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Con la conquista della Grecia nel II secolo a.C., assieme alla cultura Roma assorbe anche molte usanze, espresse nella lingua latina con "mos Graeciae" o "mos Graecorum", comprese, ma non limitate ad esse, anche certe pratiche sessuali[1] tra cui quella che gli antichi romani chiamavano vizio greco[2], la sessualità praticata con adolescenti, il cosiddetto "amore efebico"[3]. Fin dai primi tempi della repubblica era perfettamente comune per un uomo poter desiderare un ragazzo[4]; tuttavia, risultando illegale commettere l'atto della penetrazione su giovani nati liberi, i soli che erano legalmente autorizzati ad assumere il ruolo di partner sessuale passivo erano gli schiavi e gli ex-schiavi liberti ma, anche in questo caso, solo con i loro padroni o ex-padroni. Per gli schiavi adolescenti e finanche bambini non vi era alcuna protezione legale, neppure in caso di palese violenza sessuale[5].
Tuttavia già al tempo di Orazio, il vizio greco cominciava ad essere praticato e Cicerone notava che «questa abitudine di amare i ragazzi mi sembra che sia nata nei ginnasi greci, nei quali questi amori sono liberi e tollerati»[6]. Anche Tacito, in età imperiale, attaccava i costumi greci fatti di "gymnasia et otia et turpes amores" (palestre, ozi e amori inconfessabili)[7] ritenendoli un'offesa al mos maiorum (costume degli avi), contrari al rigore del "civis Romanus" e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della società romana stessa.
Nel mondo greco la pederastia svolgeva una funzione pedagogica nel senso che il giovanetto si affidava, come a un maestro, a un adulto esperto della vita che stabiliva con il discepolo un rapporto spirituale e fisico che lo aiutasse a divenire adulto[8]. La pratica sessuale tuttavia doveva cessare non appena l'adolescente entrava nell'età adulta altrimenti sarebbe stata condannata e punita severamente.[9]
A Roma il rapporto sessuale con gli adolescenti venne regolato dalla Lex Scantinia (149 a.C.) che condannava espressamente l'adulto nel caso di rapporti omosessuali tra un adulto e un puer (stuprum cum puero) o praetextatus[10], mentre nel caso di rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000 sesterzi. Il ruolo passivo, infatti, era considerato in conflitto con il valore della virilità e con l'idea della superiorità sopra gli altri popoli della Gens Romana, destinata quindi a dominarli anche sessualmente[11]
Analizzando i testi e i poemi degli scrittori antichi, non si può fare a meno di notare alcune apparenti contraddizioni, almeno dal punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualità: se da una parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta omoerotiche, vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi e liberti (in molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo[12]), o addirittura dando consigli su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo[13]); dall'altra, altri scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento, contro chi si macchia di effeminatezza[14] soprattutto se cittadini romani, scherniti e derisi quando non violentemente attaccati come responsabili di una scandalosa causa di decadimento sociale[15].
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