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Capacità contributiva
principio fondamentale del diritto tributario Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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La capacità contributiva è un principio fondamentale del diritto tributario, espressamente sancito dall'art. 53 della Costituzione, che può avere due significati:
- dal punto di vista dello Stato, significa che le leggi tributarie non devono colpire fatti che non siano espressivi di capacità contributiva;
- dal punto di vista del contribuente, è una garanzia, in quanto il contribuente non può essere sottoposto all'imposizione, se non in presenza di fatti che esprimono capacità contributiva.
Nella sentenza n. 21 del 2005, la Corte costituzionale ha affermato «l'incertezza che attualmente contrassegna la nozione di capacità contributiva», a proposito della possibilità di annoverare fra gli indici di capacità contributiva anche parametri connessi con il diverso status sociale dei vari contribuenti.
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Capacità contributiva come forza economica
Riepilogo
Prospettiva
Negli anni '60 fu studiato il concetto di capacità contributiva come forza economica, cioè come possesso di ricchezza idoneo a giustificare il prelievo fiscale nell'interesse collettivo. Questa interpretazione è in parte basata sulla tradizione storico-costituzionale in materia di limiti al potere tributario: la Costituzione di Weimar faceva riferimento agli averi dei soggetti, lo Statuto albertino menzionava le cosiddette facoltà economiche. In entrambi i casi, si sanciva che nessuno poteva intaccare oltre certi limiti la disponibilità economica complessiva dei sudditi.
Nel vigente ordinamento giuridico italiano, il principio di capacità contributiva assicura che ogni prelievo sia giustificato da indici rivelatori di ricchezza, ai fini di una giusta ripartizione del carico fiscale.
La Corte costituzionale già dalla fine degli anni '60 è andata via via specificando il concetto di capacità contributiva come forza economica sul piano garantistico: per il giudice delle leggi, la capacità contributiva assicura che ogni prelievo sia giustificato da «indici concretamente rivelatori di ricchezza», e cioè assicura che sia colpita l'effettiva idoneità del soggetto al prelievo fiscale.
Non basta dunque il verificarsi del presupposto d'imposta, ma occorre che tale presupposto (ovvero il possesso di reddito) manifesti la situazione economica complessiva del contribuente, ai fini di una giusta ripartizione del carico fiscale. Non tutta la capacità economica è però capacità contributiva come è facile desumere dal principio dell'esclusione del minimo vitale.
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Indici di capacità contributiva
Riepilogo
Prospettiva
Sul piano sistematico, gli indici di capacità contributiva sono il reddito, il patrimonio, il consumo; a questi, si aggiungono la spesa complessiva, gli incrementi patrimoniali e gli incrementi di valore del patrimonio non legati a un'attività del soggetto passivo.
In presenza di questi indici, la prestazione tributaria trova la sua giustificazione nella mera possibilità economica (effettiva e reale, e non presunta o fittizia) di concorrere all'interesse collettivo, in ragione dell'esistenza di una ricchezza superiore alle esigenze dell'economia individuale.
Il patrimonio è uno stock di ricchezza a cui di solito corrisponde un flusso di reddito. Il reddito è un flusso destinabile al consumo e al risparmio, sia pure in proporzioni variabili da soggetto a soggetto. Il consumo è la quota del reddito non risparmiata.
Questi tre indici non vanno considerati alternativi: i moderni sistemi tributari, tra cui quello italiano li assumono contemporaneamente, anche se con diverso rilievo, in quanto ciascun indice ha caratteristiche proprie.
Con la sentenza n. 155 del 2001, la Corte costituzionale ha chiarito che «la capacità contributiva non presuppone l'esistenza necessariamente di un reddito o di un reddito nuovo, ma è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti o di loro disponibilità monetarie attuali, quali indici concreti di situazione economica degli stessi contribuenti».
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Requisiti di effettività e attualità
Riepilogo
Prospettiva
La Corte costituzionale ha individuato alcuni requisiti della capacità contributiva, tra questi quelli di effettività e di attualità, censurando le presunzioni assolute in materia tributaria ed escludendo l'imponibilità del cosiddetto minimo vitale, che contraddicono a questi requisiti.
Per quanto riguarda il requisito dell'effettività, la Corte ha stabilito che la capacità contributiva deve essere reale e concreta e non apparente o fittizia. Ciò significa che il Legislatore non può prendere in considerazione indici che siano rivelatori di una ricchezza soltanto apparente e non reale.
Fino alla metà del secolo scorso l'interpretazione giurisprudenziale dell'effettività è stata di tipo soggettivo. Si dava, infatti, centrale importanza alla concreta situazione del singolo soggetto e ciò che rilevava era, dunque, la reale ricchezza prodotta da un determinato bene. Al contrario, il requisito dell'effettività viene oggi interpretato dalla Consulta in senso oggettivistico [1], non si guarda più a quanta ricchezza produce un bene al singolo soggetto ma è sufficiente che quel bene sia anche solo potenzialmente capace di produrla. In linea con quest'ultimo orientamento risultano ad oggi legittimi alcuni specifici indici, come la rendita catastale, o alcuni istituti, come quello delle forfettizzazioni, che prendono in considerazione la potenziale produttività di un bene invece che la sua reale rendita.
Indici e istituti come le sopracitate rendite catastali o forfettizzazioni fanno riferimento a parametri medi-ordinari che guardano, in base alle caratteristiche del bene, quanto un bene dello stesso tipo produce in media al soggetto che lo possiede. Gli istituti tributari che oggi fanno uso di questa tipologia di parametro sono sempre di più ma pur sempre legittimi secondo l'interpretazione oggettivistica della capacità contributiva sostenuta dalla Corte.
Oltre ai parametri di produttività media-ordinaria la giurisprudenza ha anche ammesso l'utilizzo, da parte del legislatore, di presunzioni. Anche in questo caso, come per i parametri medi-ordinari, non si prende in considerazione quanto realmente prodotto da un bene ma ci si riferisce piuttosto ad un dato ipotetico, quello della produzione presunta. Al sussistere di certe condizioni è dunque possibile presumere quale sia la ricchezza di un soggetto senza conoscere quella realmente posseduta. La Corte costituzionale ha però limitato la legittimità delle presunzioni a quelle cosiddette relative[2]. Sarà dunque sempre possibile, per il soggetto in questione, addurre prova contraria e superare così un dato meramente ipotetico facendo valere l'effettiva capacità contributiva.
Si pongono in questo stesso ambito il problema del cosiddetto redditometro, quello degli studi di settore ed anche le più recenti sugar tax, carbon tax e la dibattuta tassa etica per i creator di contenuti per adulti.
Rimane al centro dei dibattiti dottrinali la compatibilità di questi istituti con il requisito dell'effettività, sebbene siano comprensibili, in alcuni di questi, le finalità chiaramente antielusive perseguite dal legislatore.
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Capacità contributiva come limite del legislatore
Il concetto di capacità contributiva come limite alla discrezionalità del legislatore tributario è stato introdotto dalla Cassazione nel 1946.
L'articolo 53 della Costituzione della Repubblica Italiana, nel codificare il principio di capacità contributiva, non stabilisce quali siano i criteri per individuare gli indici sinonimo di questa capacità, lasciando in questo modo un'ampia discrezionalità al Legislatore. La Corte costituzionale ha fissato un vero e proprio limite a questa discrezionalità, interpretando in molte sue pronunce, tra cui la sentenza n. 200 del 1976[3], il significato di capacità contributiva come l'idoneità effettiva al pagamento delle imposte. La Corte costituzionale ha quindi precisato che il legislatore rimane libero di determinare in che modo ripartire il carico fiscale tra i contribuenti, ma nel farlo deve rispettare quel carattere di effettività della capacità contributiva che corrisponde ad una forza economica reale. Nel fissare i criteri che rendono una persona suscettibile di imposizione, il legislatore non può dunque semplicemente fare riferimento ad una capacità contributiva media ipotizzabile solo in astratto, ma è obbligato ad utilizzare indici che siano concretamente indicatori di ricchezza, accertandosi in tal modo che il contribuente sia realmente idoneo a farsi carico della Spesa pubblica.[4]
Di recente, con la sentenza n. 156 del 2001, la Corte costituzionale ha affermato che:
- «rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all'obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale»;
- «nel caso dell'IRAP il legislatore, nell'esercizio di tale discrezionalità, ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto, prodotto dalle attività autonomamente organizzate».
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Imposte non collegate alla capacità contributiva
Storicamente vi sono state imposte non collegate alla capacità contributiva (ad es. imposta sul celibato, introdotta dal diritto romano e ripresa nell'epoca del Fascismo) e attualmente sembra che l'imposta di bollo sia congegnata in modo da prescindere dalla rilevanza economica dell'atto.
Analogo discorso si fa in materia di imposta di registro, che colpisce anche atti nulli o privi di capacità contributiva come i decreti ingiuntivi, le sentenze di fallimento, le locazioni di beni immobili e i tributi ipotecari.
In particolare, i tributi ipotecari colpiscono l'iscrizione di ipoteca, atto dal contenuto patrimoniale, ma privo di manifestazioni di forza economica, soprattutto se lo si guarda dal punto di vista del debitore insolvente.
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Deroghe al principio di capacità contributiva
Riepilogo
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Tutte le forme di riduzione del prelievo fiscale, rappresentate da una delimitazione del presupposto o della base imponibile, non si pongono come deroga al principio di capacità contributiva ma anzi ne sono attuazione.
Le agevolazioni e le esenzioni fiscali rappresentano invece delle vere e proprie deroghe all'operatività del principio di capacità contributiva.
La legge delega per la riforma tributaria 9 ottobre 1971, n. 825, raccomandava all'art. 9 che la materia delle esenzioni, delle agevolazioni e dei regimi fiscali sostitutivi rispondesse al criterio di «limitare nella maggior misura possibile le deroghe ai principi di generalità e di progressività dell'imposizione».
L'art. 9 della legge delega è stato attuato dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, contenente appunto la disciplina delle agevolazioni tributarie. Tale decreto ripartì sistematicamente le agevolazioni tributarie in:
- agevolazioni di carattere soggettivo
- agevolazioni di carattere territoriale
- agevolazioni per determinati atti, operazioni o beni tassativamente indicati.
La medesima nozione di agevolazione fiscale, come deroga ai principi di generalità e progressività dell'imposizione, è stata ripresa dalla legge delega n. 80 del 7 aprile 2003, per la riforma del sistema fiscale statale.
Poiché la capacità contributiva deve misurarsi con altri interessi diversi da quello di assicurare il gettito fiscale, l'agevolazione fiscale si giustifica solo laddove persegua una funzione extrafiscale riconosciuta dall'ordinamento. Solo in presenza di tale condizione può ammettersi una deroga al principio di capacità contributiva, che altrimenti risulterebbe violato, ponendosi l'agevolazione come un trattamento di favore concesso per situazioni soggettivamente od oggettivamente particolari e, quindi, in violazione del principio di uguaglianza economica di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione.
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Rapporto con i tributi a finalità extrafiscale
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Una delle questioni più dibattute sull'applicazione dell'articolo 53 riguarda la sua compatibilità con i tributi extrafiscali.
Questi ultimi, infatti, hanno come obiettivo primario quello di orientare o disincentivare alcuni comportamenti sociali, ritenuti generalmente nocivi.
Esempi classici sono alcuni tributi quali la carbon tax, in materia ambientale, e la sugar tax, in ambito sanitario, che hanno come scopo precipuo quello di contrastare, rispettivamente, l'inquinamento ambientale e il consumo eccessivo di prodotti dannosi per la salute.
Il rapporto di questi con la Costituzione potrebbe essere problematico per la loro condizione costitutiva, visto che l'articolo 53 comma 1 individua nel fatto indice di forza economica il presupposto del dovere di contribuzione.
Nei tributi extrafiscali, invece, il loro fondamento risiede in un comportamento, che di per sé non esprime una maggiore capacità economica del soggetto che lo realizza.
La Corte Costituzionale ha superato questa apparente incompatibilità[5] grazie al bilanciamento tra i principi costituzionali che giustificano l'intervento (di capacità contributiva, di tutela della salute, di tutela dell'ambiente, ecc...) e il dovere di contribuzione.
Il tributo extrafiscale è, dunque, da considerarsi del tutto legittimo qualora:
- Non sia caratterizzato dalla scelta di un presupposto manifestamente arbitrario o irragionevole.
- Non sia in concreto sanzionatorio, ma correlato alla finalità di tutela dello stesso.
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Capacità contributiva in rapporto al nucleo familiare
Riepilogo
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In rapporto al nucleo familiare, il regime fiscale applicato in Italia fino al 1976 è stato il cumulo obbligatorio dei redditi coniugali.
Tale sistema prevedeva che i redditi prodotti da entrambi i coniugi venissero sommati integralmente e imputati al marito, il quale era considerato l'unico soggetto passivo per l'intero nucleo familiare. Questo approccio delineava la famiglia come un'unica unità impositiva (tax unit).
La somma dei redditi determinava un aumento significativo dell'imponibile complessivo e, per effetto della progressività dell'imposta, comportava il passaggio a scaglioni di aliquota più elevati. Il risultato era un carico fiscale maggiore rispetto a quello che sarebbe derivato dalla tassazione separata dei redditi individuali (fenomeno noto come "progressione per cumulo").[6]
La normativa è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 179 del 1976. La Corte, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del d.P.R. 597/1973, ha affermato:
“ L’art. 2, comma primo, del d.P.R. n. 597 del 1973, nel disporre che unico soggetto passivo dell’imposta personale sui redditi sia tra i due coniugi non separati solo il marito, determina un trattamento giuridico diverso tra i coniugi con conseguente violazione degli artt. 3 e 29 della Costituzione: la detta disparità di trattamento, infatti, non si presenta adeguatamente e razionalmente giustificata e, con particolare riferimento all’art. 29 della Costituzione, non può dirsi che essa tenda a realizzare un limite all’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi in funzione della garanzia dell’unità familiare.” [7]
Inoltre, la Corte ha richiamato il principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione, secondo cui essa deve essere personale e riferita al singolo individuo come centro di imputazione del presupposto d'imposta. Di conseguenza, il cumulo obbligatorio è stato ritenuto incompatibile con il modello di imposizione personale delineato dalla Carta Costituzionale.
La sentenza n. 179/1976 ha segnato l'abolizione definitiva del sistema del cumulo, affermando il principio della tassazione separata e individuale dei redditi dei coniugi.
Anche nel sistema dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) vigente, il legislatore ha abbandonato il principio del cumulo dei redditi familiari.
Questa scelta, infatti, ha superato la concezione per il diritto tributario di famiglia come soggetto unico e ha considerato invece il nuovo principio della personalità dell’imposizione[8].
La nuova considerazione della famiglia si basa sul criterio dell’assoluta individualità tributaria: ciascun componente del nucleo familiare deve presentare in modo autonomo la propria dichiarazione dei redditi e provvedere al relativo versamento.
Rimane però prevista la facoltà della dichiarazione congiunta, che oggi è limitata ai soli coniugi titolari dei redditi dichiarabili nel Modello 730. Questa opzione non incide su come deve essere determinata l’imposta (personale per ciascun coniuge) ma interessa soltanto le modalità di versamento della stessa.
In considerazione dell’evoluzione del sistema di tassazione applicato al nucleo familiare furono introdotti vari correttivi, come le detrazioni per familiari a carico, ma in modo frammentato. Ciò rese la disciplina fiscale sulla famiglia complessa e poco uniforme.
Fin da subito emersero però contrasti con alcuni principi costituzionali, in particolare con il principio di uguaglianza.
Secondo alcune interpretazioni, la Corte costituzionale non ha impiegato strumenti volti a sollecitare un intervento legislativo più incisivo, lasciando invece ampio margine di discrezionalità al Parlamento nelle decisioni fiscali.
A quasi cinquant’anni dalla sentenza n. 179 del 1976, diverse analisi evidenziano che il sistema dell’IRPEF presenta ancora criticità legate al trattamento delle famiglie monoreddito e, più in generale, dei nuclei in cui il reddito non è distribuito in modo uniforme tra i coniugi.[9]
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Note
Bibliografia
Voci correlate
Collegamenti esterni
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