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legge 6 novembre 2012, n. 190 Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La legge 6 novembre 2012, n. 190 (nota anche come legge Severino dal nome del Ministro della giustizia del governo Monti, Paola Severino) è una legge della Repubblica Italiana in tema di prevenzione e repressione della corruzione.
Legge 6 novembre 2012, n. 190 | |
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Titolo esteso | Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione. |
Stato | Italia |
Tipo legge | legge ordinaria |
Legislatura | XVI |
Proponente | Angelino Alfano |
Schieramento | PD, PDL, UDC, LN |
Promulgazione | 6 novembre 2012 |
A firma di | Giorgio Napolitano |
Testo | |
Legge 6 novembre 2012, n. 190 |
I successivi decreti legislativi 235/2012, 33/2013 e 39/2013 furono emanati dal governo Monti.
L'esigenza di una normativa apposita scaturì da alcuni studi compiuti dall'UE e dall'OCSE in materia di corruzione che stimavano un costo per lo Stato di 60 miliardi l'anno, pari al 3,8% del Pil (con una media UE dell'1%). In un rapporto, datato 2011, l'Italia figurava come il terzo paese OCSE più corrotto, con un punteggio CPI (Corruption Perception Index) pari a 6.1 subito dopo Messico e Grecia[1]. Tra le soluzioni prefigurate, ve ne erano alcune affacciate nei lavori preparatori di trattati internazionali stipulati sotto l'egida delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa.[2]
In attuazione dell'articolo 6 della convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116, il governo Berlusconi IV varò il 1º maggio 2010 su proposta del Ministro della giustizia Angelino Alfano, un disegno di legge contenente misure per la prevenzione e la repressione della corruzione nella pubblica amministrazione italiana. L'iter di approvazione della legge - lungo e difficoltoso - terminò solo durante il governo Monti, che vi apportò alcune, sensibili, modifiche; l'iniziale opposizione, a queste ultime, de Il Popolo della Libertà[3] fu sormontata dalle argomentazioni del nuovo Ministro della giustizia, che intervenne ripetutamente nel corso dell'iter parlamentare.[4]
L'iter di approvazione della legge fu lungo e travagliato; di seguito le varie fasi:
La legge, oltre ad avere un contenuto dispositivo immediato, come l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di redigere un piano di prevenzione per la corruzione e il conferimento alla CiVIT del ruolo di "Autorità nazionale anticorruzione", conferiva sette deleghe al governo italiano per redigere delle misure per la prevenzione e la repressione della corruzione nella pubblica amministrazione. Di queste deleghe solo quattro furono attuate, mentre le altre tre decaddero.
Alla legge venne data attuazione con l'emanazione di quattro decreti attuativi:
Tra le misure principali si possono annoverare:
La legge apporta le seguenti modifiche al codice penale italiano. Di seguito le principali:
«Art. 317 (Concussione) – Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da 6 a 12 anni»
«Art. 318 (corruzione per l'esercizio della funzione) – Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da 1 a 5 anni»
«Art. 319-quater (Induzione indebita a dare o promettere utilità). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da 3 a 8 anni.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a 3 anni»
«Art. 320 (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio). – Le disposizioni degli articoli 318 e 319 si applicano anche all'incaricato di un pubblico servizio.
In ogni caso, le pene sono ridotte in misura non superiore a un terzo.»
«Art. 322 (Istigazione alla corruzione). – Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti a un pubblico ufficiale o a un incaricato di un pubblico servizio, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo.
Se l'offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio a omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell'articolo 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 319.»
«Art. 346-bis (Traffico di influenze illecite). – Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da 1 a 3 anni.
La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.
La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.
Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie.
Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.»
Il reato di "infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità" (art. 2635 c.c.) è sostituito dal reato di "corruzione tra privati". Il nuovo articolo 2635 recita quindi così:
«Art. 2635 (corruzione tra privati). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono o omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da 1 a 3 anni.
Si applica la pena della reclusione fino a 1 anno e 6 mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste.
Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 58/1998, e successive modificazioni.
Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.»
Delega al governo italiano a emanare un codice di comportamento dei dipendenti pubblici mediante un Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione. Tale delega è stata attuata con il D.P.R. 62/2013.
Delega al governo italiano a adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (entro il 28 maggio 2013), un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni[6]. Tale delega è stata attuata con il d.lgs. 33/2013: contro l'estensione degli obblighi di trasparenza - in esso previsti al comma 1 dell’art. 14, ivi inclusi i dati patrimoniali e reddituali, in passato previsti per i soli titolari di incarichi politici - anche ai titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, è intervenuta un’ordinanza del TAR Lazio, sez. I-quater, n. 1030/2017 che, su ricorso presentato da dirigenti del Garante della privacy, ha sospeso le misure attuative dell'obbligo, che erano state assunte dall'ANAC.[7]
Delega al governo italiano a emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (entro il 28 maggio 2013), un decreto legislativo per la disciplina organica degli illeciti, e relative sanzioni disciplinari, correlati al superamento dei termini di definizione dei procedimenti amministrativi. Tale delega non è stata attuata.
Delega al governo italiano ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (entro il 28 maggio 2013), uno o più decreti legislativi diretti a modificare la disciplina vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle Pubbliche Amministrazioni e negli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico nonché a modificare la disciplina vigente in materia di incompatibilità tra i detti incarichi e lo svolgimento di incarichi pubblici elettivi o la titolarità di interessi privati che possano porsi in conflitto con l'esercizio imparziale delle funzioni pubbliche affidate. Tale delega è stata attuata con il d.lgs. 39/2013.
Delega al governo italiano ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge (entro il 28 novembre 2013), un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità a tutte le cariche pubbliche elettive e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e componente del consiglio di amministrazione di consorzi, dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di aziende speciali e istituzioni nonché degli organi esecutivi delle comunità montane. Tale delega è stata attuata con il d.lgs. 235/2012.
Delega al governo italiano a adottare, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge (entro il 28 marzo 2013), un decreto legislativo per l'individuazione degli incarichi (ulteriori a quelli indicati nel comma 66) che comportano l'obbligatorio collocamento in posizione di fuori ruolo dei magistrati e avvocati dello Stato. Definita[8] "norma Giachetti", dal nome del proponente in sede parlamentare, tale delega non è stata attuata.
La legge autorizza il governo italiano, entro un anno dalla entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della delega precedente, a adottare disposizioni integrative o correttive del decreto legislativo stesso. Tale delega non è stata attuata.
Il 6 dicembre 2012 il Consiglio dei Ministri emanò il d.lgs. 235/2012 ("Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190"), in attuazione della delega di cui all'articolo 1, comma 63 della legge 190/2012.
I punti principali del decreto legislativo sono[9]:
Il 22 gennaio 2013 il Consiglio dei Ministri varò il d.lgs. 33/2013 ("Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni"), in attuazione della delega di cui all'articolo 1, comma 35 della legge 190/2012.
I punti principali del decreto legislativo sono:
Il provvedimento ha infatti lo scopo di consentire ai cittadini un controllo democratico sull'attività delle amministrazioni e sul rispetto, tra gli altri, dei principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza dell'azione pubblica.
Il 21 marzo 2013 il Consiglio dei Ministri varò il d.lgs. 39/2013 ("Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190"), in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 49 e 50 della legge 190/2012.
Il decreto legislativo stabilisce una serie articolata e minuziosa di cause di inconferibilità e incompatibilità (con obbligo in questo secondo caso di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 15 giorni, tra l'uno e l'altro incarico) con riferimento alle seguenti tipologie di incarichi:
Queste le fattispecie previste:
Il responsabile del piano anticorruzione di ciascuna amministrazione pubblica verifica che siano rispettate le disposizioni del decreto in esame, segnalando i casi di possibile violazione all'Autorità nazionale anticorruzione, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini dell'esercizio delle funzioni di cui alla legge 20 luglio 2004, n. 215, nonché alla Corte dei conti, per l'accertamento di eventuali responsabilità amministrative. Un eventuale provvedimento di revoca dell'incarico amministrativo di vertice o dirigenziale conferito al soggetto responsabile del piano anticorruzione, comunque motivato, è comunicato all'Autorità nazionale anticorruzione che, entro 30 giorni, può formulare una richiesta di riesame qualora rilevi che la revoca sia correlata alle attività svolte in materia di prevenzione della corruzione; decorso tale termine, la revoca diventa efficace. Ciò premesso, occorre analizzare con attenzione il dato normativo in esame alla luce dei principi sopra richiamati, alla ricerca della soluzione interpretativa più corretta.
Il 16 aprile 2013 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in seguito alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, firmò il D.P.R. 62/2013 ("Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 165/2001"), in attuazione della delega di cui all'articolo 1, comma 44 della legge 190/2012. Il decreto presidenziale istituisce il nuovo codice etico dei dipendenti pubblici.
Tra le disposizioni del codice le principali sono:
È infine assicurato il meccanismo sanzionatorio per la violazione dei doveri di comportamento.
Varie sono state le critiche rivolte al decreto, adombrandone l'incostituzionalità[10] o la violazione della CEDU[11], con gli argomenti qui di seguito enunciati.
Sotto il primo profilo (incandidabilità/decadenza), la norma è stata applicata per la prima volta per i candidati alle elezioni politiche del 2013 e per le elezioni regionali successive all'entrata in vigore della legge; il primo ricorso giurisdizionale, avanzato dal candidato escluso dalla competizione elettorale molisana, è stato respinto in via definitiva dalla sentenza del Consiglio di Stato Sez. V, 6 febbraio 2013, n. 695[12], che non ravvisò gli estremi neppure per porre la questione incidentale alla Corte costituzionale[13].
L'interessato ha interposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo[14].
Il contenzioso è proseguito il 27 novembre 2013, quando la decadenza è stata applicata nei confronti del leader del PDL e Forza Italia ed ex presidente del consiglio, senatore Silvio Berlusconi, che era stato condannato a 4 anni di reclusione (di cui 3 condonati con l'indulto) il 1º agosto e a una pena accessoria di due anni di interdizione ai pubblici uffici: in conseguenza di ciò, il suo seggio in Senato è stato attribuito al primo dei non eletti, Ulisse Di Giacomo[15]. Silvio Berlusconi aveva definito la legge "anticostituzionale" già in Senato, con la richiesta di affidare alla Corte costituzionale le questioni della sua legittimità[16], supportate dalle opinioni pro veritate di sei giuristi da lui incaricati di esaminare la "Severino"[17]. Malgrado la richiesta del senatore Enrico Buemi di affidarsi al più solido fondamento della pena dell'interdizione, di imminente irrogazione[18], la Giunta e l'Assemblea del Senato scelsero di applicare il decreto n. 235. Anche in questo caso è stato annunciato il deposito di un ricorso alla Corte di Strasburgo: vi si invoca il principio della irretroattività[19] che nella CEDU è previsto all'articolo 7 e che la Costituzione italiana, all'articolo 25, prevede espressamente solo per le sanzioni penali.
Sotto l'altro profilo (sospensione automatica), proseguendo l'applicazione della precedente normativa che risaliva alla legge n. 55 del 1990[20], l'applicazione del decreto n. 235 ha portato:
L'esigenza cautelare sottesa alla previsione della sospensione dall'esercizio di uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare "è passata indenne al vaglio della Corte costituzionale in almeno quattro sentenze"[34]: anche la sentenza n. 236/2015 della Corte costituzionale ha respinto questa doglianza.
Eppure, la frequente polemica colpisce la presunta[35] disparità di trattamento[36] tra la decadenza inflitta a Berlusconi e le mancate sospensioni che hanno riguardato i sindaci di Napoli[37] e Salerno[38]. Il Governo, comunque, si è difeso affermando che la pubblica amministrazione è tenuta ad applicare la legge, spettando soltanto all'autorità giurisdizionale valutare, caso per caso, se sospendere tale applicazione.[39]
Un secondo motivo di perplessità è la diversità di titoli edittali dei reati che danno luogo all'incandidabilità/decadenza da un lato ed alla sospensione automatica dall'altro: in particolare, si è giudicata irragionevole la possibilità che l'abuso d'ufficio desse luogo alla (sola) sospensione: ma anche qui la giurisprudenza costituzionale, definitivamente cristallizzata dalla sentenza 295/1994, non ha dato adito a pronunce adesive ed ha escluso ogni sospetto di irragionevolezza.
«Nel valutare, per quanto rileva nel caso in esame, se il legislatore, nell'aver esteso la disciplina in questione anche al caso di condanne per qualsiasi delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio, non abbia compiuto una scelta irragionevole, avendo accomunato i più gravi delitti di peculato, concussione, corruzione ecc., a fattispecie molto più lievi, quale quella di cui all'art. 328, secondo comma, del codice penale (omissione di atti d'ufficio), verificatasi nel giudizio a quo (la norma) non può essere tacciata di irragionevolezza …. La coerenza della norma con le finalità anzidette sta appunto nell'aver dato particolare peso, quale requisito negativo, a delitti che, pur essendo di maggior o minor gravità, sono tutti accomunati dalla connotazione di essere stati commessi con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o a un pubblico servizio. Tanto basta per escludere qualsiasi sospetto di irragionevolezza della norma adottata dal legislatore»
In seguito alla condanna definitiva a quattro anni di reclusione[40] inflitta dalla Corte di cassazione a Silvio Berlusconi il 30 luglio 2013 e all'avvicinarsi del voto per la sua decadenza da senatore da parte della giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, il PDL espresse dubbi circa l'applicazione delle misure decadenziali previste dalla legge a un soggetto colpito da condanna per reati commessi prima della sua entrata in vigore[41]. Un diverso ordine di doglianze, sia pure per questioni intertemporali, è stato evidenziato dal sindaco di Napoli De Magistris, secondo cui l'applicazione della misura sospensiva al suo mandato elettivo, a seguito di condanna di primo grado, non considerava che la sua candidatura a tale carica era avvenuta prima della entrata in vigore del decreto n. 235[42].
In ogni caso, la valutazione si interseca con il principio di irretroattività della legge penale e con la lettura che se ne dà in rapporto alla sanzione interdittiva, soprattutto se questo tipo di misura si legge come connotata di un valore afflittivo[43].
La sentenza n. 236/2015 della Corte costituzionale ha respinto questa doglianza.
In campagna elettorale nella regione Campania è emersa la tesi della disparità di trattamento tra sindaci e parlamentari, fondata sulle diverse previsioni del decreto n. 235[44]. Sia pure in un regime caratterizzato da automatismi meno incisivi (non era prevista l'operatività della misura anche a seguito di condanne precedenti alla legge), la Corte costituzionale, in sentenza 29 ottobre 1992, n. 407, aveva però già dichiarato, in ordine alle cause di ineleggibilità e di decadenza previste dalla legge per gli eletti a livello locale, che "non appare configurabile, sul piano della disparità di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali (…) certamente non può ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali".
Come per tutti i diritti civili e politici, di cui alla parte prima della Costituzione, è stato sostenuto che anche all'elettorato passivo sia applicabile da un lato il principio della riserva di legge[45] e dall'altro il principio della riserva di giurisdizione per comprimerlo o limitarlo[46]: l'automaticità che ispira l'applicazione delle misure previste dal decreto n. 235, quindi, sottrarrebbe al giudice investito della cognizione penale la possibilità di modulare la misura al caso concreto al suo esame[47].
Il 20 ottobre 2015 la Corte Costituzionale (sentenza 236/2015) respinge il ricorso presentato dal Sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il quale accusava di incostituzionalità il decreto nel punto in cui prevedeva l'applicazione della norma anche alle vicende giudiziarie avviate prima della legge stessa. Secondo i giudici costituzionali la sospensione non va considerata come una sanzione, ma come una tutela degli organi elettivi e dell'ordine pubblico e pertanto non è soggetta alle norme sulla retroattività.[48]
Il 5 ottobre 2016 la Corte Costituzionale (sentenza 276/2016) respinge i ricorsi presentati dal Presidente della Campania Vincenzo de Luca e dal consigliere regionale della Puglia Fabiano Amati, i quali accusavano il decreto di eccesso di delega da parte del Governo Monti e di disparità di trattamento tra i parlamentari e gli amministratori locali. La Corte ribadisce che non vi fu eccesso di delega e che la oggettiva diversità di status e di funzioni dei parlamentari rispetto ai consiglieri e agli amministratori degli enti territoriali quindi non consente di configurare una disparità di trattamento.[49]
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