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eliminazione degli oppositori al regime stalinista Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le Grandi purghe[1] sono state una vasta e spietata repressione avvenuta nell'URSS nella seconda metà degli anni trenta, voluta e diretta da Stalin e Molotov, nei confronti di alcuni dirigenti e quadri, dopo l'omicidio di Sergej Kirov, importante dirigente del partito a Leningrado[2], per epurare il partito comunista da presunti cospiratori[3]. Il periodo è ricordato anche come Grande Terrore (большой террор, bol'šoj terror) o, in Russia, con quello di ežovščina (ежовщина, "era di Ežov")[4] dal nome del capo dell'NKVD nel periodo più tragico delle purghe.
La repressione, eseguita spesso con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici cittadini, non iscritti al partito, considerati ostili al regime, ed ebbe vasta risonanza in Occidente a seguito di alcuni processi celebrati dal 1936 al 1938 contro i massimi dirigenti del PCUS. Oggetto di arresti e condanne furono anche numerosi esponenti delle comunità straniere, inclusa quella italiana, emigrati nella nuova patria socialista per sottrarsi alle persecuzioni politiche dei paesi di origine o per contribuire al suo sviluppo. Le grandi purghe staliniane possono essere interpretate anche come un caso estremo di arrivismo politico culminato nell'eliminazione fisica degli avversari diretti.[5][6]
I processi, negli anni delle Grandi purghe, furono numerosi, ma quelli principali sono generalmente considerati i tre, pubblici, svoltisi a Mosca davanti al tribunale del collegio militare della Corte suprema dell'Unione Sovietica e un quarto, segreto, contro alcuni tra i più alti ufficiali dell'Armata Rossa. Nei tre processi pubblici Vasilij Ulrich esercitò le funzioni di presidente della corte ed il procuratore generale dell'Unione Sovietica Andrej Vyšinskij quelle di pubblico ministero. In questi quattro processi, su un totale di sessantadue imputati, cinquantacinque furono condannati alla pena capitale, sette a pene detentive varianti tra gli otto ed i venticinque anni. Neppure questi sette, comunque, scamparono alla morte: furono tutti uccisi, in varie circostanze e pochi anni dopo la sentenza, durante il periodo di prigionia.
I reati contestati furono tra quelli definiti dall'articolo 58 del Codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Tale articolo, suddiviso in quattordici commi, prevedeva la pena di morte per diverse fattispecie, la cui formulazione, volutamente generica, era concepita al fine di favorire l'accusa.
I processi della Ežovščina furono tutt'altro che imparziali: gli imputati vennero costretti a confessare colpe non commesse, dopo aver subito pressioni psicologiche e torture fisiche[7] dalla NKVD (Народный Коммиссариат Внутренных Дел, Narodnyj Kommissariat Vnutrennych Del - Commissariato Popolare per gli Affari Interni) che, dal 1934, esercitava anche le funzioni di polizia politica. Al termine di questi processi-farsa le condanne capitali inflitte erano rapidamente eseguite, spesso il giorno stesso della sentenza[8].
Il primo grande processo pubblico si svolse a Mosca, nella sala di Ottobre della Casa dei sindacati, dal 19 al 28 agosto 1936. Viene generalmente ricordato, dal numero degli accusati, come "processo dei sedici". La corte, oltre che dal presidente Ulrich, era composta da Matulevič e da Nikičenko[9].
Gli imputati principali furono: Kamenev e Zinov'ev, insieme con Bakaev, Berman-Jurin, David, Dreitzer, Evdokimov, Holtzman, Moisej e Natan Lur'e, Mračkovskij, Olberg, Pikel, Reingold, Smirnov, Ter-Vaganjan.
Il processo mirava a colpire i maggiori esponenti dell'opposizione di sinistra del partito guidata da Trotsky e venne definito nei resoconti ufficiali "processo del centro terrorista trotskista-zinovievista"[10]. Tutti gli imputati, tranne Smirnov e Holtzman, che respinsero parzialmente le accuse[11], interrogati da Vyšinskij, si dichiararono colpevoli dei reati contestati. Tutti furono condannati a morte. Le esecuzioni furono rese note ventiquattro ore dopo la sentenza.
Il secondo processo pubblico, chiamato "processo dei diciassette", fu celebrato, sempre a Mosca, nella sala di Ottobre della Casa dei sindacati, dal 23 al 30 gennaio 1937. Formavano il collegio giudicante il presidente Ulrich, Matulevič e Ryčkov. Gli imputati principali furono: Radek, Pjatakov, Sokol'nikov e Serebrjakov. Gli altri tredici imputati furono: Arnold, Boguslavskij, Chestov, Drobnis, Hrasche, Livsič, Knjazev, Muralov, Norkin, Pušin, Ratajčak, Stroilov e Turok.
Nei resoconti ufficiali venne definito "processo del centro antisovietico trockista"[12]. Durante l'interrogatorio di Radek venne fatto il nome del maresciallo Tuchačevskij, che sarà arrestato, condannato e giustiziato pochi mesi dopo. La sentenza ammonì anche l'assente Lev Trockij, espulso nel 1929: se fosse tornato in Unione Sovietica sarebbe stato arrestato e deferito al tribunale.
Il processo si concluse con tredici condanne capitali. A quattro imputati furono inflitte pene detentive: dieci anni a Radek, Sokol'nikov e Arnold, otto a Stroilov[13]. I quattro scampati ebbero comunque vita breve: Radek e Sokol'nikov furono uccisi da compagni di prigionia nel 1939, Arnold e Stroilov furono fucilati nel 1941.
Nei primi giorni del giugno 1937 si tenne, a porte chiuse, il cosiddetto "processo degli ufficiali",[14] detto anche "processo dei generali dell'Armata Rossa". Il collegio giudicante si ipotizza fosse composto, oltre che dal solito presidente Ulrich, dai due marescialli Bljucher e Budënnyj e da altri cinque comandanti di armata e corpo di armata.[15]
L'accusa si basò su falsi documenti preparati dal Sicherheitsdienst, Servizio di sicurezza delle SS, diretto da Heydrich e fatti giungere agli organi inquirenti dall'ambasciatore sovietico a Praga. Imputato principale fu il vice commissario alla difesa maresciallo Tuchačevskij, il cui nome era stato fatto, qualche mese prima, da Radek nel precedente "processo dei diciassette".[senza fonte]
Oltre al maresciallo furono condannati ed uccisi sette generali d'armata o di corpo d'armata: Iona Jakir, Ieronim Uborevič, Robert Ėjdeman, Avgust Kork, Vitovt Putna, Boris Fel'dman e Vitalij Primakov.[16] Il generale Jan Gamarnik, anch'esso coinvolto nelle indagini e sconvolto dalle accuse si era suicidato, pochi giorni prima, il 31 maggio. Nella tarda serata del 12 giugno venne ufficialmente reso pubblico il verdetto: esecuzione immediata per tutti gli imputati. Poco dopo anche i familiari degli ufficiali giustiziati furono colpiti con arresti e condanne, spesso capitali.[17] Con questa vicenda prese l'avvio l'epurazione nell'Armata Rossa.
A causa delle purghe, le forze armate sovietiche persero 3 marescialli su 5, 8 ammiragli su 8, i 9 decimi dei comandanti di corpo d'armata e 35.000 ufficiali su 144.300.[18] La vastissima epurazione degli ufficiali e la necessità di rincalzare rapidamente le perdite, impedì la completa formazione professionale delle nuove leve[19][20] e fu una delle ragioni degli insuccessi iniziali delle forze armate sovietiche nella seconda guerra mondiale[21][22].
Tra gli uditori al processo di Tuchačevskij vi era soprattutto Roland Freisler, il futuro giudice-boia di Hitler.[23]
Il terzo processo pubblico venne celebrato nella capitale dell'URSS dal 2 al 13 marzo 1938 ed è ricordato come "processo dei ventuno". Vennero colpiti i maggiori esponenti dell'opposizione di destra del partito. Nei resoconti ufficiali fu definito come "processo del blocco antisovietico della destra e dei trockisti".[24] Oltre al presidente Ulrich, componevano la corte Matulevič (già presente con Ulrich nei due precedenti processi pubblici) ed Elev.
Gli imputati principali furono: Bucharin, Rykov, Krestinskij già componenti del Politburo di Lenin, Jagoda ex capo della NKVD da pochi mesi sostituito da Ežov e Rakovskij che era stato presidente dei commissari del popolo in Ucraina. A questi cinque si aggiungevano altri sedici imputati: Bessonov, Bulanov, Černov, Chodžaev, Grinko, Ivanov, Ikramov, Kazakov, Krjučkov, Levin, Maksimov-Dikovskij, Pletnev, Rozengolc, Šarangovič, Zrlenskij e Zubarev.
Al termine del processo, tutti i ventuno imputati furono riconosciuti colpevoli, diciotto furono condannati a morte, tre a pene detentive: quindici anni a Bessonov, venti a Rakovskij, venticinque a Pletnev. I tre superstiti furono poi uccisi nel settembre del 1941 nelle esecuzioni di massa eseguite dalla NKVD nella foresta di Medvedevskij, nei pressi di Orël, poco dopo l'inizio dell'invasione tedesca.
Notevole sensazione fecero all'epoca, e sono tuttora oggetto di discussione, le confessioni degli imputati nei tre grandi processi pubblici di Mosca. Gli imputati, nel corso delle udienze, si riconobbero colpevoli di delitti gravissimi (tradimento, spionaggio, complotti per uccidere Stalin o per rovesciare il potere sovietico e restaurare il capitalismo) che sembrarono (e sembrano tutt'oggi) inverosimili.
Cosa spinse personaggi di primissimo piano nella gerarchia del potere, alcuni dei quali erano stati al fianco di Lenin fin dal periodo clandestino, a confessare in modo apparentemente spontaneo azioni infamanti in palese contrasto con decenni di attività rivoluzionaria? Sono state fatte varie ipotesi. Le principali risposte sono le seguenti:
Nel 1939 Stalin annunciò che le purghe erano finite ma, in realtà, la brutale repressione del dissenso continuò per molti anni, ed avrebbe provocato ancora, fino alla scomparsa del dittatore nel 1953, centinaia di migliaia di arresti, confini nei gulag ed esecuzioni.
Secondo gli archivi della NKVD nel 1936 vennero condannate a morte 1.118 persone, nel 1937 e nel 1938 approssimativamente 190.000. Per l'intero periodo 1921-1953 i condannati a morte per controrivoluzione furono approssimativamente 340.000 persone, di cui circa 225.000 durante il periodo delle purghe staliniane 1936-1939.[33][34]
Con le Grandi purghe Stalin si sbarazzò non solo degli oppositori del comunismo, ma degli stessi bolscevichi della vecchia guardia che avrebbero potuto opporsi al suo potere personale e, inoltre, di alcuni importanti esponenti del comunismo internazionale. Ecco le vittime più note:
Secondo una vulgata, erronea, gli ufficiali vittime delle purghe erano d'origine nobiliare, o comunque provenivano dall'esercito zarista, oppure erano stati promossi da Trockij. Ma furono soppressi anche i militari ebrei: i vertici dell'esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953[36].
Alcuni marescialli sovietici vittime delle purghe furono:
Nessuno di questi era stato ufficiale nell'esercito imperiale russo. Piuttosto si trattò di una uniformazione di tutto l'esercito sovietico agli ufficiali della "cricca del Sud", come era definito un gruppo di ufficiali, la cui maggior parte aveva servito nella prima armata a cavallo durante la guerra civile e la guerra contro la Polonia (1918-1920). Proprio in quest'ambito Stalin aveva partecipato alla guerra civile. La "cricca del Sud" monopolizzò gli incarichi di comando militare tra il 1938 e il 1942, venendo quindi favorita dalle purghe, nonostante che anche al suo interno vi siano stati degli epurati.
In realtà le purghe militari furono così profonde e radicali da distruggere un'intera generazione di ufficiali sovietici. Tuchačevskij è il più ricordato perché era un genio militare, ed aveva avuto un importante ruolo nella modernizzazione dell'esercito, come sostenitore della meccanizzazione, della cooperazione tra esercito e aeronautica, nella tattica d'attacco di profondità con truppe corazzate, accompagnate da fanteria ed artiglieria meccanizzate e precedute dai paracadutisti.
In pratica, a cavallo tra gli anni venti e trenta, questi generali sovietici avevano ideato il metodo di guerra che sarà poi utilizzato dalla Germania negli anni quaranta, anzi la loro idea di guerra in profondità era addirittura concettualmente più avanzata, ed è tuttora studiata come dottrina operativa dalla NATO. L'URSS, nel 1941, aveva un esercito più avanzato di quello tedesco dal punto di vista degli armamenti (soprattutto carri, artiglieria e aerei d'attacco al suolo) e degli equipaggiamenti; non aveva però più un vero esercito, perché aveva perso buona parte dei suoi ufficiali più brillanti, mentre i rimanenti vivevano nel terrore ed avevano smesso di far eseguire esercitazioni per la paura che, nel caso il materiale si fosse rotto o rovinato, fossero accusati di essere dei sabotatori e quindi deportati in Siberia o fucilati.
La repressione staliniana non colpì solo cittadini sovietici: esponenti del partito a tutti i livelli (militari, semplici e, a volte, ignari cittadini), ma si diresse anche contro esponenti delle comunità straniere che, numerosi, si erano rifugiati nel paese dei Soviet per simpatie ideologiche, credendo di poter partecipare all'edificazione del socialismo, o per sfuggire alla repressione dei regimi dei paesi di provenienza. Oltre ai rifugiati politici, le repressioni staliniane che si susseguirono nel corso degli anni colpirono anche le comunità straniere di più antico insediamento, formate da immigrati giunti in epoca zarista alla ricerca di un lavoro. Nel caso degli italiani, gli insediamenti maggiori si trovavano in Crimea e in Ucraina[39].
Con l'avvento del fascismo, nella metà degli anni venti, centinaia di esuli politici italiani, comunisti, socialisti ed anarchici, emigrarono in URSS. Molti di loro, dopo lunghi anni di permanenza, quando ormai si erano integrati nella società sovietica, nel periodo delle Grandi purghe, furono accusati di spionaggio, trotskismo o "bordighismo", poi arrestati e condannati con processi illegali. Le vittime sono stimate in circa duecento.[40]
Tra le vittime che persero la vita, per l'esecuzione di una condanna capitale o per le dure condizioni dei campi di lavoro, si possono citare: Emilio Guarnaschelli (1911-1938), Luigi Calligaris (1894-1937), Vincenzo Baccalà (1893-1937), Edmondo Peluso (1882-1942), Gino De Marchi (1902-1938), Roberto Anderson (1900-1938) e Beatrice Vitoldi (1895-1939). Tra i sopravvissuti: Dante Corneli (1900-1990), Paolo Robotti (1901-1982), cognato di Palmiro Togliatti, Clementina Perone Parodi (1894-1964), l'ingegnere aeronautico Roberto Oros di Bartini (1897-1974).
L'atteggiamento, nella vicenda, dei principali esponenti del Partito Comunista Italiano e, in particolare, di Togliatti, membro autorevole del Comintern, è stato oggetto di vivace polemica. I critici hanno accusato il leader italiano di aver abbandonato centinaia di compagni, in grandissima parte totalmente estranei alle accuse, al loro destino, rifiutandosi di perorarne la causa. In alcuni casi, gli stessi dirigenti italiani furono parte attiva nel segnalare veri o presunti atteggiamenti sospetti dei compagni ed a fornire informazioni sull'ortodossia dei loro orientamenti politici, delazioni riprese ed utilizzate poi dalla polizia politica sovietica per formulare le accuse. Il partito, anche dopo la morte di Togliatti (21 agosto 1964), tenne per molti anni un atteggiamento di sostanziale reticenza sulla vicenda[41].
Tra i primi a denunciare in Europa il carattere pretestuoso dei processi staliniani, oltre a Lev Trotsky stesso, fu Boris Souvarine, già membro dell'Internazionale comunista, al quale si deve la prima ponderosa opera in lingua francese - Staline: aperçu historique du bolchevisme, scritta tra il '30 e il '35 in Francia - di analisi dello stalinismo, dei suoi metodi e della sua genesi.
In Europa e negli Stati Uniti non fu subito chiaro il significato di quanto stava accadendo in URSS. Una parte della diplomazia di Roosevelt, che riteneva la politica aggressiva hitleriana un pericolo più immediato e diretto che non il regime sovietico e le sue vicende, ritenne credibili le accuse rivolte agli imputati e sostanzialmente legittimi i loro processi[42]. Inoltre, Stalin poteva contare in Occidente su un apparato propagandistico poderoso, rappresentato dai partiti comunisti di osservanza sovietica tra i quali, all'epoca, spiccava per importanza quello francese.
L'aggressione nazista all'URSS, e la conseguente entrata in guerra di quest'ultima a fianco di Francia ed Inghilterra, contribuirono a rafforzare il peso e l'influenza dei comunisti nella politica europea. Le esigenze pressanti del comune sforzo bellico antifascista ebbero il sopravvento sull'attenzione critica verso quel che avveniva ed era avvenuto nell'alleata Unione Sovietica.
Le repressioni staliniane furono un evento di tale ampiezza ed intensità da segnare profondamente tutta la società sovietica e non solo le vittime o i loro familiari e conoscenti e, sia pure in tempi differiti e con intensità diversa, anche i settori più avvertiti della pubblica opinione occidentale compresi i suoi maggiori intellettuali. Questo coinvolgimento ha trovato espressione anche nel campo letterario con varie testimonianze e denunce.
Volendo segnalare alcune delle opere più significative che meglio testimoniano il clima ed i sentimenti di quel periodo, possiamo citare:
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