Prostituzione in Italia
Da Wikipedia, l'enciclopedia encyclopedia
In Italia la prostituzione è definita come scambio di servizi sessuali per denaro ed è lecita tra adulti ritenuti consenzienti, mentre è illegale ogni altra attività collaterale come il favoreggiamento, lo sfruttamento, l'organizzazione in luoghi chiusi come bordelli ed il controllo in generale da parti terze. I bordelli vennero banditi nel 1958 dalla legge Merlin, dal nome della prima firmataria e propositrice, Lina Merlin, partigiana socialista. Un eufemismo un tempo usato frequentemente per descrivere le prostitute era in lingua italiana lucciole per chi esercitava in strada e squillo per quelle di appartamento.
La giurisprudenza costituzionale e cassazionale corrente non considera il meretricio come un lavoro[1], ma, dagli anni 2000 è stata definita dalle sentenze come attività economica "lecita"[2], talvolta anche definita "attività normale"[2], nell'ambito "sinallagmatico"[1] perlopiù verbale con accordo delle parti, ossia un contratto di scambio[1] con valore vincolante verso il cliente della prostituta (promessa unilaterale) a versare il corrispettivo dell'accordo[3] una volta effettuato lo scambio, tra la persona che vende il servizio sessuale e chi ne usufruisce. La legge attuale è stata altresì considerata come un compromesso tra l'articolo 2 (diritti inviolabili tra cui quello di disporre del proprio corpo) e l'articolo 41 (libertà di iniziativa economica entro i limiti di legge) della Costituzione.[1] Se la persona prostituta può rifiutare il proprio consenso anche dopo avvenuto pagamento, chi compra la prestazione può subire l'accusa di violenza sessuale ad esempio se non corrisponde in seguito il prezzo pattuito.[3]
Secondo la Corte costituzionale (2019), pronunciandosi contro la legittimità di alcune fattispecie e riaffermando la validità della legge, ribadendo il sistema abolizionista classico deregolamentante italiano ha rilevato allo stato attuale profili di incostituzionalità nei modelli proibizionista e neoprobizionista-neoabolizionista o "modello nordico", rappresentando invece la legge Merlin un compromesso giusto, in quanto secondo i supremi giudici costituzionali al risultato di eliminare il fenomeno "non si dovrebbe giungere (...) punendo la persona dedita alla prostituzione" considerata una delle "vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della quale dovrebbe farsi carico lo Stato"[1] Si tratta comunque spesso di una zona grigia tra legalità e semi-illegalità costituita da non punibilità. L'Italia recepisce i trattati internazionali, secondo la normativa costituzionale, e la Corte europea per i diritti dell'uomo (CEDU) ha espresso pareri su profili di illegittimità sul detto "modello nordico".[4]
Un'analoga e simile pronuncia giurisprudenziale è stata talvolta applicata dalla Corte Suprema di Cassazione ai soggetti in causa anche riguardo all'obbligo di versare o meno le tasse da parte della prostituta in proprio (cosiddetta escort), in certi casi pronunciandosi positivamente o no: nel caso di versamento volontario ed emissione di ricevuta fiscale in forma anonima la professione sessuale in proprio rientrerebbe nell'attività "altre attività di servizi alla persona", in quanto dal 2007 la professione accompagnatrice risulta nell'elenco delle 3000 attività soggette a imposizione.[5]