Ebraismo e schiavitù
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Le opinioni ebraiche nei riguardi della schiavitù sono variate sia religiosamente che storicamente. I testi religiosi dell'ebraismo contengono numerose leggi che regolano la proprietà e il trattamento da concedere agli schiavi; le argomentazioni che contengono tali regolamenti includono la Tanakh (Bibbia ebraica), il Talmud, la Mishneh Torah di Mosè Maimonide (XII secolo) e il Shulchan Aruch di Joseph ben Ephraim Karo (XVI secolo). Le leggi originarie sulla schiavitù israelitiche trovate nella Bibbia ebraica assomigliano a quella fatte promulgare nel XVIII secolo a.C. da Hammurabi[2].
I vari regolamenti sono mutati anche sensibilmente nel corso del tempo. La Bibbia ebraica contiene due serie di leggi, una per gli schiavi di Canaan ed una più legittimista per gli schiavi ebrei; dall'epoca del Pentateuco le legislazioni designate per i cananei furono applicate a tutti gli schiavi non ebrei.
Le leggi talmudiche sulla schiavitù, stabilite tra il II e il V secolo[3], contengono un insieme di regole valide per tutti gli schiavi, anche se vi sono alcune eccezioni in cui gli schiavi ebrei vengono trattati in modo diverso dagli altri. Tali leggi includono anche una pena da assegnare a quei padroni che maltrattano i propri schiavi. Nell'epoca della storia contemporanea, quando il movimento sorto a favore dell'abolizionismo cercò di mettere fuorilegge la schiavitù, i sostenitori dello schiavismo non hanno mancato di utilizzare i passi biblici inerenti per fornire una giustificazione religiosa per il mantenimento della pratica.
Storicamente gli ebrei possedevano e commerciavano schiavi[4]. Sono state pubblicate numerose opere di ricerca storica[5] per controbattere ad uno dei temi propagandistici dell'antisemitismo, quello che vuole una dominazione ebraica nel commercio degli schiavi durante il Medioevo nel continente europeo, in quello africano e nelle Americhe[6][7][8][9], in quanto gli ebrei non ebbero un impatto né significativo né continuo sulla storia della schiavitù nel Nuovo Mondo (vedi Schiavismo nelle colonie spagnole del Nuovo Mondo)[8][9][10][11]. Possedettero in termini generali molti meno schiavi dei non ebrei in tutti i territori del Vicereame della Nuova Spagna ed in nessun periodo svolsero un ruolo di primo piano come finanziatori, armatori o agenti negli scambi durante la tratta atlantica degli schiavi africani[12].
Gli ebrei coloniali continentali americani importarono schiavi africani ad un tasso del tutto proporzionale a quello della popolazione generale. Come venditori il loro ruolo risultò ancora più marginale, anche se il coinvolgimento nel commercio brasiliano (vedi schiavitù in Brasile) e nei Caraibi sembra essere stato notevolmente più significativo[13]. Jason H. Silverman, storico della schiavitù, descrive la parte svolta dagli ebrei nel commercio degli schiavi negli Stati Uniti meridionali come "minuscolo" facendo notare che l'aumento storico prima e la caduta della pratica schiavista poi nel profondo Sud non avrebbe mai influenzato gli ebrei in quanto essi non vivevano allora nel Sud americano se non in numeri minimali[14].
Gli ebrei rappresentarono l'1,25% di tutti i proprietari di schiavi meridionali e non furono significativamente differenti dagli altri proprietari di ceppo cristiano nel trattamento dei loro servitori forzati[14].