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Teoria dell'impeto

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Teoria dell'impeto
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La teoria dell'impeto (o dell'impetus) è una teoria medievale secondo cui, applicando una forza a un corpo, si trasferisce ad esso un impetus che gli consente di continuare a muoversi con la stessa velocità se non è frenato da ostacoli o dalla resistenza del mezzo.[1]

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Traiettoria di una freccia che prosegue nel suo movimento anche dopo essersi separata dall'arco.

Fu proposta tra gli altri da Giovanni Buridano per spiegare alcune osservazioni verso cui la teoria aristotelica del moto appariva insoddisfacente.[1]

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Contesto filosofico e precedenti storici

Riepilogo
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Lo stesso argomento in dettaglio: Fisica aristotelica.

La filosofia di Aristotele era sostanzialmente una scienza del vivente,[4] che spiegava le leggi del divenire, anche degli enti inanimati, in analogia allo sviluppo di un organismo.[5] Ogni movimento risultava così associato agli esseri dotati di anima,[6] mentre la quiete presupponeva la mancanza di vita.[7]

Ogni corpo, in particolare, una volta ricongiunto alla propria sfera naturale secondo il suo elemento di appartenenza (fuoco, aria, acqua, terra), avrebbe potuto muoversi solamente se spinto artificialmente da un motore:[7] «quidquid movetur ab alio movetur».[8]

Per spiegare il moto di una freccia scoccata da un arciere, la quale diventava capace di percorrere anche una grande distanza, pur non essendo più spinta da nessuna forza applicata, Aristotele pensava che dietro la freccia l'aria formasse dei vortici, da cui il sibilo, che continuavano a spingere la freccia. Questa veniva così distolta per un po' dal suo luogo naturale, cioè la terra, poiché era il mezzo a sospingerla (l'aria), la quale nonostante opponesse una certa resistenza, le ritrasmetteva a sua volta una parte della forza dell'arciere.[9]

A questa spiegazione si oppose, già nel VI secolo, Giovanni Filopono nel suo commento alla Fisica di Aristotele, anticipando alcune idee simili alla teoria dell'impeto, sostenendo la possibilità del moto anche in mancanza del mezzo resistente.[9]

Nella filosofia naturale del primo Medioevo si continuò in ogni modo a ricercare le cause metafisiche, più che meccaniche, del moto,[10] il quale anche in un ambito strettamente fisico veniva giustificato con la presenza di un urto o un contatto, secondo il motto latino «corpus a corpore non moveri, nisi contiguo»: «un corpo non può essere mosso da un altro corpo, se non questo è contiguo».[11]

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Formulazioni della teoria dell'impetus

Riepilogo
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Studio geometrico della traiettoria balistica di un proiettile, in un disegno del 1547 di Walther Hermann Ryff, secondo i canoni della teoria dell'impeto.

Col prosieguo della filosofia scolastica vennero tuttavia formulate le prime teorie dell'impeto, con cui si indicava una forza, concepita ancora in termini qualitativi (alla stregua di una virtù o una potenza), capace di conservare il movimento dei corpi, ad esempio quello dei proiettili, tendente però ad esaurirsi fino a determinarne la caduta o il ricongiungimento col loro luogo naturale.[9]

Si trattava ora di una forza impressa, quindi non esterna, ma che diventava intrinseca ai corpi.[12]

Sarà poi con Giovanni Buridano che sarà data di questa forza una spiegazione in termini quantitativi, cioè di misurazione,[9] collegata alla quantità di materia del mobile, e alla velocità con cui questo si muove.[1] Egli propose dei controesempi alla teoria aristotelica, e per spiegare il moto della freccia sostenne che l'arco le trasferisce appunto l'impetus.

Questo venne concepito da Buridano come una causa puramente meccanica, estesa persino alle sfere celesti, il cui movimento circolare e uniforme veniva così spiegato senza più ricorrere all'aristotelico motore immobile, la cui divina perfezione era capace di attrarre a sé le intelligenze angeliche preposte al moto degli astri. Dio secondo Buridano si sarebbe semmai limitato a creare il mondo imprimendogli un impetus iniziale, che avrebbe continuato a far funzionare ininterrottamente le meccaniche celesti in maniera indipendente dal Creatore.[12]

Buridano sostenne pertanto che l''impetus era una qualità permanente destinata a conservarsi in assenza di ostacoli, cioè solo se non vi fosse la resistenza del mezzo, presente invece nel mondo sublunare.

«Se tu fai ruotare velocemente una mola da fabbro grande e molto pesante, e poi cessi di muoverla, essa continua a muoversi a lungo per l'impeto acquisito; anzi tu non potresti fermarla rapidamente, ma per la resistenza derivante dalla gravità della mola quell'impeto diminuirebbe lentamente in modo continuo fino alla cessazione del movimento della mola; e forse se la mola durasse per sempre senza alcuna diminuzione o alterazione, e non ci fosse alcuna resistenza corruttiva di quell'impeto, la mola sarebbe mossa perpetuamente da quell'impeto.»
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Prefigurazioni moderne

Riepilogo
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A sua volta la teoria dell'impetus sarebbe stata ripresa da Nicola d'Oresme, e prefigurava il concetto newtoniano di «quantità di moto», che però era soltanto una misurazione del movimento e non la sua causa.[14]

All'epoca della sua formulazione, la teoria dell'impetus fu in ogni caso ritenuta un'integrazione della fisica aristotelica, utilizzata per supportarla in un suo punto debole, anziché una sua antagonista in grado di superarla.[13][1]

In essa si è vista tuttavia una prefigurazione del moderno principio di inerzia, proprio per la potenziale continuazione all'infinito dell'impeto impresso a un corpo,[12] sebbene la futura meccanica classica, nel concepire la materia appunto come «inerte», la riteneva assolutamente passiva, sostenendo come l'applicazione di una forza esterna si limiti a modificarne lo stato di moto, secondo l'esplicita formula di Leonhard Eulero del 1739 (forza = massa accelerazione), senza causarvi la trasmissione di questa forza.[15]

Sarà piuttosto Leibniz a intendere la «forza» come una proprietà intrinseca della materia, identificandola con la nozione odierna di energia cinetica, ma egli si distanziò dalla teoria dell'impetus per la diversa concezione di spazio e tempo come enti relazionali, sicché la forza non viene propriamente trasmessa, essendo per lui una capacità dei corpi di muoversi da sé.[11]

Note

Bibliografia

Voci correlate

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