Timeline
Chat
Prospettiva
Saraṇyū
dea induista delle nuvole e del crepuscolo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Remove ads
Saraṇyū (devanagari: सरण्यू), nota anche come Saṃjñā (devanagari: संज्ञा), è una dea induista associata alle nuvole e al crepuscolo, e principale consorte di Sūrya, il dio del Sole. È menzionata nel Ṛgveda,[1] nell'Harivaṃśa[1] e nei Purāṇa.[2]

Nella mitologia, Saraṇyū è la figlia del dio artigiano Tvaṣṭṛ, spesso identificato con Viśvakarmā, e sorella gemella dell'asura Viśvarūpa.[3] Nota per la sua bellezza, virtù e poteri ascetici, Saraṇyū sposò Vivasvant (Sūrya); tuttavia, non riuscì a sopportarne l'intensa luminosità e l'energia. Quindi si sostituì con la sua stessa ombra, Chhāyā, e fuggì trasformandosi in una cavalla. Dopo aver scoperto la sua assenza, Sūrya fece diminuire la sua radiosità e la riportò indietro.
Saraṇyū è riconosciuta come la madre di numerose divinità importanti, tra cui Yama, il dio della morte; Yamunā, la dea del fiume omonimo; Vaivasvata Manu, l'attuale patriarca degli umani; i due gemelli divini conosciuti come Aśvin; e il dio Revanta.[4]
Remove ads
Mitologia
Riepilogo
Prospettiva

La leggenda di Saraṇyū è presente fin dai testi induisti più antichi, e il suo mito ha subito nel tempo notevoli variazioni.
Veda
Nel Ṛgveda (1700-1500 a.C. circa), la storia è incentrata sul suo matrimonio con Vivasvant, il dio del Sole, e sugli eventi che ne seguono. Saraṇyū, figlia di Tvaṣṭṛ, dà alla luce i gemelli Yama e Yami dopo aver sposato Vivasvant. Poco dopo, Saranyu scompare misteriosamente, lasciandosi dietro un sostituto: una savarna, ovvero una donna della stessa specie. Il testo suggerisce che questa sostituta venga data a Vivasvant, mentre Saraṇyū fugge assumendo le sembianze di una cavalla. Vivasvant assume allora le sembianze di uno stallone e la segue. Nella loro unione come cavalli, Saraṇyū dà alla luce le divinità equine gemelle, gli Aśvin. Questi dèi, metà cavalli e metà umani, vengono in seguito descritti come figure liminali, connesse sia al regno divino che a quello mortale. Dopo aver dato alla luce gli Aśvin, Saranyu abbandona entrambi i suoi figli mortali, Yama e Yami, così come gli Aśvin appena nati. La storia nel Rig Veda presenta questi eventi in modo frammentato e enigmatico, senza spiegazioni esplicite per le azioni di Saraṇyū o la creazione del suo doppio.[1]
Nel Nirukta (c. 500 a.C.) la storia viene ampliata con ulteriori dettagli. Le azioni di Saraṇyū vengono chiarite e si dice che abbia assunto la forma di una cavalla di sua spontanea volontà. Vivasvant, dopo aver scoperto la sua trasformazione, la segue sotto forma di stallone e si accoppia con lei, dando origine agli Aśvin . Il testo introduce anche la nascita di Manu, che nasce da Savarna, la sostituta di Saraṇyū. Manu diventa il progenitore della razza umana, segnando la transizione da esseri divini a mortali nella prole di Saraṇyū.[1]
Il Bṛhaddevatā (composto pochi secoli dopo il Nirukta) elabora ulteriormente la storia. Qui, Saraṇyū lascia volontariamente Vivasvant creando una donna che le somiglia e affidandole i suoi figli. Mentre Vivasvant, ignaro della sostituzione, genera Manu con Savarna, in seguito si rende conto che Saraṇyū se n'è andata e la insegue sotto forma di cavallo. La loro unione come cavalli produce gli Aśvin, che vengono concepiti in modo non convenzionale: Saraṇyū inala lo sperma caduto a terra, portando alla nascita dei gemelli.[1]
Harivaṃśa
Nell'Harivaṃśa, l'appendice del poema epico Mahābhārata, il mito di Saraṇyū subisce significative trasformazioni. In questa narrazione successiva, Saraṇyū viene rinominata Saṃjñā, mentre il surrogato da lei creato non è più descritto semplicemente come "della stessa specie" (savarna), ma è invece raffigurato come il suo chhāyā, ovvero la sua ombra o immagine speculare. In questa narrazione Saṃjñā, sebbene sia virtuosa, bella e dotata di grandi poteri ascetici, diventa sempre più insoddisfatta del marito Vivasvant. Il calore radiante di Vivasvant è eccessivo, le sfigura i lineamenti e scurisce la sua carnagione. Incapace di sopportare il calore e l'aspetto opprimenti del marito, escogita un piano per fuggire. Crea un doppio magico di sé stessa – un'ombra o chhāyā, e ordina a quest'ombra di prendere il suo posto e prendersi cura dei suoi tre figli: Manu, Yama e Yamunā. Avverte l'ombra di non rivelare la verità a Vivasvant, dopodiché fugge nella casa di suo padre Tvaṣṭṛ. Qui però incontra una dura disapprovazione, in quanto il padre la ammonisce che deve adempiere ai suoi doveri coniugali e tornare dal marito. Per evitare di tornare, si trasforma in una cavalla e fugge nella terra dei Kuru, dove si nasconde e pascola in una regione disabitata.
Nel frattempo, Vivasvant rimane ignaro della sostituzione e continua la sua vita con l'ombra di Saṃjñā, credendola la sua vera moglie. Insieme, hanno un figlio di nome Savarni Manu, che significa "dello stesso genere" del primo Manu. L'ombra tuttavia non tratta i figli precedenti di Saṃjñā – Manu, Yama e Yamuna – con lo stesso affetto. Favorisce il proprio figlio, trascurando gli altri. Questo favoritismo porta a conflitti, soprattutto con Yama che, in un momento di rabbia, alza il piede per colpire Chhāyā. Infuriata per la sua azione, Chhāyā maledice Yama, dichiarando che il suo piede cadrà.
Sospettoso del comportamento di Chhāyā, Vivasvant la affronta e le chiede spiegazioni per il suo favoritismo. Sotto pressione, l'ombra rivela la verità. Vivasvant chiede allora aiuto a Tvaṣṭṛ, che, in qualità di architetto divino, tempera la natura ardente del Sole, riducendone l'eccessivo calore e rendendo la sua forma più sopportabile. Vivasvant parte quindi alla ricerca di Saṃjñā, localizzandola nella terra dei Kuru. Per avvicinarla, assume la forma di uno stallone e si unisce a lei. Tuttavia Saṃjñā, non riconoscendo il marito, espelle il suo seme attraverso le narici, dando così alla luce gli Aśvin. Dopo questo incontro, Vivasvant rivela a Saṃjñā la sua nuova forma e di come la sua luminosità si sia ora ridotta, i due si riconciliano e tornano alla loro vita insieme.[1]
Purāṇa

La storia di Saraṇyū è ripresa in molteplici Purāṇa.[2] Tra questi, il Mārkaṇḍeya Purāṇa contiene il resoconto più elaborato. Secondo l'indologa Wendy Doniger, questa rivisitazione svolge una funzione importante nella letteratura puranica, collegando le divinità vediche più antiche con i concetti puranici più recenti, soprattutto in relazione all'ascesa del culto della Dea. Nello specifico, il Mārkaṇḍeya Purāṇaa usa la storia per introdurre il Devi Mahatmya, un testo centrale per il culto della Dea (Devī), che segnala l'assimilazione di divinità femminili da tradizioni vernacolari non sanscrite nel canone sanscrito classico.[1]
A differenza delle versioni precedenti, il Mārkaṇḍeya Purāṇa non enfatizza l'aspetto fisico del Sole, come riportato nell'Harivaṃśa. La narrazione si concentra invece sull'incapacità di Saraṇyū di tollerare la sua energia, chiamata tejas. Incapace di sopportare questa intensità, Saraṇyū chiude gli occhi ogni volta che lo vede. Vivasvant, adirato per questa reazione, la maledice, dichiarando che darà alla luce un figlio, Yama, che sarà l'incarnazione della moderazione (samyama), un riflesso della sua visione ristretta, e una figlia, Yamunā, che diventerà un fiume dal flusso erratico e irregolare, come lo sguardo di Saraṇyū. Il Markandeya Purana introduce anche un nuovo personaggio, Revanta, nato dal seme rimanente di Sūrya dopo il concepimento degli Aśvin.[4]
Nel Viṣṇu Purāṇa, la leggenda è recitata dal saggio Parāśara. In questo testo, la partenza di Saraṇyū è più esplicitamente legata al suo desiderio di compiere tapas (penitenza) nella foresta per ottenere il controllo sul calore del Sole. Inoltre in questa narrazione Tvaṣṭṛ è sostituito da Viśvakarmā come padre di Saraṇyū. Su richiesta della figlia, Viśvakarmā riduce di 1/8 la radiosità di Sūrya e, con l'energia rimasta, crea molte armi celestiali tra cui il disco di Visnù, il tridente di Siva e la lancia di Kartikeya.[5][6]
Remove ads
Oltre il subcontinente indiano
In Cambogia Saraṇyū è conosciuta come Tungsa Devi (khmer: ទុង្សាទេវី), e il suo culto è parte della cultura induista tramandata dall'Impero Khmer. La sua mitologia e iconografia sono state adattate e mescolate con influenze del buddismo cambogiano e hanno una propria identità unica. In particolare, viene raffigurata vestita di rosso, monta un Garuda e ha per simboli il chakra e il shankha. È la dea protettrice della domenica, venerata durante la festa del Capodanno cambogiano se il primo giorno dell'anno cade di domenica, poiché si crede che discenda dal cielo per prendersi cura della gente di questa terra fino al Capodanno successivo.[7][8]
Remove ads
Note
Altri progetti
Wikiwand - on
Seamless Wikipedia browsing. On steroids.
Remove ads
