e Libertà e al PSI (come le Brigate Matteotti) e alla formazione romana sempre di Giustizia e Libertà al comando di Vincenzo Baldazzi. Dove gli anarchici non riuscirono a organizzare formazioni autonome confluirono nelle Brigate Garibaldi, come nel caso di Emilio Canzi, soprannominato il colonnello anarchico, comandante unico della XIII zona operativa del piacentino.[51]
Un'altra formazione non direttamente collegata al CLN fu il movimento comunista Bandiera Rossa (anche detto Movimento Comunista d'Italia, capeggiato da Ezio Malatesta, Filiberto Sbardella, Orfeo Mucci, Antonino Poce, Mario Sbardella) operante principalmente a Roma, che ebbe 68 militanti fucilati alle Fosse Ardeatine, numero molto elevato (corrispondente a poco meno di un quinto del totale degli uccisi);[52] questo gruppo era numericamente la più forte formazione partigiana attiva nella capitale, ufficialmente costituita da almeno 1.185 miliziani.[53] I partigiani di Bandiera Rossa agivano spesso in cooperazione con i militanti della "banda del Gobbo"; il "Gobbo" era legato politicamente ai socialisti, direttamente con Pietro Nenni.
Inoltre ancora al di fuori del CLN (mantenendo o meno collegamenti per questioni operative) per quanto riguarda i partigiani anarchici agivano molte formazioni libertarie che operavano nell'alta Toscana, come ad esempio il Battaglione Lucetti e la Elio Lunense,[54] e diverse formazioni autonome SAP di indirizzo libertario operavano a Genova e nel ponente ligure. A Genova l'inizio armato delle ostilità verso i nazifascisti è da ascrivere probabilmente a un gruppo ancora non organizzato di comunisti anarchici di Sestri.[55]
A novembre 1943 le forze partigiane erano salite a 3.800 uomini (di cui 1.650 in Piemonte), in maggioranza ancora raggruppati in formazioni autonome sotto la guida di ufficiali inferiori come Vian (che verrà ucciso dai tedeschi nell'aprile 1944), Dunchi, "Aceto", Marcellin, Superti, Beltrami e soprattutto Martini "Mauri". Crebbero però anche le formazioni politiche: i garibaldini, con Colajanni "Barbato", Moscatelli "Cino", Aldo Gastaldi "Bisagno", Mautino "Carlino", i giellisti con Bianco, Galimberti, Dalmastro, Agosti, i cattolici con i fratelli Di Dio e Mario Cencigh. In questa fase iniziale si precisarono subito i contrasti di impostazione generale presenti tra alcune componenti militari, legate alla monarchia, e le formazioni partigiane legate ai partiti politici antifascisti; in collegamento con i propositi conservatori della dirigenza del Regno e con l'accordo delle potenze anglosassoni, sorsero quindi istanze a favore di una resistenza limitata al sabotaggio e alla raccolta di informazioni in attesa dell'arrivo delle forze regolari alleate.[56]
Queste posizioni attendiste, promosse inizialmente da militari di alto grado, furono sostenute direttamente dal maresciallo Badoglio e dal re, preoccupati dalla crescita del movimento partigiano, totalmente svincolato dal loro controllo. In realtà l'attesismo militare venne rapidamente messo da parte dopo i fallimenti nell'autunno 1943 dei comandi unificati guidati da generali dell'esercito nel Veneto e in Toscana e dopo l'ambiguo comportamento del generale Raffaello Operti in Piemonte. Le energiche iniziative dei dirigenti comunisti (tra cui Pietro Secchia) e azionisti, preoccupati per un possibile ritorno delle forze conservatrici, spinsero al contrario per un'intensificazione dell'attività partigiana e per un attivismo immediato, indipendentemente dalle difficoltà organizzative e operative, per favorire una crescita della Resistenza[57].
Malgrado le difficoltà, le divisioni e le prime massicce operazioni di repressione nazifasciste, le forze partigiane continuarono a sopravvivere e ad aumentare numericamente nei primi mesi del 1944, rafforzate costantemente anche dai molti giovani che salirono in montagna per sfuggire ai bandi di arruolamento forzato della RSI diramati dal maresciallo Graziani. A febbraio e a marzo 1944 la forza partigiana al nord raddoppiò di numero.[58] I richiamati che non risposero al bando del maresciallo (approvato da Mussolini e sollecitato dalle autorità tedesche) furono molto numerosi (in novembre 1943 su 186 000 coscritti si presentarono solo in 87.000), ma soprattutto furono molto elevati i casi di diserzione dopo l'arruolamento, che salirono dal 9% di gennaio 1944 al 28% del dicembre, nonostante il decreto delle autorità fasciste sui procedimenti di rigore e la pena di morte del 18 febbraio 1944 e i successivi provvedimenti di clemenza del 18 aprile 1944 e del 28 ottobre 1944.[59][60]
Al 30 aprile 1944, alcune fonti hanno calcolato che le forze della Resistenza ammontassero ormai a 20 000-25 000 persone, considerando anche i GAP, i SAP e gli ausiliari, con una massa combattente in montagna di circa 12.600 uomini e donne, di cui 9.000 al nord e 3.600 al centro-sud. I garibaldini erano ora la maggioranza ed erano saliti a circa 5.800, con 3.500 autonomi, 2.600 giellisti e 700 cattolici.[61]
Deve peraltro essere chiarito che solo una parte minoritaria dei componenti delle varie formazioni apparteneva effettivamente ai vari partiti politici.[62] Solo i capi e i dirigenti principali delle varie brigate e divisioni erano organicamente collegati a una parte politica, mentre i singoli partigiani in generale non appartenevano ad alcun partito ed entravano nelle varie formazioni non solo per colleganza ideale, ma anche per emulazione, per convenienza pratica, sulla base della fama e dell'efficienza dei capi e dei reparti.[63] Le rivalità tra le varie formazioni furono presenti, ma nella maggior parte dei casi si limitarono a conflitti sulla distribuzione dei reparti sul territorio, sulla suddivisione delle scarse risorse disponibili, sulla distribuzione dei materiali aviolanciati dagli alleati che preferirono rifornire con precedenza le formazioni autonome o moderate a scapito soprattutto dei garibaldini.[64]
Dotate di scarso equipaggiamento, le formazioni partigiane non adottavano divise, vestivano in modo disparato e utilizzavano fazzoletti colorati di riconoscimento: rossi nelle formazioni garibaldine, verdi nei reparti di Giustizia e Libertà, azzurri nei gruppi autonomi. Nell'ultimo anno, la maggior parte dei gruppi partigiani adottò distintivi sui copricapi e nelle giubbe: la stella rossa per i garibaldini, lo scudetto con la fiaccola e le lettere G e L per i giellisti, le coccarde tricolori per gli autonomi.[65] Si cercò inoltre di standardizzare un vestiario comune basato su giacche a vento e pantaloni lunghi, si adottò un sistema di insegne di grado, semplice e poco appariscente.[66] Le armi e le munizioni non erano abbondanti; fornite dai lanci dagli aerei alleati o dal bottino catturato al nemico, consistevano principalmente nei fucili e moschetti mod. 91, nei mitra MP 40 tedeschi, MAB38 italiani, Sten britannici; raramente erano disponibili carabine M1 americane e mitra Marlin o Thompson. Tra le armi di squadra erano disponibili mitragliatrici leggere Breda e qualche Bren, mortai 81, mentre totalmente assenti erano le armi pesanti e le artiglierie.[67]
Riguardo alla denominazione dei combattenti della Resistenza divenne presto popolare il termine, di origine medievale utilizzato dai condottieri e dalle milizie di un partito,[68] "partigiani", connesso al concetto di difesa della propria terra e anche con qualche richiamo al comunismo.[69] I vertici politici invece gli preferirono a livello ufficiale "volontari per la libertà", poiché "partigiani" fu respinto dai comunisti e dai democristiani e destò perplessità negli azionisti (che al suo posto proposero il termine "patrioti").[70] Altri termini più raramente adottati per designare i combattenti furono quelli di "ribelle", "fuori legge" e anche "banditi", che era la denominazione usuale dei nazifascisti. In effetti "bande" furono inizialmente denominate le formazioni combattenti e solo più tardi si parlò di "brigate" e "divisioni", mentre tentativi propagandistici di costituire "corpi d'armata partigiani" non ebbero seguito.[71]
Il comando generale delle Brigate Garibaldi comuniste, guidato da Longo e Secchia, organizzò in totale, durante la Resistenza, 575 formazioni, costituite da squadre, bande, battaglioni, brigate, divisioni e comandi territoriali di zona; a questi gruppi si aggiunsero nelle città gli uomini e le donne dei GAP e dei SAP; costituite intorno a un nucleo di esperti e determinati comandanti comunisti, i garibaldini mostrarono impegno e combattività subendo il numero più alto di perdite tra tutte le formazioni della Resistenza[72]. I reparti garibaldini si organizzarono in Liguria (Brigate e poi Divisioni "Cichero", "Pinan-Cichero", "Vanni" e "Mingo"), in Piemonte (1ª Divisione "Leo Lanfranco" di Colajanni, Latilla e Modica, e le Divisioni "Gramsci", "Pajetta" e "Fratelli Varalli" di Gastone e Moscatelli), in Lombardia (Brigata "Redi" e Divisione "Lombardia", coordinate da Pietro Vergani, vicecomandante del CVL), in Veneto (Divisioni "Garemi", "Nanetti" e "Friuli-Natisone"), in Emilia (Divisione "Modena").[73][74]
La più importante e incruenta azione delle formazioni socialiste (Brigate Matteotti) avvenne il 25 gennaio 1944, e produsse l'evasione dal carcere di Regina Coeli di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, che erano stati catturati nell'ottobre del 1943 e condannati a morte. L'azione, organizzata da Giuliano Vassalli con l'aiuto di Giuseppe Gracceva, Massimo Severo Giannini, Filippo Lupis, Ugo Gala e il medico del carcere Alfredo Monaco,[75][76] ebbe successo grazie a uno stratagemma.[77]
Anche gli azionisti, guidati da Ferruccio Parri, strutturarono le loro formazioni Giustizia e Libertà in brigate e divisioni (cosiddette "Divisioni Alpine Giustizia e Libertà"), coordinati da comandi regionali; le formazioni gielliste, reclutate con grande rigore, disciplinate e motivate, subirono la maggiore percentuale di caduti in combattimento rispetto alle forze disponibili.[78] In Piemonte, regione con le formazioni partigiane più numerose e efficienti, venne anche costituito un "Comando militare regionale piemontese" (CMRP), affidato alla direzione del generale Alessandro Trabucchi (rappresentante i reparti autonomi), di Francesco Scotti (garibaldini), di Duccio Galimberti per gli azionisti e di Andrea Camia per i socialisti.[79]
Le Fiamme Verdi cattoliche costituirono brigate e divisioni attive soprattutto nel bresciano e nel bergamasco, tra cui le formazioni dei fratelli Di Dio coinvolte nei combattimenti nella val d'Ossola. I gruppi autonomi si organizzarono in brigate e divisioni e ci furono anche gruppi di divisioni come il 1º Gruppo Divisioni Alpine del comandante "Lampus"/"Mauri", attivo nelle Langhe e nel Monferrato e guidato da una serie di validi ufficiali come Bogliolo, Lulli, Ardù, Martinengo, Piero Balbo.
Le Brigate Osoppo, operanti soprattutto in Friuli e in Veneto, vennero fondate a Udine il 24 dicembre 1943 e raggruppavano elementi volontari di ispirazione laica, liberale, socialista e cattolica già attivi dopo l'8 settembre nella Carnia e nel Friuli. Tale raggruppamento autonomo ebbe al comando Candido Grassi, "Verdi", Manlio Cencig "Mario", capitani del Regio Esercito Italiano e don Ascanio De Luca, già cappellano degli Alpini in Montenegro. Le formazioni Osoppo ebbe rapporti spesso conflittuali con i reparti garibaldini comunisti e con le forze partigiane sloveno-jugoslave[80] e furono coinvolte, sullo sfondo di tali tensioni, anche nel tragico episodio dell'eccidio di Porzûs, verificatosi il 7 febbraio 1945, il più grave episodio di conflittualità interna al movimento resistenziale. A marzo del 1945 gli osovani operavano con cinque divisioni.[74]
Alla lotta partigiana in Italia aderirono anche alcuni gruppi di disertori tedeschi, il cui numero è difficile da valutare in quanto, per evitare rappresaglie contro le loro famiglie residenti in Germania, usavano nomi fittizi e spesso venivano considerati dai loro reparti d'origine come "dispersi" e non "disertori" per una questione di propaganda. I partigiani provenienti dalla Wehrmacht sono stimati in circa 1000.[81] Un caso emblematico di adesione alla lotta partigiana fu quello del capitano Rudolf Jacobs.
In certe zone vi fu anche la presenza, notevole, di soldati sovietici passati con i partigiani dopo la fuga dai campi di prigionia. Combattenti valorosi furono Fëdor Andrianovič Poletaev, Nikolaj Bujanov, Danijl Varfolomeevic Avdveev, il “Comandante Daniel”,[82][83] tutti decorati con medaglia d'oro al valor militare.[84] Il numero dei partigiani sovietici è stimabile con cifra di 5.000/5.500, di cui oltre 700 in Piemonte.[85] Infine anche combattenti slavi presero il comando di alcune importanti formazioni partigiane durante la Resistenza: lo sloveno Anton Ukmar "Miro" (nato a Prosecco, nel comune di Trieste) comandò la divisione garibaldina "Cichero", mentre il serbo Grga Čupić "Boro" guidò la divisione "Mingo" in Liguria.[86]
Contemporaneamente alla costituzione delle prime "bande" partigiane nelle montagne, si organizzarono, soprattutto per iniziativa dei comunisti, nuclei di militanti della Resistenza in azione in piccoli gruppi nelle grandi città dominate dai nazifascisti per diffondere l'insicurezza, la paura e il terrore tra i nemici.[87] Organizzati in piccole cellule di tre-quattro elementi e sovente comandati da veterani che avevano già combattuto in Spagna contro il fascismo, i GAP ("Gruppi di azione patriottica") seguivano rigide regole di compartimentazione, operavano isolati e dimostrarono grande determinazione, coraggio e forte motivazione. Gli attentati, diretti contro importanti personalità fasciste o naziste, contro ufficiali, o contro ritrovi e locali frequentati dalle truppe occupanti, miravano anche a provocare i nazifascisti, a innescare la rappresaglia e ad accentuare l'odio e la vendetta. Oltre ai GAP inoltre si costituirono nelle fabbriche, con funzioni di sabotaggio e controllo, i SAP ("Squadre di Azione Patriottica"), una vera e propria milizia clandestina di fabbrica con l'obiettivo di rendere più ampia possibile la partecipazione popolare al momento insurrezionale.[88]
I GAP furono attivi a Torino, guidati prima da Ateo Garemi e poi dall'abile Giovanni Pesce "Visone"; in questa città furono uccisi nel novembre 1943 il fascista Vassallo e il seniore della milizia Domenico Giardina. Dopo la cattura e la fucilazione di Garemi, Pesce e Ilio Barontini "Dario" (già impegnato in Spagna e in Etiopia per organizzare la resistenza abissina insieme con Francesco Scotti[89] e coordinatore dei GAP a Bologna) riorganizzarono i GAP nel capoluogo piemontese. Il 5 gennaio 1944 "Visone" riuscì a uccidere da solo quattro ufficiali tedeschi dentro un ristorante[90] e il 3 marzo 1944 colpì a morte Ather Capelli, direttore della "Gazzetta del Popolo".[91] A Milano, i militanti dei GAP furono più numerosi guidati da Egisto Rubini e Italo Busetto; dopo un primo attentato il 2 ottobre 1943, il 18 dicembre tre gappisti riuscirono a uccidere Aldo Resega, federale del capoluogo lombardo, fuggendo in bicicletta.[92]
Altri nuclei clandestini si organizzarono a Bologna, con Ilio Barontini; a Genova, guidati da Giacomo Buranello e a Firenze, dove il gruppo di Alessandro Sinigaglia e Bruno Fanciullacci uccise il 1º dicembre 1943 il colonnello Gino Gobbi. Anche a Roma si attivarono nuclei gappisti, reclutati soprattutto nell'ambiente universitario; nonostante il fallimento di un attentato dinamitardo al teatro Adriano il 1º ottobre 1943 contro il maresciallo Graziani e il generale Stahel, i militanti, tra cui Antonello Trombadori, Carlo Salinari, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Carla Capponi, portarono a termine numerose azioni cruente con cariche esplosive contro reparti tedeschi o in locali e alberghi frequentati dai nazifascisti.[93]
Le perdite tra i GAP furono pesanti di fronte alla dura repressione degli apparati nazifascisti: a Torino furono catturati e uccisi Giuseppe Bravin e Dante Di Nanni, a Firenze venne colpito a morte in un conflitto a fuoco Alessandro Sinigaglia, a Genova cadde Giacomo Buranello, i nuclei di Milano e Roma subirono altre perdite, nelle prigioni di via Tasso vennero raccolti e spesso torturati i combattenti della Resistenza catturati.[94] Inoltre gli attentati, scatenando le violente rappresaglie nazifasciste su ostaggi e popolazione, suscitarono perplessità tra i moderati e critiche da parte del clero cattolico. Il 23 marzo 1944 ebbe luogo, per azione di Bentivegna, Calamandrei e Capponi, il sanguinoso attentato di via Rasella contro un reparto tedesco, che provocò l'immediata e spietata rappresaglia delle Fosse Ardeatine.[95]
Il 15 aprile venne ucciso a Firenze, da un nucleo dei GAP guidato da Bruno Fanciullacci, il filosofo Giovanni Gentile; anche questo episodio diede luogo a polemiche e critiche. Gentile aveva pienamente aderito alla RSI, era diventato presidente dell'Accademia d'Italia e con i suoi scritti e la sua statura intellettuale aveva giustificato la violenta repressione contro la Resistenza.[96][97] Nonostante queste difficoltà e l'accentuarsi della repressione durante il duro inverno del 1944, i gappisti non rinunciarono alle loro pericolose azioni: il 17 luglio 1944 un gruppo costituito da sei partigiani guidati da Aldo Petacchi assaltò il carcere di Verona e riuscì a liberare, dopo un violento conflitto a fuoco in cui morirono due gappisti, il dirigente comunista Giovanni Roveda.[98] I GAP continuarono a colpire le autorità e gli apparati del nemico fino ai giorni della Liberazione.
Anche a Milano, fin dai giorni di settembre, era stato costituito un Comitato di Liberazione Nazionale che assunse subito grande importanza. I dirigenti del CLN di Roma guidato da Bonomi riconobbero a gennaio 1944 la necessità di un coordinamento della lotta partigiana al nord; quindi al comitato di Milano, in data 31 gennaio, vennero delegati tutti i poteri politico-militari per l'Alta Italia, nonostante qualche divergenza con il comitato di Torino. Diretto dall'indipendente Alfredo Pizzoni ("Longhi"), il comitato milanese si trasformò così in Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) e per il resto della Resistenza guidò con efficacia la lotta partigiana nel cuore della Repubblica Sociale e dell'apparato militare tedesco.[99]
I componenti iniziali del CLNAI furono: i liberali Giustino Arpesani e Casagrande, i comunisti Girolamo Li Causi e Giuseppe Dozza, gli azionisti Albasini Scrosati e Ferruccio Parri, i socialisti Veratti (poi deceduto) e Viotto, i democristiani Casò e Enrico Falck. Successivamente la composizione mutò: si aggiunsero i liberali Anton Dante Coda e Filippo Jacini; tra i comunisti, Dozza si recò in Emilia e a Li Causi si aggiunsero Emilio Sereni e Luigi Longo che poi passò al CVL; tra gli azionisti, Parri passò al CVL e ad Albasini si aggiunsero Riccardo Lombardi e Leo Valiani; tra i socialisti si aggiunsero Marzola, Sandro Pertini, Rodolfo Morandi; tra i democristiani, Casò fu sostituito da Achille Marazza a cui si aggiunse anche Augusto De Gasperi. La presidenza del CLNAI restò a Pizzoni sino alla Liberazione; il 27 aprile 1945 al suo posto subentrò il socialista Morandi.
Il ruolo del CLNAI crebbe di importanza durante la guerra; dopo la delega dei poteri ottenuta dal CLN di Roma, finalmente il 26 dicembre 1944 anche il governo di unità nazionale di Bonomi affidò i poteri di direzione nell'alta Italia al CLNAI, che quindi di fatto assunse il ruolo di "terzo governo" o "governo ombra" nei territori occupati.[100] Organizzato come un "governo straordinario del Nord", il CLNAI riuscì a mantenere la coesione tra le diverse posizioni politiche, mantenne i rapporti, a volte difficili, con gli Alleati, si occupò del problema del finanziamento della guerra partigiana (compiti assunti soprattutto da Pizzoni e Falck) attraverso reti di collegamento con la Svizzera; inoltre concluse anche accordi di collaborazione con la Resistenza francese e quella jugoslava.<