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Castelgrande
comune italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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Castelgrande è un comune italiano di 792 abitanti[1] della provincia di Potenza in Basilicata. Arroccato su uno spuntone di roccia, risale agli anni intorno al mille, anche se tracce di insediamenti umani in tutto il territorio sono più antichi. L'abitato sorgeva intorno ad un castello, probabilmente di origine longobarda, andato distrutto a causa di terremoti.
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Geografia fisica
Arroccato a 950 m s.l.m. è posto nella parte nord-occidentale della provincia al confine con la parte nord-orientale della provincia di Salerno. Confina con i comuni di: Muro Lucano e Pescopagano (11 km), Rapone (12 km), Laviano (SA) (14 km) e San Fele (20 km).
Storia
Riepilogo
Prospettiva
Le origini e il periodo Normanno-Svevo.
Secondo alcune ipotesi le origini di Castelgrande risalirebbero al periodo altomedievale: Nicola Cianci di Leo Sanseverino ritiene, infatti, che siano riconducibili al X secolo e conseguenti alle devastazioni compiute dai Saraceni che "distrussero le due terre di S. Pietro a Piegara e S. Varva, la prima a sud est e l'altra al nord di Muro e Castelgrande"[4]; anche Francesco Masi pone le origini di Castelgrande a cavallo del IX e X secolo[5], al tempo della riconquista di gran parte della Lucania dalle forze imperiali sotto Basilio I il Macedone.
Verso la fine del dominio longobardo il territorio di Castelgrande appartenne a Guido di Sorrento, ultimo gastaldo di Conza, il quale nel 1058/1059 diede sua figlia Maria in sposa a Guglielmo d'Altavilla (1027-1080), così favorendo la transizione della nuova classe dirigente normanna. Guglielmo ereditò da Guido tutti i possedimenti nel Principato di Salerno e ricevette dal fratello Umfredo d'Altavilla, conte di Puglia e Calabria, la grande Contea di Principato (1060-1156)[6] nonché il titolo di comes di Eboli, dove fu posta la sede della corte comitale. Il territorio di Castelgrande, posto lungo la direttrice Laviano - San Fele, presidiava il confine con la Contea di Conza, posta a settentrione[7]. Intorno al 1080 Roberto, primogenito di Guglielmo d'Altavilla, successe al padre nella Contea del Principato di Salerno[senza fonte]. A differenza di Muro, Pescopagano, Bella e San Fele, Castelgrande non è menzionato nel Catalogus Baronum (metà del XII sec.), cosa che, secondo Giacomo Racioppi, è coerente con una fondazione di epoca normanna[8], mentre secondo Angelo Racaniello e Nicola Cianci di Leo Sanseverino, le origini sarebbero anteriori e l'assenza di Castelgrande nel Catalogus si spiegherebbe perché parte del demanio regio e quindi non soggetto ad alcun feudatario[9].
La prima menzione nota di Castelgrande risale al cd. Statutum de riparatione castrorum (1231-1240)[10], con cui Federico II di Svevia dispose che alla manutenzione del castrum Petre Pagane (Pescopagano) dovevano provvedere: "hominem eiusdem Terre, Tufarie, Castelli de Grandis, Plancani", cioè gli stessi uomini di Pescopagano, quelli di Tufaria (San Lorenzo in Tufara)[11], di Castelgrande, di Plancano (casale di incerta localizzazione).
Il periodo Angioino (1268-1442): da Castellum a Castrum.
Nel 1270 Pietro di Beaumont[12] sposò Filippa Berardi di Celano, che dal conte Ruggero, suo padre, e da Tommaso, suo fratello, ebbe in dote Muro, Castel de Grandis e Castel Rampone (Rapone)[13]. Alla morte di Pietro (1273), Castelgrande fu incamerato dalla Curia Regia e quindi fu concesso[14] da Carlo I d'Angiò a Pietro degli Annibaldi[15], appartenente alla più influente stirpe baronale di Roma nonché nipote del potentissimo Cardinale Riccardo, fautore e finanziatore della discesa di Carlo d'Angiò in Italia[16].
Il 18 dicembre 1273 una violenta scossa di terremoto[17] danneggia seriamente il castello che sarà poi ristrutturato e forse ampliato con un'ulteriore cortina muraria: da questo momento, nelle fonti documentarie, il toponimo Castrum de Grandis prende il posto di Castellum de Grandis. Il 25 agosto 1277 Carlo I d'Angiò mandò a Ponce de Blanquefort[18], Giustiziere di Basilicata, una copia delle costituzioni del Regno con l'ordine di farle pubblicare e osservare nella sua provincia; successivamente, il 29 settembre 1277, il notaio Bonagiunta Castri de Grande diede atto che: "Universitas Castri de Grande, ut exsequatur mandatum Ponci Blancoforte Iustitiarii Basilicatae, eligit Iacobum de Cordelia Magistrum Iuratum pro anno VI indictione"[19].
Dal Quaternus Prigilegiorum Donationum et Concessionum della V indizione (1291-1292): "notatur Pipinus Iohannes de Barulo miles magister rationalis[20] consiliarius et familiaris qui emit castrum de Grandis a Petro Anibaldi de Anibaldensibus cive Romano"[21]. Giovanni Pipino da Barletta acquistò il feudo di Castelgrande da Pietro degli Annibaldi e lo tenne per qualche tempo (non oltre il 1289) in comunione pro indiviso con Arturo di Monteleone[22]. Successivamente, con atto dell'8 aprile 1301, la contessa Filippa di Celano volle tornare in possesso del feudo di Rapone e Castelgrande concedendo in permuta a Giovanni il feudo di Albano[4]; tuttavia Carlo II d'Angiò ritenne che il cambio non fosse conveniente per gli interessi della Corona e perciò il 24 ottobre 1303 annullò la permuta confermando Giovanni Pipino nei suoi feudi[5]. Dai registri dell'Archivio Vaticano si apprende che Castelgrande era compreso nella diocesi di Muro già nel 1310, quando il Clerus Castri Grandis pagò in favore della Curia Vaticana la somma di 9 tarì per decime[5]. Alla morte di Giovanni (30 agosto 1316), Castelgrande passò nelle mani del figlio primogenito Niccolò Pipino[23], il quale sposò Giovannella di Altamura che, alla morte del marito (1332), suddivise i possedimenti tra i figli: a Matteo Pipino, che morì prematuramente e senza eredi, toccò il feudo di Rapone e Castelgrande[24]. A Matteo successe il fratello Giovanni Pipino di Altamura (†1357) il quale, per essersi ribellato, con i fratelli Pietro e Luigi, al re Roberto d'Angiò, fu dapprima incarcerato (1338), successivamente graziato (24 giugno 1344) per volontà della regina Giovanna I d'Angiò e di suo marito Andrea d'Ungheria, grazie ai buoni uffici di Papa Clemente VI, tuttavia subendo la confisca di tutti i beni paterni (il cui possesso perse per sempre) che furono devoluti alla Curia Regia[25]. Il feudo di Castelgrande fu quindi assegnato (intorno al 1334) a Roberto Sanseverino (†1361), conte di Corigliano, figlio di Tommaso II Sanseverino (1255-1324). Nel 1343 il conte di Gravina Luigi di Durazzo sposò la figlia minore di Roberto, Margherita Sanseverino, che gli portò in dote la somma di 32.000 fiorini garantita da ipoteca sulle terre di Acerenza, Aliano, Castelgrande e Rapone in Basilicata, Contursi in Principato Citra, e Gricignano in Terra di Lavoro[26]. Dopo la morte di Margherita (1360 ca), Luigi ricevette da Roberto, in esecuzione degli accordi matrimoniali, il feudo di Rapone e Castelgrande in conto della somma di 6000 fiorini.
Intanto il 18 settembre 1345 Andrea d'Ungheria cadeva vittima di una brutale congiura di palazzo, verosimilmente ordita dalla famiglia di Luigi di Taranto, amante e futuro marito di Giovanna I d'Angiò. L'assassinio provocò l'energica reazione di Luigi I d'Ungheria, fratello di Andrea, il quale, deciso a vendicarne la morte e a punire i colpevoli, tra il 1347 e il 1352 mosse in armi contro Giovanna e Luigi invadendo il regno di Napoli e scatenando una feroce guerra civile che portò morte e devastazione in Basilicata, Terra di Lavoro e Terra di Bari. Secondo Nicola Cianci di Leo Sanseverino[27], proprio a questi anni dovette risalire la distruzione, per mano delle truppe ungheresi, dei casali di Capitignano[28], Citerano (Celvitrano, località presso Muro)[29] e Gavazano (Gauzano, casale scomparso vicino Muro nei pressi della Cappella della Madonna di Loreto)[29] "messi alle falde della montagna di Pisterola", i cui superstiti dovettero riparare a Castelgrande[30], la cui popolazione si era ridotta a causa della terribile peste nera (1348-1353). Angelo Racaniello aggiunge che anche i casali di Sant'Eustachio, San Fortunato, Sant'Angelo, San Cataldo, Macieri, Montenuovo e Guardiola, tutti prossimi a Castelgrande, furono devastati di modo che gli abitanti "si ridussero intorno al castello in cerca di protezione"[31].
Gli Angiò Durazzo e la signoria della famiglia d'Alemagna[32].
Nel 1380 il Regno era stato teatro di gravi disordini conseguenti allo Scisma d'Occidente: quando papa Urbano VI offrì il trono di Napoli a Carlo III di Napoli, figlio di Luigi di Durazzo e di Margherita Sanseverino, la regina Giovanna I diede il suo appoggio all'antipapa avignonese Clemente VII. Ne seguì una guerra intestina tra i due rami della famiglia che vide prevalere, grazie anche al decisivo contributo di Luigi d'Ungheria, Carlo III il quale fece il suo ingresso trionfale in Napoli nel 1381 e l'anno seguente fece assassinare la cugina Giovanna I nel castello di Muro, dove era stata imprigionata. Con atto del 2 novembre 1382, Carlo III restituiva Acerenza alla zia Giovanna Sanseverino, quale erede dei beni paterni, mentre si confermava nel possesso delle altre terre tra cui Castelgrande. Intanto nel 1384 moriva Luigi I d'Angiò-Valois, nel 1380 designato da Giovanna I come suo legittimo erede, e suo figlio Luigi II d'Angiò ereditò il regno di Napoli venendo incoronato il primo novembre 1389 dall'antipapa Clemente VII. Dopo la morte di Carlo III (27 febbraio 1386), nello stesso anno 1389 suo figlio Ladislao di Durazzo (1377-1414), appena dodicenne, fu incoronato re di Napoli, grazie all'appoggio di papa Bonifacio IX, mentre Luigi II d'Angiò era impegnato in Puglia a reprimere una rivolta dei baroni locali. Si ebbe, così, un regno con due Re. Il vescovo di Muro Antonio I, che aveva aderito all'obbedienza avignonese, fu scomunicato dal pontefice romano Urbano VI e fu costretto a fuggire da Muro, in mano alla fazione durazzesca fedele al papa di Roma, trovando riparo a Buccino presso il conte Luigi d'Alemagna, di parte angioina filofrancese. Clemente VII, dopo aver fatto sopprimere il vescovato murano, elevò a cattedrale la chiesa di Santa Maria di Buccino[4], della quale fu insignito primo vescovo Antonio I nel luglio del 1386[33]. In questi anni tumultuosi un tale Antonio de Castro de Grandis, con diploma del 23 settembre 1391, ottenne dalla regina Margherita di Durazzo, reggente per il figlio Ladislao, allora quattordicenne, l'esenzione perpetua dall'imposizione fiscale come premio per i servigi prestati contro Luigi II d'Angiò[5].
Con diploma del 27 settembre 1391[34], Carlo Ruffo (1355-1414), conte di Altomonte e Corigliano, ottenne l'investitura del feudo di Castelgrande: solo un’accorta politica matrimoniale riportò il feudo di Castelgrande nelle mani della famiglia Sanseverino, allorquando Ruggero II Sanseverino (1376-1430), primogenito del duca di Venosa, Venceslao Sanseverino (1355-1405), sposò nel 1394 Covella Ruffo, sorella di Carlo. Il 30 settembre 1394 lo stesso Venceslao e suo figlio Ruggero II vendettero Castelgrande per 550 once a Luigi d'Alemagna, conte di Buccino, che l'8 gennaio 1396 ottenne la ratifica dell'acquisto da parte del re Luigi II d'Angiò[35]. Luigi d'Alemagna, in origine di parte filofrancese, nel 1398, insieme ad altri baroni, trattò con Ladislao, ora maggiorenne, la consegna del Regno. Con l'appoggio dei baroni, nel 1399 Ladislao si impadronì del Regno sconfiggendo le milizie di Luigi II (che, firmata la capitolazione, riparò in Francia) e imponendosi quale unico e legittimo sovrano di Napoli. Il conte di Buccino ottenne, quindi, la conferma dei suoi titoli e del possesso dei suoi feudi e morì nel 1406 lasciando una cospicua fortuna nelle mani del primogenito Giorgio d'Alemagna che ereditò anche il feudo di Castelgrande; anche Nicola, figlio che Luigi d'Alemagna ebbe dalla seconda moglie Margherita de Ponciano, ottenne alcuni beni e diritti feudali a Castelgrande, dove decise di stabilirsi. Il 6 agosto 1414 moriva prematuramente Ladislao di Durazzo e il trono di Napoli passava alla sorella Giovanna II di Napoli, nelle cui grazie l'abile Giorgio entrò rapidamente: nel 1419 il conte di Buccino ottenne il condono delle imposte dovute dai suoi vassalli di Buccino, Bella e Castelgrande (per i danni patiti a causa di guerre e pestilenze).
Dopo che la corte durazzesca rifiutò il pagamento di tributi in favore della Curia Vaticana, nel dicembre 1420 papa Martino V concesse il regno di Napoli a Luigi III d'Angiò: Giorgio d'Alemagna, come moli altri baroni, decise di schierarsi al fianco di Luigi III, abbandonando Giovanna II, la quale, temendo per le sue sorti, invocò l'aiuto di Alfonso V d'Aragona, re di Sicilia, promettendogli la successione nel Regno. Alfonso d'Aragona decise di intervenire e con un'azione rapidissima ebbe la meglio sugli eserciti francesi conquistando Napoli: il conte Giorgio subì una dura sconfitta nel 1422 e, accusato di lesa maestà, fu privato dei suoi titoli e di tutti i suoi feudi. Tuttavia i rapporti tra la regina Giovanna II e Alfonso si deteriorarono rapidamente, forse anche a causa del gran peso che a corte aveva il Gran Siniscalco Sergianni Caracciolo, e molti baroni di parte angioina, tra cui lo stesso Giorgio, si riconciliarono con la regina che nel 1423 revocava i benefici concessi ad Alfonso, concedendo a Luigi III il diritto a succedere sul trono e proclamando un indulto per molti baroni filoangioini, tra cui Giorgio d'Alemagna, che così recuperò il feudo di Castelgrande. Il conte Giorgio e Sansonetto Gesualdo (1372-1440), signore di Palomonte, Auletta, Caposele, Calitri e Baragiano, furono protagonisti di una lite circa l'estensione e i confini dei rispettivi feudi. La disputa, che non pareva trovare una rapida e pacifica composizione, costrinse la regina Giovanna II a nominare con decreto del 31 marzo 1428 due magistrati che favorirono la conclusione di un accordo tra le parti[32], mediante l'apposizione di termini lapidei con anelli di ferro[4]. La morte di Sergianni Caracciolo (1432) segnò la ripresa delle ostilità tra le due fazioni del regno: il conte Giorgio scelse di restare fedele a Giovanna II, che nel febbraio 1435 moriva lasciando quale erede al trono Renato d'Angiò, fratello di Luigi III nel frattempo improvvisamente deceduto (1434). Alfonso d'Aragona si affrettò a rivendicare i suoi diritti sul trono di Napoli e decise di sferrare al regno un grande attacco. La guerra si svolse tra Campania e Puglia con rapidi cambi di fronte: Renato perse progressivamente terreno mantenendo sotto il suo controllo solo la città di Napoli che cadde nelle mani di Alfonso V il 3 giugno 1442. Renato fu costretto a fuggire in Provenza in compagnia di pochi baroni fedeli, tra cui Giorgio d'Alemagna il quale subì la confisca di tutti i suoi beni cosicché il feudo di Rapone e Castelgrande fu venduto al barone Amelio di Senerchia (1420-1485).
Il periodo Aragonese (1443-1504).
Vinte le ultime resistenze della fazione filoangioina, Alfonso d'Aragona proclamò l'unione dei due Regni e il 26 febbraio 1443 fece il suo ingresso trionfale a Napoli, ottenendo poco dopo la benedizione di papa Eugenio IV che lo riconobbe rex utriusque Siciliae (14 giugno 1443). Il nuovo sovrano, che aveva già perdonato Giorgio nel novembre 1442, lo reintegrò ufficialmente nella signoria delle sue terre, tra cui Castelgrande, con l'indulto del 21 aprile 1444. Il 15 marzo 1446 Alfonso d'Aragona diede disposizioni ai suoi ufficiali circa la tassazione delle concubine del clero in alcune città delle provincie di Principato Ultra e di Basilicata: "in castro de Grandis unciam unam"[36].
Nella notte del 5 dicembre 1456 la terra tremò per due minuti in tutto il Regno di Napoli con una violenza tale che il sisma fu avvertito dalla Toscana alla Sicilia. Ricordato come il più devastante terremoto del II millennio, ebbe una lunga successione sismica che devastò interamente Campania, Molise, Puglia e Basilicata, mietendo più di 20.000 vittime. Pur in assenza di fonti documentarie, si può credere che a Castelgrande i danni furono ingentissimi, come nella vicina Muro che fu rasa al suolo, e sicuramente crollò gran parte del castello. Il costo della ricostruzione dei suoi feudi dovette gravare non poco sulle finanze del conte di Buccino[35].
Giorgio d'Alemagna divenne presto intimo e consigliere del nuovo sovrano Ferdinando I di Napoli, detto Ferrante, incoronato dopo la morte del padre Alfonso V (27 giugno 1458), tanto è vero che, il 6 settembre 1458, il sovrano gli concesse la possibilità di dividere i feudi tra i suoi tre figli Paolo, Pirro e Luigi. Nonostante ciò, alla fine del 1459 il conte prese parte alla guerra di secessione contro Ferrante, schierandosi al fianco di Giovanni d'Angiò, figlio di Renato. Dopo i primi successi dei baroni ribelli filoangioini, le sorti della guerra volsero in favore di Ferrante che, grazie all'aiuto del duca di Milano, Francesco Sforza, di papa Pio II e di Giorgio Castriota Skanderbeg, il 18 agosto 1462 sconfisse i nemici presso Troia. Giorgio d'Alemagna, che aveva subito gravi devastazioni nei suoi feudi nel corso del 1461 per le scorrerie dei baroni filoaragonesi, si arrese nel settembre 1462, subendo la confisca di quasi tutti i beni, ad eccezione - tra i pochi altri - di Castelgrande. Nel 1464 Giovanni d'Angiò ormai definitivamente sconfitto fuggì in Provenza.
Il 15 gennaio 1466 Castelgrande patì molti danni a causa di una forte scossa di terremoto con epicentro in prossimità dei monti Marzano ed Eremita. Il sisma fece crollare tutti gli edifici già lesionati a seguito del sisma del 1456 e che non erano stati consolidati. Il 25 ottobre 1467 Alessandro d'Alemagna vendette a Giorgio, suo cugino, la parte di una casa a Castelgrande "proprie in platea dicte terre"[35]. Forse a causa di un crollo, a Castelgrande, dove viveva, moriva Nicola d'Alemagna, lasciando una casa in eredità al figlio Orlando, il quale ne vendette la quarta parte al conte Giorgio, suo zio, il 26 ottobre 1467.
Nel 1468 Giorgio d'Alemagna moriva lasciando quel poco che restava delle sue grandi fortune ai quattro figli Paolo, Pirro, Luigi e Sunene. A Pirro d'Alemagna spettarono i feudi di Laviano e di Rapone e Castelgrande, per i quali pagò il relevio il 15 aprile 1469. Il 20 novembre 1468 la vedova di Nicola, Margherita Grappino, e sua figlia Giovanna cedettero a Pirro tutti i diritti feudali su Castelgrande, cosa che fece anche Beatrice, primogenita di Nicola, il 17 gennaio 1469. Il nuovo signore di Castelgrande dovette subito affrontare la delicata questione dei confini con i feudi vicini: mentre nel 1472 Pirro stipulò con i vicini signori di Muro (Troiano di San Magno) e di Calitri e Pescopagano (Antonello di Gesualdo) un accordo che riguardò anche i reciproci "iures forestiae, glandium et herbarum", problemi si ebbero con la Mensa arcivescovile di Conza, nei cui confronti si svolse un processo nel 1474 innanzi al Sacro Regio Consiglio. Il 19 maggio 1476 Carlo, figlio di Nicola d'Alemagna, vendette a Pirro, suo cugino, la sua parte delle case che possedeva a Castelgrande. Il 19 marzo 1485 Pirro acquista dalla bellese Maffia una casa situata a Castelgrande nel luogo detto "fiyoccha la Porta de Casale novo"[32].
La famiglia d'Alemagna fu del tutto estranea alla congiura dei Baroni ordita per eliminare Ferdinando I tanto è vero che il 10 luglio 1494 Pirro ottenne dal re Alfonso II d'Aragona, primogenito di Ferdinando, la riconferma nel feudo di Castelgrande. Il nuovo sovrano, nei primi mesi del suo regno, dichiarò guerra a Ludovico il Moro, occupando il ducato di Bari. Per vendicarsi dell'affronto Ludovico incoraggiò Carlo VIII di Francia (1470-1498), che poteva vantare un lontano diritto ereditario alla corona del regno di Napoli, a conquistare Napoli e a scacciare gli Aragonesi. Il 3 settembre 1494 Carlo scese in Italia; il 23 gennaio 1495 Alfonso II abdicò in favore del figlio Ferdinando II Trastámara d'Aragona, detto Ferrandino, ritirandosi in un monastero a Messina dove morì pochi mesi dopo; il 22 febbraio 1495 Carlo VIII prese Napoli senza combattere, perché Ferdinando II era intanto fuggito per organizzare la resistenza, e fu incoronato re di Napoli. Pirro d'Alemagna si schierò dalla parte del re francese e, dopo che il 6 luglio 1495 Carlo VIII fu sconfitto nella battaglia di Fornovo da una Lega italiana antifrancese, fuggendo in Francia, venne privato dei feudi di Laviano, di Rapone e Castelgrande che, incamerati dal fisco, il 20 giugno 1496 furono venduti a don Antonio I Carafa della Stadera il quale poi ottenne da Ferrandino, che (sconfitte le ultime sacche di resistenza filofrancese ad Atella) il 7 luglio aveva fatto ritorno a Napoli tra il tripudio della popolazione, il titolo di duca di Castelgrande[35]. Il 7 ottobre 1496 Ferrandino, ammalatosi di malaria in Calabria durante le operazioni belliche, moriva a soli 29 anni senza lasciare eredi di modo che la corona passava - obbedendo alle ultime volontà del sovrano - a Federico I di Napoli, suo zio paterno, il quale il 20 ottobre 1496 ratificava l'acquisto del feudo di Castelgrande da parte di Antonio I Carafa.
Castelgrande nelle Mappe Aragonesi.

La Corte aragonese mostrò grande interesse per la cartografia e per le ricognizioni geografiche, giustificato prevalentemente dalla esigenza di una migliore conoscenza del territorio ma anche e soprattutto per un suo migliore controllo. Proprio agli ultimi anni del XV secolo, quando a Napoli era attivo l'umanista Bernardo Silvano, risale la realizzazione delle Mappe Aragonesi conservate nell’Archivio di Stato di Napoli e nella Bibliothèque Nationale de France a Parigi, dimenticate per tanti anni e riscoperte solo negli anni '90.
Castelgrande appare indicato con il toponimo "umanistico" Castro magno e viene rappresentato con il disegno di un gruppo di case (9 elementi) intorno a una chiesa a pianta rettangolare con tetto a doppio spiovente e croce sul timpano, con un campanile sormontato da una croce. Il numero delle casette, che indica approssimativamente la consistenza dei centri abitati, lascia intendere che Castelgrande all'epoca fosse più popoloso di Pescopagano (5 elementi e un campanile con croce) e di Rapone (5 elementi e un campanile con croce), ma meno di Muro e di Bella (la Bella). Il fatto che l'autore abbia disegnato una chiesa (come anche nel caso di Pierno) e non solo un campanile, come negli altri paesi vicini, sembra indicare che il numero del clero fosse più elevato che altrove, come confermato anche dalla circostanza che nel 1446 Castelgrande risulta essere l'unico centro abitato della zona ad essere tassato per le concubine del clero.
Il paesaggio naturale è descritto come uniformemente boscoso, a giudicare dalla presenza diffusa di alberi stilizzati, ad eccezione del territorio a destra della fiumara della Bella, dove le linee orizzontali dalle quali spuntano corte linee verticali (giunchi e piante palustri) sembrano indicare la presenza di terreni paludosi. Più a sud nella vallata, vicino al ponte sulla fiumara di Bella, sono tracciati dei tratti paralleli che alludono a zone coltivate. Le miniere sono indicate con il nome del metallo estratto (argento, ferro, oro) e sono localizzate ai piedi del Monte di Muro (cioè la montagna di Pisterola)[37]. Come chiarito dal prof. Antonio Pecci, la presenza di una miniera di ferro può essere la spia della presenza di solfuri come la pirite, utilizzata per lavorazione del ferro ma anche dell'oro e dell'argento. Sebbene oggi non si abbia notizia di giacimenti di pirite nella zona, il geologo napoletano Gaetano Tenore (1826-1903)[38], in una pubblicazione del 1851, nomina alcuni luoghi in cui è possibile trovarla e tra questi cita Castelgrande, ossia la Castro magno delle Mappe Aragonesi[39].
Il Ducato di Castelgrande e il periodo del Vicereame (1504-1734).
Intanto il re di Francia, Luigi XII, cugino di Carlo VIII, che avanzava pretese sul trono di Napoli, l'11 novembre 1500 stipulò a Granada un trattato segreto con il re di Spagna Ferdinando II il Cattolico per la spartizione del regno di Napoli. Luigi XII, quindi, attaccò Napoli e Federico I chiese aiuto a Ferdinando II il Cattolico, il quale approdò con una flotta sulle coste calabresi e si impossessò delle città, così rivelando il tradimento. Nel 1501 Luigi XII adottò il titolo di Rex Neapolis, affidando il governo del regno a un viceré e dando principio alla guerra contro Ferdinando che aveva intanto deciso di impadronirsi del regno. Sconfitto l'esercito francese il 29 dicembre 1503 presso il Garigliano, Ferdinando il Cattolico prese Napoli con le armi dichiarando l'annessione del regno alla corona di Spagna. Nel 1504 la Francia fu costretta a rinunciare all'intero Regno di Napoli in favore della Spagna che, possedendo già Sicilia e Sardegna, diventava padrona dell'Italia meridionale: Ferdinando, quindi, assunse il titolo di re di Napoli, col nome Ferdinando III di Napoli e, col nome Ferdinando II, di Sicilia. Tuttavia, con il Trattato di Blois dello stesso anno, Luigi XII venne investito del Ducato di Milano dall'imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d'Asburgo e, con la salita al potere del filo-francese Pier Soderini a Firenze e la sottomissione di Genova alla Francia qualche anno dopo, prese il controllo dell'Italia settentrionale. Il 1º gennaio 1515 Luigi XII morì e il trono di Francia passò al nipote ventenne Francesco I di Francia.
Il 29 marzo 1517 una scossa di terremoto, avvertita anche a Napoli, provocò notevoli danni in tutta l'Irpinia, ed in particolare a Conza dove furono "rovinate" 116 case e morirono 26 persone. Sicuramente il sisma provocò danni a Castelgrande ma, in assenza di fonti documentarie, è impossibile stabilirne l'entità.
Il 24 febbraio 1525 Francesco I fu sconfitto dagli eserciti imperiali nella battaglia di Pavia e l'anno successivo, con il Trattato di Madrid, fu costretto dall'Imperatore Carlo V d'Asburgo ad abbandonare ogni pretesa in Italia. Nel 1526 il papa Clemente VII, preoccupato per la grande ascesa della potenza di Carlo V, abbandonò l'alleanza con l'imperatore e formò la Lega di Cognac insieme a Francesco I di Francia, che, ottenuta la libertà, dichiarò nullo il trattato di Madrid perché stipulato sotto prigionia. A questo punto l'esercito francese apriva le ostilità vere e proprie sotto la guida del generale Odet de Foix conte di Lautrec, che, a capo della lega antimperiale e col favore del papa Clemente VII che accusava l'imperatore Carlo V di essere responsabile del sacco di Roma del 6 maggio 1527, il 10 febbraio 1528 entrava nel Regno di Napoli passando per l'Abruzzo, dove sottomise molti castelli, e spargendo il terrore in Puglia. Il 23 marzo 1528 il conte di Lautrec si rese protagonista della "Pasqua di Sangue": durante l'assedio di Melfi massacrò 3.000 persone. Nel castello si era rifugiato, con le milizie superstiti, il Principe di Melfi, Giovanni III Caracciolo, il quale, rendendosi conto dell'inutilità della resistenza e per salvarsi la vita, si arrese come fece il resto della Basilicata: molti baroni, infatti, sperando migliore fortuna passarono alla parte francese. L'11 maggio, giorno della Pentecoste, la città di Melfi fu liberata dagli spagnoli e i seimila melfitani, superstiti alla strage francese fecero ritorno in città. Dopo aver conquistato Troia, Trani, Barletta e Venosa, il Lautrec cinse d'assedio Napoli nell'estate del 1528 ma vi trovò la morte a causa di un'epidemia di peste da lui stesso provocata. Da Napoli l'epidemia dilagò nel Regno e a Castelgrande perse la vita oltre un terzo della popolazione: infatti dai 744 abitanti del 1521 si passò a soli 468 censiti nel 1532[40]. Il 27 giugno 1528, forse a causa del contagio, il Duca di Castelgrande, don Antonio I Carafa, moriva lasciando un ingente patrimonio feudale nelle mani del figlio primogenito Luigi Carafa della Stadera II Principe di Stigliano. Terminata la pestilenza il popolo napoletano riedificò una cappella posta fuori città che fu dedicata alla Vergine di Costantinopoli come ex voto per lo scampato pericolo. Da Napoli il culto della Madonna di Costantinopoli si diffuse rapidamente in tutto il Regno e a Castelgrande fu edificata, probabilmente sui resti di un edificio più antico, una cappella posta in un bosco a valle dell'abitato che, dedicata alla Vergine di Costantinopoli, fu successivamente ampliata.
Nel 1561 Castelgrande dovette affrontare un altro forte sisma. Nel giro di una ventina di giorni si susseguirono due forti scosse: la prima si ebbe il 31 luglio con epicentro in Buccino e la seconda, che fu l’evento principale, il 19 agosto, con epicentro in prossimità di Polla. Nell'area del cratere ci furono oltre 400 vittime e la scossa principale fu talmente forte da devastare una ventina di borghi, risultando maggiormente distruttiva nelle aree già colpite dall'evento del 31 luglio, dove molti degli edifici lesionati non erano stati ancora consolidati. In Basilicata i documenti d'archivio riportano circa 40 vittime a Balvano e Muro Lucano e una ventina a Picerno e Vietri di Potenza; tuttavia, il borgo più disastrato fu Tito che venne praticamente raso al suolo e registrò un centinaio di vittime. A nord si registrarono danni fino in Irpinia, nell'allora Principato Ultra, dove a Calitri crollò un'ala del castello. Il 9 maggio 1575 un frate francescano conventuale originario di Spalato, Daniele Vocazio, a volte scritto come Vocensis, Vocacensis o Vocacio, già vescovo di Delminio in Erzegovina e di Macarsca in Dalmazia, fu trasferito nella diocesi vacante di Muro e fu nominato vescovo da papa Gregorio XIII[41]. La decisione del Papa fu influenzata anche dalle sofferenze che il prelato sopportò sotto gli Ottomani, che lo imprigionarono nel 1565[41], così come dal fatto che Vocazio riuscì anche a liberare circa 500 Morlacchi dagli Ottomani, molti dei quali si stabilirono nel Regno di Napoli.
Dopo la morte di Luigi Carafa, che non si era accontentato di gestire il grande patrimonio ereditato ma nel corso degli anni lo accrebbe con ulteriori acquisizioni, il 17 luglio 1576 il Ducato di Castelgrande passava ad Antonio II Carafa della Stadera il quale moriva dopo soli due anni (14 agosto 1578) di modo che il feudo venne ereditato dal figlio di questi Luigi II Carafa della Stadera (1567-1630) che il 29 novembre 1584 sposò Isabella Gonzaga, figlia del duca di Sabbioneta Vespasiano I Gonzaga, così acquisendo il titolo di Duca consorte di Sabbioneta. Superati i difficili anni dell'epidemia di peste (1528-1530) l'economia fu caratterizzata da un relativo sviluppo della produzione, delle manifatture e del commercio locali, cosa che favorì l'affermarsi nel Regno di un'aristocrazia cittadina formata per lo più da professionisti: presso la Scuola Medica Salernitana, nel 1584 Marsilio De Sanctis de Castro Grandinis conseguiva la laurea in Medicina e Chirurgia, mentre qualche anno più tardi Matteo Cristiano Castro Grandine e poi Francesco Cristiano de Castiello Grande ottenevano entrambi la laurea in Medicina Fisica, il primo nel 1590 mentre il secondo nel 1611[42]. La ripresa della comunità castelgrandese è testimoniata dal costante incremento demografico che si ebbe a partire dal 1532, quando Castelgrande contava appena 468 abitanti: la popolazione aumentò fino a 528 abitanti nel 1545, per poi passare a 678 nel 1561, a 976 nel 1595, a 1.134 nel 1648 e, infine, a 1.850 nel 1657, alla vigilia della terribile epidemia di peste dell'anno seguente.

Nella seconda metà del XVI secolo il Concilio di Trento (1545-1563) provocò una "rinascita spirituale" attraverso una profonda riforma dottrinale e morale della Chiesa cattolica, in risposta al protestantesimo, che si tradusse in una forte crescita di religiosità con la fondazione di cappelle dedicate alla Vergine e l’edificazione di conventi francescani: i cappuccini si insediarono a Muro nel 1585 e le clarisse nel 1608. Questa rinnovata spiritualità ispirò, durante i vescovati di Vincenzo Petrolini (1577-1606), da Fabriano nella Diocesi di Camerino, e di Tomeo Confetti (1606-1630), da San Gemini (allora feudo della famiglia Orsini) nella Diocesi di Narni, l'esecuzione di nuove opere: nel 1614 si conclusero i lavori di "ampliamento" della Cappella di Santa Maria di Costantinopoli; nel 1617 fu innalzata la colonna dell'Osanna nel Casale novo al di fuori della Porta meridionale; nel 1631 venne ultimata la riedificazione della Chiesa Madre dedicata all'Assunzione di Maria, cui fu invertito l'orientamento e aggiunto il campanile.
Nel 1616 nacque a Castelgrande, da nobile famiglia originaria di Pavia trasferitasi nel Regno di Napoli nel XV secolo, Matteo Cristiano figlio di Fabrizio, dottore in legge, del quale seguì le orme esercitando in Napoli la professione di avvocato[43]. Quando Gennaro Annese, succeduto a Masaniello, il 22 ottobre 1647 proclamò la Real Repubblica Napoletana, sotto la protezione del duca Enrico II di Guisa, Matteo Cristiano vi prese parte militando per il partito popolare con l'intento di organizzare una "guerra contadina" per porre fine agli abusi baronali. Dopo aver assediato e conquistato Salerno, nel gennaio 1648 con un'azione rapidissima conquistò tutta la provincia di Basilicata e per tali meriti gli fu riconosciuta la carica di Governatore generale. Nel corso degli anni Matteo Cristiano rivelò notevoli doti militari che misero in grande imbarazzo la Corona spagnola, fin quando nell'agosto del 1653 venne arrestato in Abruzzo, insieme ad altri ribelli. Condotto a Napoli venne condannato a morte il 20 agosto, con giudizio sommario, e il 23 agosto 1653 venne decapitato in piazza Mercato, mentre agli eredi fu confiscato tutto il patrimonio[4]. Una sorella di Matteo, Porzia Cristiano, aveva sposato don Angelo Cianci, creato cavaliere aurato da Filippo IV di Spagna il 9 maggio 1642, discendente dal barone Arcangelo Cianci, il cui feudo nel 1602 era passato al Capitolo di Atella: dall'unione nacque Fabrizio Cianci (1650-1696) che papa Alessandro VIII, con bolla del 4 marzo 1689, nominò vescovo di Guardialfiera.
La terribile epidemia di peste, che nel 1656 aveva decimato la popolazione di Napoli, si diffuse presto in tutto il Viceregno e nel 1657 si abbatté violentissima anche su Castelgrande, dove uccise i due terzi della popolazione: dei 1.850 abitanti censiti nel 1657, nel 1658 ne rimanevano appena 650. Dal crollo demografico Castelgrande non si riebbe subito tanto è vero che nel 1669 si contavano solo 522 abitanti.
La "guerra della lana" e i Conti di Muro Orsini di Gravina (1571-1768).
Alla base della rinascita economica e demografica che si ebbe a Castelgrande, come in molti altri centri di Irpinia e Basilicata a partire dalla metà del XVI secolo e fino alla terribile epidemia di peste del 1657, vi fu il notevole incremento delle attività legate alla produzione, alla lavorazione e al commercio della lana, che già durante il regno di Ferdinando I avevano vissuto un periodo di fioritura, da cui trasse grandi profitti l'imprenditore ed armatore Francesco Coppola (1420-1487). Con la caduta in disgrazia e la morte di Francesco Coppola, il commercio della lana nel Regno di Napoli divenne prerogativa pressoché esclusiva della famiglia Orsini di Gravina, ramo di una delle più prestigiose casate di Roma. Nel 1417 Giovanna II di Napoli aveva concesso a Francesco Orsini (†1456) la Contea di Gravina, trasformata nel 1436 in ducato da Alfonso d’Aragona. I discendenti di Francesco, I Duca di Gravina, ingrandirono il loro patrimonio nel sud Italia, dando impulso all’allevamento, all’agricoltura e alla trasformazione dei prodotti esportati a Napoli e in tutto il Regno e acquisendo feudi "su un percorso quasi ininterrotto che dalle coste tirreniche attraversava l’Appennino per estendersi lungo l’Abruzzo fino al Molise e alla Capitanata e alle Puglie, tanto da far pensare che l’obiettivo comune fosse non tanto proteggere singoli territori quanto un intero percorso costellato da redditizie dogane che coincideva con le grandi vie della transumanza"[44]. L'egemonia economica della famiglia si consolidò quando Ferdinando Orsini, V Duca di Gravina, sposò in seconde nozze Beatrice (†1580), figlia ed erede di Giacomo Alfonso Ferrillo, Conte di Muro, Signore di Acerenza, Genzano, Ruoti e Spinazzola. Rimasta vedova nel 1549, Beatrice, donna energica e di grandi capacità imprenditoriali, riscattò dall’imperatore Carlo V il feudo di Muro, in precedenza confiscato al marito per debiti di gioco, e organizzò la gestione dei possedimenti della famiglia Orsini. Con Regio Assenso dato a Madrid il 4 marzo 1580, Flaminio I Orsini, fu autorizzato a comprare Muro dalla madre Beatrice, acquisendo così il titolo di I Conte di Muro. Il 29 gennaio 1582 Flaminio I moriva lasciando il feudo nelle mani del figlio Flaminio II Orsini, che però il 17 aprile 1605 moriva a soli 23 anni lasciando erede la figlia Dorotea che sposò il Principe di Solofra, Pietro Francesco Ducapatre Orsini (1575-1641). Dall'unione nacque don Ferdinando III Orsini (1623-1658), XI Duca di Gravina, II Principe di Solofra, IV Conte di Muro e I Principe di Vallata (dal 1653), che nel 1647 prese in moglie Giovanna Frangipani della Tolfa di Toritto da cui ebbe Pietro Francesco (1649-1730), primogenito, che tuttavia nel 1668 rinunciò all'eredità del titolo di Duca avendo scelto la carriera ecclesiastica che culminerà nel 1724 con l'elezione al soglio pontificio col nome di Benedetto XIII, ultimo Papa proveniente dal Sud Italia. La Contea di Muro passò, quindi, al secondogenito di Ferdinando III, Domenico I Orsini, XIII Duca di Gravina, IV Principe di Solofra, nonché V Conte di Muro, che moriva il 3 maggio 1705 quando gli successe l'unico figlio Ferdinando Bernualdo Filippo Orsini d'Aragona (1685-1734) che dal matrimonio con la Principessa Giacinta Ruspoli ebbe Domenico II Orsini d'Aragona che, il 4 gennaio 1734, alla morte del padre (avvenuta nel palazzo Orsini di Gravina di via Monteoliveto a Napoli, oggi sede della facoltà di Architettura) ne ereditò tutti i titoli e i beni, poi trasmessi (1806) al figlio Amedeo, chiamato Filippo Bernualdo, (9 agosto 1742-3 novembre 1824) che mantenne i possedimenti ed i pascoli di Muro fino all'abolizione della feudalità[45].

Gli Orsini di Gravina si rivelarono ben presto molto avidi tanto che insorsero dispute e scontri non solo con l'Università di Muro ma anche con la vicina Università di Castelgrande cui venivano negati antichi diritti e ataviche prerogative. I pascoli della Contea di Muro, infatti, erano frequentati per consuetudine, oltre che dalle greggi di Muro, anche da quelle di Castelgrande, cui ora si aggiungevano le mandrie e le greggi di proprietà del Duca di Gravina. Nell'estate del 1571 si verificarono gravi disordini quando il Duca Ferdinando II Orsini, nipote di Beatrice Ferrillo da cui era stato nominato erede universale, fece scacciare dai suoi armigeri i pastori muresi e anche quelli di Castelgrande, che rivendicavano il possesso dei pascoli della montagna di Pisterola, di Raia di S. Silvestro, di Manca di S. Angelo, di S. Pietro in Aquilone, di Macchia del Castello, del bosco di Capomuro (Fago di Cantarino), di Raia di S. Angelo e di Lagomorto[46], da sempre oggetto di pascolo promiscuo tra le due Università. Come riporta Luigi Martuscelli, si trattava di "tutto il territorio occupato dai casali distrutti ed abbandonati di S. Pietro a Piagaro, S. Angelo, La Rocca, Gauzano, S. Biagio, Citerano, S. Barbara, Capotignano, i cui abitanti emigrarono parte in Muro e parte in Castelgrande"[29]. La contesa si fece aspra tanto che l'anno successivo l'Università di Castelgrande intentò un giudizio, che si sarebbe rivelato assai lungo e dispendioso, sia contro il Duca di Gravina sia contro l'Università di Muro: in realtà Castelgrande richiedeva che fosse confermato l'accordo del 1472, concluso tra Pirro d'Alemagna e Troiano di San Magno, feudatario di Muro, in modo da consentire al bestiame di continuare a pascolare nel territorio murese, che fino alla chiesa di S. Antonio era comune a Castelgrande ab antiquissimo tempore[4]. Il 6 novembre 1641 il Sacro Regio Consiglio pronunciò la sentenza definitiva accogliendo integralmente le ragioni dell'Università di Castelgrande, assistita dal celebre avvocato napoletano Giovanni Francesco Marciano. Per nulla vinti dall'esito sfavorevole del giudizio, gli Orsini di Gravina continuarono a tener per loro uso esclusivo l'erbaggio estivo ed anzi decretarono come “difesa” i pascoli contesi per vietarne l’uso anche nella stagione invernale ed impugnarono la sentenza limitatamente ai diritti sulla montagna di Pisterola, pretesa estranea ai demani universali promiscui perciò richiedendo la verifica dei suoi confini. Con ordinanza del 9 agosto 1715 il Sacro Regio Consiglio stabilì doversi redigere perizia circa l'esatta descrizione dei confini del territorio conteso. Successivamente con decreto del 14 giugno 1717, sulla base delle indagini svolte dal tavolario napoletano Onofrio Parascandolo, all'uopo incaricato, le doglianze dei Conti di Muro furono definitivamente respinte e "la montagna di Pisterola fu ritenuta come parte di quel territorio promiscuo così dichiarato dalla sentenza del 1641" perciò appartenente al demanio universale e non feudale. Il Duca di Gravina, al quale fu riconosciuto il "quasi possesso di fidare l'erba statonica", venne anche condannato a restituite quanto indebitamente esatto nel corso degli anni, durante i quali, come riporta Nicola Cianci di Leo Sanseverino, non mancò ai castelgrandesi "l'efficace e poderoso aiuto dei suoi duchi, Antonio e Luigi, e poi della duchessa Anna Caraffa, di guisa che, segnatamente contro di questa e del viceré, duca di Medina, suo marito, il conte Orsino in atti giudiziali e stragiudiziali levò altissime ed incessanti querele"[4]. Falliti tutti i tentativi di abboccamento con i Carafa della Stadera, i Conti di Muro trovarono un alleato in don Francesco d'Anna († 1714), che nel 1694 aveva acquistato i feudi di Laviano, Rapone e Castelgrande dalla Curia Regia cui erano stati devoluti a causa della morte senza eredi di Nicola María de Guzmán Carafa († 1689), figlio ed erede della duchessa Anna Carafa della Stadera. Francesco d'Anna, figlio di Pompeo (1602-1676), mercante e Regio Doganiere della Regia Dogana di Napoli che divenne ricchissimo nonché grande collezionista d'arte (possedendo nel suo palazzo alla Riviera di Chiaia opere di Caravaggio, Guercino e Rubens), il 21 luglio 1701 ottenne il titolo di I Duca di Castelgrande da Filippo V di Spagna e si mostrò da subito favorevole ad un bonario componimento della annosa lite tra Muro e Castelgrande. Il figlio secondogenito di Francesco, don Giuseppe d'Anna (1673-1754), II Duca di Castelgrande, e don Ferdinando Bernualdo Filippo Orsini d'Aragona (1685-1734), VI Conte di Muro, il 28 dicembre 1721 conclusero un accordo, confermato il 27 aprile 1722 e ratificato in Napoli il primo giugno 1723, con cui il Conte di Muro pagò 1.200 ducati all'Università di Castelgrande, di cui mille tenne per sé Giuseppe d'Anna per un vecchio credito, ottenendo in cambio 200 tomoli di terreno della montagna di Pisterola verso il confine con Castelgrande, che così rinunciava ad ogni diritto sulla montagna, facendo tuttavia salvi i diritti di promiscuità di pascolo dei castelgrandesi sugli altri demani comunali di Muro, circoscritti dal tavolario Parascandolo. Non pago dell'intesa Filippo Orsini volle sbarazzarsi delle piccole masserie e dei vari appezzamenti di terreno coltivati sulla montagna scacciandone con violenza i coloni muresi che furono quindi costretti a dissodare e a ridurre a coltura il bosco di Capomuro, suscitando le proteste dei castelgrandesi che si rivolsero nuovamente al Sacro Regio Consiglio al fine di ottenere il pagamento della quarta parte del terratico che si esigeva dall'Università di Muro, dal momento che il pascolo era ormai divenuto impossibile a causa della distruzione del bosco con frequenti incendi. La domanda di Castelgrande venne accolta dal Consiglio che nel 1757 ordinò il sequestro dei cereali raccolti e nel 1758 ne dispose la vendita. Il figlio di Filippo, Domenico II Orsini, creato cardinale nel 1743, propose all'Università di Castelgrande un accordo a tacitazione definitiva delle rispettive pretese: Muro avrebbe ceduto a Castelgrande la piena proprietà del bosco di Capomuro nonché altri 200 tomoli della montagna di Pisterola, riservandosi il diritto di poter abbeverare il proprio bestiame nella località Ladraone e dando in corrispettivo un mulino diruto nella contrada S. Angelo con facoltà di poterlo riedificare ad uso esclusivo dei castelgrandesi; Castelgrande, dal canto suo, avrebbe definitivamente rinunciato ad ogni diritto di pascolo sui demani universali di Muro, giudicati comuni dalla sentenza del 1641, e, invece della quarta parte del terratico, avrebbe ottenuto la somma di ottocento ducati. L'accordo fu accettato e poi approvato dal Sacro Regio Consiglio con decreto munito di regio assenso nel 1768[29].
Simboli
Lo stemma del Comune di Castelgrande è stato concesso con decreto del presidente della Repubblica del 13 luglio 2004.[47]
«Di azzurro, alla torre di argento, murata di nero, merlata alla guelfa di tre, finestrata di uno sotto la merlatura, di nero, munita di due marcapiani, essa torre chiusa di nero, la porta sormontata dal piccolo fiore di sei petali di argento, fondata sulla campagna diminuita di verde. Ornamenti esteriori da Comune»
Il gonfalone è un drappo partito di bianco e di azzurro.
Onorificenze
«In occasione di un disastroso terremoto, con grande dignità, spirito di sacrificio ed impegno civile, affrontava la difficile opera di ricostruzione del proprio tessuto abitativo, nonché della rinascita del proprio futuro sociale, economico e produttivo. Mirabile esempio di valore civico ed altissimo senso di abnegazione.»
— 23 novembre 1980
— 23 novembre 1980
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Origine del nome
Riepilogo
Prospettiva
Notevole è il fatto che nello Statutum de riparatione castrorum, di epoca federiciana, e fino all'inchiesta del 1273-1274[48], relativa ai beni delle donne feudatarie di Basilicata, che si erano sposate dopo la conquista di Carlo I, che mirava a chiarire se le nozze fossero avvenute con il regio assenso oppure no, Castelgrande è citato come Castellum, mentre nelle inquisitiones angioine successive viene chiamato Castrum. Se è vero che entrambi i termini indicano "villaggi fortificati d’altura", è pur vero che essi non sono sinonimi. Infatti, come evidenziato da Roberto Bernacchia: "castellum risulta prevalente nelle fonti della fase arcaica, definibile come “fase curtense” (all’incirca dal secolo X alla metà dell’XI). Pertanto il passaggio, non infrequente nel linguaggio notarile, da castellum a castrum sottenderebbe un percorso evolutivo che avrebbe portato il castello-azienda ad una crescita materiale, demografica, politica e sociale svoltasi soprattutto nel corso del secolo XII e che lo avrebbe visto perciò ampliare le funzioni dall’originario ambito economico-agricolo a quello politico-giurisdizionale"[49]. Evidentemente a Castelgrande, dopo il devastante terremoto del 18 dicembre 1273[50] (che rase al suolo buona parte della città di Potenza), si ebbe una ristrutturazione dell'impianto difensivo, che fu ampliato così assumendo una funzione amministrativa e giurisdizionale.
La seconda parte del toponimo è di origine incerta mancando fonti documentarie anteriori allo Statutum de riparatione castrorum. Nei registri angioini, fino alla fine del XIV secolo, appare nelle forme de Grandis, de Grande, Grandis (ma ancora de Grandis nel 1446 e nel 1458 ricompare - dopo circa due secoli - Castellum de Grande); successivamente prevale il tipo de Grandinis (1400), Grandinis (1442 e 1584), terra Castrigrandinis (1491 e 1614), de Glandine (1494), de grandine (1580-1583, nelle carte geografiche della Galleria vaticana), Grandine (1590 e 1693), tralasciando di considerare le forme Castro Magno riportata sulle mappe aragonesi (terzo quarto del XV secolo) e Castiello Grande (1611): la prima evidentemente frutto di paretimologia mentre la seconda adattamento della pronuncia dialettale (Castieddhrë hrannë). Giacomo Racioppi ritiene che il castello fosse detto "grande" in opposizione ad uno più piccolo posto in origine sul vicino monte La Guardiola[51] (dove è presente il toponimo Palazzùlë, dal lat. palatiolum) e poi scomparso. Più recentemente Angelo Racaniello[9] e Francesco Masi[5] hanno invece avanzato l'ipotesi che il toponimo sia da ricondurre alla famiglia Grande o de Grandis, di cui si ha notizia in concomitanza con le più antiche menzioni del comune.
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Monumenti e luoghi d'interesse
Riepilogo
Prospettiva
Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli.
Isolata in fondo alla valle posta a Sud-Est di Castelgrande, da cui dista circa un chilometro, lungo la via che in antico conduceva a Capodigiano (rectius: Capitignano) e a Bella, e lambita dalle acque fredde di un ruscello, si trova la piccola chiesa extra moenia dedicata alla Madonna di Costantinopoli. Nulla si conosce circa l'origine del tempio. In assenza di una precisa documentazione d’archivio l'analisi della datazione della costruzione può solo fondarsi sull’esame delle strutture dell’edificio. Si tratta di un tetraconco con base quadrangolare avente un'abside di eguali dimensioni su ciascuno dei lati, separati dai quattro pilastri angolari che sorreggono una bassa copertura circolare che ha preso il posto di un tiburio ottagonale, crollato a causa del terremoto dell'8 settembre 1694. Questa tipologia di pianta a croce inscritta, molto comune nell'architettura bizantina, fu ripresa in Italia durante l'Alto Medioevo e venne destinata non solo alla fondazione di chiese ma anche di mausolei e battisteri come testimoniato sia da edifici di culto altomedievali di area pugliese (come la Basilica di San Leucio a Canosa) sia dai battisteri di area padana del IX-XI secolo (battistero di S. Giovanni Battista a Biella; battistero di S. Giovanni Battista a Galliano; battistero di S. Giovanni Battista a Mariano Comense; battistero di Concordia Sagittaria) sia dalle misteriose chiese di S. Maria a Vico di Giffoni[52] e di S. Caterina d'Alessandria di Conversano[53], la prima di incerta e la seconda di controversa datazione, per poi essere progressivamente abbandonata con l'avvento del romanico. Notevole è la presenza di un foro gnomonico che nelle prime ore del solstizio d'inverno (21 dicembre) permette alla luce solare di illuminare un preciso punto dell'altare. Il significato rituale della direzione solstiziale “Versus Solem Orientem” rimanda alla nascita di Gesù, che si ritenne avvenuta proprio in vicinanza della data del solstizio d'inverno. La fondazione della struttura originaria, quindi, dovrebbe porsi nel periodo altomedievale, obbedendo ai principi affermati dal Concilio di Nicea I (325). A poca distanza dalla cappella, e in un'epoca imprecisata, fu edificata una chiesa ad aula unica con abside, i cui resti sono di recente emersi a seguito di indagini archeologiche[54].
L'epoca della intitolazione del tempio alla Vergine di Costantinopoli, invece, appare meno incerta. Al di sotto della icona che si venera è riportata una iscrizione che recita: "Ad honorem Gloriosiss. Virginis Marie Constantinopolis sacellum hoc ad devot. Universitatis Terre Castrigrandinis tempore prioratus Anton. X. Ciancia de mense Novembris Mill.etsexcentsm. x quarto et elemosina ampliata est ob magna d.e". Viene quindi rivelato che nel 1614 la cappella fu ampliata, con denaro raccolto tra il popolo di Castelgrande per grande devozione al tempo del priorato di Antonio Saverio Cianci. I lavori di ampliamento non furono di breve durata se è vero che in un testamento del 14 settembre 1603 un tale Giovanni Alfonso Salerno manifestava la volontà di essere sepolto nella cappella laddove i lavori fossero stati ultimati[5]. Nella bolla del 20 agosto 1491, con cui il Vescovo di Muro, Antonio Nicola De Piscibus, autorizzò la costruzione di un altare all'interno della chiesa di Santa Maria Assunta, a quest'ultima ci si riferisce come "ecclesia Sanctae Mariae"[40], il che autorizza l'inferenza che all'epoca a Castelgrande ci fosse una sola chiesa intitolata alla Madonna e cioè quella di Santa Maria Assunta, diversamente sarebbe stato necessario specificarne il titolo ovvero l'ubicazione. L'intitolazione, quindi, è successiva al 1491 ma anteriore al 1603. Tuttavia è possibile restringere ulteriormente il dato temporale. Infatti, nell'estate del 1528 Odet de Foix conte di Lautrec cinse d'assedio Napoli trovandovi la morte a causa di un'epidemia di peste che egli stesso aveva contribuito a scatenare. L'anno seguente a Napoli si verificò un evento prodigioso, così riportato nelle cronache: "Nello mese di giugno di questo anno 1529, il terzo giorno di Pasca Rosata (martedì di Pentecoste), fu ritrovata vicino alle mura della città di Napoli una immagine della Madonna Santissima Madre di Dio, per rivelazione de una vecchierella, che abitava là vicino, alla quale fu promesso dalla Madre di Dio il fine della peste, come si vide con effetto; et perciò la Città di Napoli diede principio subito ad edificare una Chiesa a detta Immagine, con lo titolo di Madonna di Costantinopoli, et si spera, che la protegga da detto morbo per l'avvenire in ogni tempo futuro. E non solamente la Madonna di Costantinopoli liberò Napoli dalla peste, ma anco dalla guerra…"[55]. Nacque quindi una confraternita laicale, che ricostruì come ex voto una piccola e fatiscente cappella dedicata alla Vergine che sorgeva fuori le mura della città, ai piedi della collinetta di Caponapoli; al suo interno era custodita l'icona raffigurante la Madonna di Costantinopoli. Papa Clemente VII, con una bolla del 31 marzo del 1531, sancì la nascita del sodalizio e della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. Da Napoli il culto della Madonna di Costantinopoli, invocata per scongiurare epidemie, carestie e terremoti, si diffuse rapidamente in tutto il Regno.
Il prof. Angelo Racaniello riporta la leggenda di fondazione della cappella: "A Castelgrande si narra che la Vergine apparve in località "Vallone vivo", vicino ad una sorgente, ad un gruppo di persone che venivano da lontano per sfuggire ad un cataclisma che aveva distrutto le loro case. I fuggiaschi trovarono il luogo accogliente e si fermarono. Successivamente, per adorare la Madonna che era loro apparsa, fecero una rozza scultura di legno e decisero di costruirle una chiesa in un bosco di querce poco distante. La costruzione era già a buon punto, quando una mattina, gli operai addetti ai lavori, la trovarono crollata. II giorno seguente la Madonna apparve ad alcuni pastori ai quali disse che voleva la chiesa nel luogo dove era apparsa: vicino alla sorgente. I pastori parlarono con i costruttori ma questi non tennero conto della richiesta e cominciarono a ricostruirla nello stesso luogo perché il terreno era più solido. Era quasi ultimata quando crollò di nuovo. La Madonna riapparve ai pastori e rifece la richiesta aggiungendo che, se l'avessero costruita vicino alla sorgente, non sarebbe più crollata. I pastori riferirono a chi di dovere la sua volontà e finalmente la ricostruirono dove si trova tuttora"[56]. La successione ravvicinata dei due crolli richiama il terremoto del 1561, in cui si susseguirono due violente scosse: la prima il 31 luglio, con epicentro a Buccino, e la seconda il 19 agosto, con epicentro a Polla. I lavori di riedificazione della cappella (si disse "ampliamento" perché sul lato meridionale fu aggiunto un romitaggio), che si svolsero nel clima di rinnovamento spirituale della controriforma, si resero necessari perché vi fosse custodita, sull'esempio di quanto accaduto a Napoli, un'icona della Madonna probabilmente realizzata da profughi fuggiti dall'Albania o dal Montenegro, al tempo dell'occupazione ottomana (tra l'ultimo quarto del XV secolo e il primo del XVI secolo)[57].
La Vergine Maria di Costantinopoli viene celebrata a Castelgrande ogni anno con una solenne processione nel martedì dopo Pentecoste, cioè il terzo giorno di Pasca Rosata.
Chiesa Madre di Santa Maria Assunta.
La chiesa matrice ricettizia di Castelgrande, dedicata all'Assunzione di Maria (la dormitio virginis) e posta a ponente del centro storico, crollò solo in parte a causa del sisma del 1980. L'edificio avrebbe potuto essere restaurato conservando la struttura originaria e le testimonianze del passato ed invece fu dapprima raso al suolo completamente e poi fu ricostruito in cemento armato ad eccezione della facciata, che era stata rinnovata nel 1933 (in seguito ai danni riportati a causa del sisma del 23 luglio 1930), e del campanile, consolidato e rimaneggiato nelle forme attuali dopo il terremoto del 7 giugno 1910. La chiesa fu spogliata di tutti i suoi beni: ciò che poteva essere venduto fu asportato mentre tutto il resto fu distrutto[5]. Oggi, quindi, è possibile avanzare qualche ipotesi sulle origini del tempio unicamente sulla base delle ricerche condotte in passato dagli storici locali.
In origine la chiesa, a pianta rettangolare priva di transetto, aveva una navata unica con altari sui lati. Francesco Masi riferisce che la chiesa esisteva già nell'anno 1400 come attestato da una lastra di pietra posta sul pavimento che indicava la sepoltura della famiglia Gasparrini[5]. Le origini del tempio, però, sono sicuramente più remote a giudicare dalla caratteristica accuratamente equinoziale dell'orientamento della costruzione. Infatti, il criterio con cui il tempio fu orientato sembra essere il "Sol Aequinoctialis" fortemente raccomandato da Gerberto d'Aurillac salito al soglio pontificio, nel 999, con il nome di Papa Silvestro II e ribadito successivamente negli scritti di Guglielmo Durante, vescovo del XIII secolo[58]. La chiesa, quindi, potrebbe essere stata eretta durante un periodo appena successivo alle prescrizioni di Guglielmo Durante (1230-1296), negli anni in cui il feudo di Castelgrande apparteneva alla famiglia Pipino, quando le orientazioni equinoziali risultano essere molto frequenti, salvo ritenere l'esistenza di un edificio di culto ancora più antico, risalente a qualche tempo dopo le indicazioni di Silvestro II, e in questo caso la datazione retroagirebbe all'XI secolo. Si può credere che in seguito all'edificazione della chiesa il centro della vita religiosa e pubblica si spostò gradualmente dalla parte orientale, dove si trovavano la chiesa di San Michele (di cui oggi resta solo il toponimo), lo spazio riservato ai pubblici parlamenti (di cui resta il toponimo: lə mahərəsuiglə "il malconsiglio[59]") nonché la cappella di San Giovanni (che in origine doveva essere un battistero), alla parte occidentale del Castrum.

Se l'orientamento equinoziale della struttura sembra coerente con il periodo di fondazione, ciò che è davvero singolare è l'apertura del portale d'ingresso sul lato orientale anziché su quello occidentale, come ci si aspetterebbe. Angelo Racaniello spiega questa incongruenza riferendo di un decreto del 20 agosto 1491 con cui il Vescovo di Muro, Antonio Nicola De Piscibus, autorizzò Andrea De Johanne de Rapolla, Angelo Longhi, Donato Carusi e Pietro Pansera de terra Castrigrandinis, che ne avevano fatto richiesta, ad edificare, all'interno della chiesa, un altare intitolato alla SS. Trinità "in dextero latere justa Cappellam S. Antonii de Padua"[40]. Quando il 7 gennaio 1689 Nicola María de Guzmán Carafa morì senza eredi si aprì una delle maggiori cause di devoluzione dei feudi alla Corona di fine Seicento. La Regia Camera ordinò con decreto l'apprezzo dei beni del defunto don Nicola María perché fossero soddisfatte le ragioni dei creditori mediante incanti. Il 12 gennaio 1693 venne eseguito l'inventario della baronia di Laviano, Rapone e Castelgrande e, con riguardo alla descrizione della Chiesa Madre di Santa Maria Assunta di Castelgrande, si diede atto che "in detta nave sono tre archi a mano sinistra con tre altari, uno della Trinità"[60]. Tutto questo conduce ad affermare che l'orientamento della chiesa subì una inversione con l'apertura del portale di ingresso sul lato orientale e la chiusura di quello originario, posto sul lato occidentale dove fu sistemato il presbiterio. Ciò accadde nel 1631, come riportato sull'architrave della porta secondaria di accesso, che si apriva sul lato posto a settentrione, oggi non più esistente: "haec est domus Domini firmiter aedificata bene fundata est super firmam petram Anno Domini 1631". Probabilmente in quegli stessi anni dovette essere innalzato il campanile, come pare desumersi dalla data di acquisto della campana più antica (1643)[5]. La chiesa fu riedificata ex novo dopo il terremoto del 1561 che evidentemente ne aveva compromesso l'agibilità.
Nella descrizione del 1693 è riportato che sul lato destro della navata si trovava l'altare dell'Immacolata Concezione, con una sua Congregazione, e che "sotto detta chiesa vi è il Monte de' Morti con una cappella". Il vescovo di Muro, Giovanni Carlo Coppola, con bolla del 19 ottobre 1651 aveva sancito la nascita della Confraternita dell'Immacolata, con l'osservanza delle regole della Compagnia del Gesù di Napoli. Il 10 aprile 1660 il nuovo vescovo, Ascanio Ugolini, concesse all'Università di Castelgrande, che ne aveva fatto richiesta, di eleggere l'Immacolata Concezione a sua patrona e protettrice e di solennizzare l'evento con una festa nel giorno 8 dicembre di ogni anno. Negli anni seguenti, però, le due cappelle si scambiarono il posto: infatti, nell'inventario del 1728 la sottostante cappella (prima intitolata al Sacro Monte dei Morti) risultava dedicata all'Immacolata Concezione nonché sede della relativa congrega. La cappella dell'Immacolata Concezione, nella sua nuova sistemazione nell'ambiente sottostante il lato meridionale della chiesa, fu benedetta nel 1732 dal vescovo di Muro, Domenico Antonio Manfredi: in essa si venerava una statua della Madonna che, secondo una leggenda popolare, giunse per caso a Castelgrande su un carro trainato da una coppia di buoi; nell'avancorpo della Cappella vi era, inoltre, un busto ligneo raffigurante Sant'Adone, al cui interno era custodita una reliquia donata alla congrega da padre Simpliciano da Castelgrande che l'aveva ricevuta dal duca di Calabritto Vincenzo d'Estouteville-Tuttavilla (1608-1678)[61]. Quanto alla cappella del Sacro Monte dei Morti, la cui prima notizia risale al 1683[5], lasciato il vano sottoposto, fu dapprima sistemata all'interno della chiesa matrice, sul lato destro della navata, e successivamente trasferita in una piccola chiesa che, costruita alle spalle della chiesa matrice nel 1736, veniva chiamata dal popolo "chiesa del Purgatorio", per via di un quadro posto sull'altare che raffigurava la Madonna del Carmine che sovrastava le anime del Purgatorio. La cappella, sede di particolari funzioni in suffragio dei defunti, venne demolita nel 1954 a causa del pessimo stato di conservazione.
A seguito del violento terremoto dell'8 settembre 1694 la Chiesa Madre di Santa Maria Assunta riportò notevoli danni tanto da essere pericolante. Si impose, quindi, l'esecuzione di molteplici interventi di ristrutturazione - probabilmente complicati dal terremoto del 29 novembre 1732 - che si conclusero solo nel 1735, quando fu riaperta al culto dal vescovo di Muro, Domenico Antonio Manfredi, che poi il 12 marzo 1737 consacrò i nuovi altari in marmo, che avevano sostituito quelli preesistenti in muratura. Il 9 aprile 1853 la terra tremò nuovamente con epicentro a Caposele, a soli 25 km da Castelgrande: nel 1867, reperiti i fondi necessari, si diede incarico all'ing. Grippo di redigere il progetto per la ristrutturazione ed il maggior decoro della Chiesa Madre. I lavori si conclusero nel giro di pochi anni.
Il Casale.
Posto all'esterno della porta meridionale e corrispondente agli attuali rioni Croce e Borgo, il Casale sorse verosimilmente nel corso della seconda metà del XIV secolo per sinecismo conseguente alla distruzione di quelli più antichi durante la campagna militare di Luigi I d'Ungheria (1347-1352). La sua esistenza è attestata per la prima volta da un documento notarile del 19 marzo 1485 in cui si apprende che Giovanni Antonio de Rao di Eboli, capitano di Castelgrande, e Saccono[62][63] di Castelgrande per parte di Pirro d'Alemagna acquistarono da Maffia, moglie di Silvestro de Pirro di Bella, una casa nel luogo detto "fiyoccha la Porta de Casale novo"[32]. La porta meridionale, proprio perché prossima al casale, venne chiamata "Porta de Casale novo".

Nel 1617, su di un poggio tufaceo posto a breve distanza dalla porta meridionale e nei pressi di un'area pianeggiante, venne eretta una colonna dell'Osanna. Nel 1833, viste le sue precarie condizioni, il Decurionato deliberò che fosse smantellata e riedificata fuori dell'abitato, precisamente nel Borgo considerato "luogo più proprio". Dopo il 1833 l'area, sistemata per ridurre il declivio della strada, si chiamò Largo Croce e Piazza nuova e successivamente, nel 1870, venne intitolata al principe Amedeo di Savoia. Nel 1900 la piazza venne intitolata a Dante Alighieri e nel punto dove un tempo si trovava la colonna fu posto a dimora un abete che nel 1967 fu sostituito da un busto di bronzo dedicato a Guglielmo Gasparrini, scienziato nativo di Castelgrande, in occasione del centenario dalla morte[40]. Dopo il 1617 la porta meridionale fu detta "Porta della Croce". Infatti, nell'inventario del 12 gennaio 1693, redatto per la vendita agli incanti dei beni del duca Nicola Maria de Guzman Carafa, deceduto senza eredi, si legge: "venendo in detta Terra dalla parte di basso, prima si ritrova il Casale dove sta la croce di Pietra forte del paese, dove si fa la processione la Domenica delle Palme, poco distante vi è la Taverna per comodità de' passeggeri; ed entrando per la Porta della Croce, si trovano l'abitazione de' cittadini".
Oltrepassata la Porta della Croce, a mano sinistra tuttora si trova una casa palaziata che un tempo appartenne alla famiglia patrizia dei Carusi, oggi estinta. Sul muro dell'abitazione rivolto a settentrione, lungo il quale corre una ripida e stretta scalinata che conduce attraverso il Portello (lë përtieddhrë) alla Chiesa Madre, un tempo si apriva - caso più unico che raro al di fuori della Toscana - una buchetta del vino, successivamente murata, incorniciata da un'iscrizione che recitava: congregati sunt contra me nunc bibite et requiescite[64] ("si sono riuniti di fronte a me ora bevete e riposate").
Nell'inventario del 12 gennaio 1693 viene riportato che: "al Casale vi è l'altra Cappella di S. Antonio, ed un'altra di S. Sebastiano"[60]. La piccola chiesa extra moenia dedicata a Sant'Antonio da Padova, oggi scomparsa, si trovava a valle della porta meridionale da cui distava un centinaio di metri. Come la Chiesa Madre, anche la chiesa di Sant'Antonio da Padova subì l'inversione dell'orientamento con apertura del portale d'ingresso sul lato orientale e chiusura di quello originario posto a ponente, probabilmente a seguito della costruzione, nel XVIII secolo, della attigua casa palaziata in cui venne incorporata. Secondo Francesco Masi, in origine la chiesa dovette essere dedicata a Sant'Antonio Abate[65] come sembra evincersi da un documento del 1664 e dal fatto che fino agli inizi del '900 vi si custodiva un quadro del santo, poi traferito nella chiesa di San Vito[5]. In ogni caso, la prima attestazione dell'esistenza della chiesa risale ad un atto notarile del 25 settembre 1661 in cui si fa riferimento al Casale nuovo di Sant'Antonio[5]. Nel 1539 il Vescovo di Muro, Matteo Griffoni Pioppi, concesse a Pellegrino, Pietro, Paolo e Cristoforo de Sanctis il giuspatronato sulla cappella di S. Antonio da Padova, che allora si trovava all'interno della Chiesa Madre. La famiglia de Sanctis, inoltre, con bolla del 2 novembre 1555, ottenne dal Vescovo di Muro, Silverio Petrucci, il giuspatronato anche sulla cappella di San Bernardino, che, come riporta Francesco Masi, nel 1657 si trovava all'interno della chiesa di Sant'Antonio da Padova[5]. Nel 1611 Angelo, Scipione, erede di Marcello e Ottavio, Giovanni Berardino, Giovanni Battista, gli eredi di Giulio e Giandonato, Agostino, Marino, gli eredi di M. Antonio, gli eredi di Guglielmo e Pellegrino de Santo, che avevano da molti anni un diritto di patrocinio sulla Cappella della Visitazione (o Santa Maria delle Grazie) nella Chiesa Madre di Castelgrande, non essendo stata registrata la bolla vescovile ed avendo perso l'atto di fondazione, rivolgevano una supplica al Vescovo di Muro perché ne fosse confermato il patronato. Con bolla del 1612 il Vescovo di Muro, Tomeo Confetti, accedendo alla richiesta rivoltagli, confermava il giuspatronato, come del resto riportato nella descrizione contenuta nell'inventario del 1693. Le cappellanie della Madonna delle Grazie (o della Visitazione), di San Bernardino (o San Berardino) e di Sant'Antonio da Padova erano tre benefici di cui avevano diritto di patronato i membri della famiglia De Sanctis, antica famiglia patrizia di Castelgrande. In origine erano tutti nella Chiesa Madre e ciascuno amministrato, secondo le regole stabilite in origine, da sacerdoti discendenti dai rispettivi fondatori. Il 21 novembre 1666 i tre benefici furono tutti assegnati a don Lucio De Sanctis. Nel 1701 il Vescovo di Muro, Alfonso Pacelli, fuse i due benefici di Sant'Antonio da Padova e di San Bernardino facendone uno solo, posto nella chiesa extra moenia di Sant'Antonio da Padova; mentre il beneficio della Madonna della Grazia (o della Visitazione) restò nella Chiesa Madre. Dal Catasto Onciario si apprende che nel 1753 i benefici appartenevano entrambi a don Leonardo De Sanctis[40]. Nel 1800 i due benefici restarono vacanti e insorsero delle dispute per la nomina dei due successori: alla fine si raggiunse l'intesa che al ramo De Sanctis sarebbe spettato il beneficio della Madonna della Grazia (o della Visitazione) nella Chiesa Madre, mentre al ramo Lisanti quello di Sant'Antonio da Padova e di San Bernardino nella chiesa di Sant'Antonio da Padova, poi mantenuto fino al 18 novembre 1884 quando morì l'ultimo cappellano, don Isidoro Lisanti.
Ai piedi della ripida salita che porta verso la porta della Croce e nei pressi della scomparsa chiesa di Sant'Antonio da Padova tuttora si trova il Palazzo Ducale, edificato nel corso del primo quarto del XVIII secolo per volontà del Duca Francesco d'Anna e di suo figlio don Giuseppe d'Anna. Attualmente l'edificio, che presenta una pianta quadrangolare con al centro un ampio cortile, è in gran parte inagibile per i danni patiti in occasione del terremoto del 1980, ad eccezione di una porzione del lato meridionale che è stata oggetto di inappropriati interventi di ricostruzione nel corso degli anni '90. Il 23 novembre 1980, a causa di un crollo, vi morì tragicamente Michele Federici, arcivescovo di Crotone e S. Severina, che il 21 dicembre 1973 era stato nominato vescovo delle due diocesi di Veroli-Frosinone e di Ferentino, che così furono unite in persona episcopi.
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Società
Evoluzione demografica
Demografia antica[66]

Abitanti censiti[67]

Cultura
Riepilogo
Prospettiva
Osservatorio astronomico
7 km a nord dell'abitato del comune, sul monte Toppo di Castelgrande, si trova l'Osservatorio astronomico di Castelgrande, sul territorio del quale si trovano:
- L'osservatorio filiale dell'Osservatorio astronomico di Capodimonte (Napoli), anche noto come l'Osservatorio astronomico TT1; telescopio ottico TT1 di 154 cm di diametro; l'attività sospesa dal 2012.
- L'osservatorio ISON-Castelgrande (codice MPC – L28) coordinato dalla collaborazione fra l'azienda italiana G.A.U.S.S. e l'Instituto Keldysh di Matematica Applicata dell'Accademia russa delle scienze; fa parte della rete internazionale degli osservatori ISON; telescopio ottico di 22 cm di diametro; costruito nel 2014, attivo dal 2017; dal 2020 è membro della rete internazionale IAWN, creata dal Comitato delle Nazioni Unite sull'uso pacifico dello spazio extra-atmosferico.[68][69]
- La stazione dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia per il monitoraggio dell'attività sismica.
- La stazione dell'Centro di geodesia spaziale Giuseppe Colombo per il supporto del sistema di posizionamento e navigazione satellitare GPS.

Cammino delle fiabe e delle stelle
Castelgrande è inserito nel percorso del Cammino delle fiabe e delle stelle[70] che attraversa anche i Comuni di Rapone, Bella e Balvano[71].
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Amministrazione
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Note
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni
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