Psicologia penitenziaria
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La psicologia penitenziaria è, per alcuni, quella parte della psicologia giuridica che troverebbe applicazione all'interno delle strutture penitenziarie[1], per altri una disciplina autonoma caratterizzata dall'oggetto dell'indagine e dal campo di indagine[2].
Oggi di psicologia penitenziaria si parla a più livelli e questa disciplina, anche grazie all'attivazione di corsi universitari e master, ha raggiunto una certa autonomia. L'intervento dello psicologo in carcere poggia sull'idea-guida che il sostegno ed il trattamento possano rispettivamente supportare l'Io nelle fasi più critiche ed incidere significativamente sulla organizzazione esistenziale del soggetto promuovendone il senso di colpa, di responsabilità e l'autocritica e motivandolo al reinserimento sociale. Va da sé che questi presupposti teorici continuamente si confrontano e si scontrano con i vincoli e le richieste istituzionali che li rendono a fatica compatibili con la quotidianità detentiva e con la precarietà che ancora, nonostante gli sforzi innumerevoli realizzati, caratterizza l'operare “al di là del muro”. Nella psicologia penitenziaria il committente (la società, l'Amministrazione penitenziaria, la Magistratura di sorveglianza...) non corrisponde all'utente (detenuto). A differenza di altri ambiti, il “doppio mandato” non è episodico bensì strutturale[3].