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Il neuromarketing è una branca di riferimento della cosiddetta neuroeconomia e indica una recente disciplina volta all'individuazione di canali di comunicazione più diretti ai processi decisionali d'acquisto, mediante l'utilizzo di metodologie legate alle scoperte delle neuroscienze. È una disciplina che fonde il marketing tradizionale (economia) con neurologia (medicina) e psicologia (scienze comportamentali) e si prefigge di illustrare ciò che accade nel cervello delle persone in risposta ad alcuni stimoli relativi a prodotti, marche o pubblicità con l'obiettivo di determinare le strategie che spingono all'acquisto.[1] L'interessamento del sistema nervoso centrale, e in particolar modo delle zone cerebrali attive durante l'esecuzione del processo decisionale, sono all'origine della composizione del nome, coniato dal ricercatore olandese Ale Smidts nel 2002.[2]
Il neuromarketing è strettamente legato all'utilizzo di tecniche di visualizzazione dell'attività cerebrale attraverso sistemi di risonanza magnetica funzionale (fMRI, Functional Magnetic Resonance Imaging) o di elettroencefalografia (EEG), per comprendere cosa effettivamente accada a livello neurocognitivo in risposta a determinati stimoli emozionali, spesso con finalità promozionali o pubblicitarie, al fine di determinare il livello di efficacia della comunicazione presa in esame.
L'efficacia dei risultati è perseguita attraverso:
Gli studi sul neuromarketing hanno lo scopo di comprendere quali siano i meccanismi di decisione d'acquisto dei prodotti, per chiarire "cosa ci porta all'acquisto"[3], e non hanno alcuna relazione con la comunicazione subliminale, vietata proprio in virtù della scorrettezza nei confronti dell'acquirente. Le aziende hanno cominciato a interessarsi al neuromarketing a causa dell'inadeguatezza dei metodi usati tradizionalmente per determinare i meccanismi di preferenza e di decisione degli acquirenti: i vecchi metodi, infatti, spesso trascurano aspetti molto importanti come le emozioni e i ricordi, e sono generalmente fondati sul presupposto che i processi di scelta siano puntualmente riconoscibili e dichiarabili da parte dei soggetti che li sperimentano, presupposto che le ricerche hanno rivelato essere inesatto.[1]
Martin Lindstrøm, autore del libro “Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d'acquisto”, mette in evidenza l’utilità del neuromarketing per le aziende[4], aggiungendo tuttavia che questa disciplina presenta dei limiti che riguardano l’incompleta comprensione che si ha ancora del funzionamento del cervello umano, come ammettono diversi esperti del settore tra cui Marlene Behrmann[5]. Si può dedurre, allora, che i progressi nel campo del neuromarketing sono strettamente legati all’evoluzione delle scienze cognitive.
Se da un lato è possibile oggi ottenere una grande quantità di dati molto accurati, come immagini di alta qualità del cervello umano e la sua attività in tempo reale, dall’altro questo progresso tecnologico non procede di pari passo con la capacità di interpretare i dati ottenuti.
Sorgono quindi dei problemi che riguardano l’eccessiva semplificazione da parte dei media dei reali processi che sottostanno alle decisioni e al comportamento dei consumatori; spesso, infatti, per rendere l’informazione accessibile al pubblico vengono diffuse notizie poco accurate e semplicistiche sul reale funzionamento del cervello. Per questo motivo sono sorte alcune critiche e riflessioni, all’interno della comunità scientifica delle neuroscienze e della psicologia del consumo, da parte di autori come H.Plassmann[6] e collaboratori che avvertono circa i potenziali problemi associati a interpretazioni poco accurate di studi e scoperte neuroscientifiche.
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