Timeline
Chat
Prospettiva
Stele di Nora
blocco in pietra arenaria recante un'iscrizione che la maggior parte degli studiosi ritengono eseguita in alfabeto fenicio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Remove ads
La stele di Nora è un blocco in pietra arenaria recante un'iscrizione che la quasi totalità degli studiosi ritiene eseguita in alfabeto fenicio.
Fu rinvenuta nel 1773 da Giacinto Hintz, professore di Sacra Scrittura e Lingua ebraica / lingue orientali all'Università di Cagliari, inglobata in un muretto a secco di una struttura appartenente all'ordine dei mercedari in prossimità dell'abside della chiesa di sant'Efisio a Pula, centro urbano situato nella Sardegna meridionale che trae origine dall'antica città di Nora.[1][N 1] Il ritrovamento fuori dal suo contesto archeologico originale limita al suo contenuto le informazioni ricavabili dal documento. Conservata nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, la stele svela il primo scritto fenicio mai rintracciato a ovest di Tiro: la sua datazione oscilla tra i secoli IX e VIII a.C.[2][3][4][5][6][7][8][9][10][11][12][13] Il documento epigrafico è stato pubblicato all'interno del Corpus Inscriptionum Semiticarum sotto il numero CIS I, 144 e nei Kanaanäische und Aramäische Inschriften sotto il numero KAI 46.
Remove ads
Il contesto storico
Riepilogo
Prospettiva
Come scrisse l'archeologo Ferruccio Barreca:[14]
«Con la colonizzazione fenicio-punica, sfociata nell’integrazione fra il mondo etnico-culturale protosardo e quello fenicio-punico,entrarono e si diffusero in Sardegna l’organizzazione urbana (…), un’economia aperta, di tipo cittadino prima e nazionale poi, la moneta, la scrittura alfabetica e, nel campo della cultura spirituale, una delle più alte espressioni del pensiero religioso elaborate dall’umanità»
Dopo una sporadica presenza fenicia nel Mediterraneo occidentale, iniziata attorno all'XI secolo a.C., nell'VIII secolo a.C., mentre la civiltà nuragica viveva la sua massima espansione, si nota in Sardegna uno sviluppo dei centri costieri che ben presto diventarono vere e proprie città.[15] I Fenici, oltre che in Africa, si insediarono sulle coste della Sardegna e nell'area occidentale della Sicilia.[16]

|I villaggi nuragici costieri, situati nel meridione dell'isola, furono i primi punti di contatto tra i commercianti fenici e gli antichi Sardi. Questi approdi costituivano dei piccoli mercati dove venivano scambiate varie mercanzie.[N 2] Con il costante prosperare dei commerci, i villaggi si ingrandirono sempre di più, accogliendo stabilmente al loro interno l'esodo delle famiglie fenicie in fuga dall'attuale Libano. In questa terra, esse seguitarono a praticare il loro stile di vita, i loro propri usi, le proprie tradizioni e i loro culti di origine, apportando in Sardegna nuove tecnologie e conoscenze. Tramite matrimoni misti e un continuo scambio culturale, i due popoli coabitarono pacificamente e i villaggi costieri divennero importanti centri urbani, organizzati in maniera simile alle antiche città-Stato delle coste libanesi.[17] I primi insediamenti sorsero, tra gli altri, a Karalis,[18] a Nora,[19] a Bithia,[20] a Sulci nell'isola di Sant'Antioco[21] e a Neapolis presso Guspini.[22][N 3]
Come affermò Gian Franco Chiai, professore all'Università libera di Berlino:[23]
«non sempre da parte dei coloni si deve presupporre un atteggiamento di totale rifiuto nei confronti delle lingue locali. Lo prova [...] la presenza del termine SRDN nella suddetta stele in riferimento alla Sardegna. Ciò significa [...] che i Fenici erano consapevoli tra il IX-VIII sec. a.C. che la denominazione epicorica dell'isola era SRDN e questo potevano averlo appreso forse direttamente dagli abitanti del luogo. Sarebbe poi lecito supporre, ma questo solo in una seconda fase, che assimilato il nome, lo avessero poi adattato alla loro lingua. I Fenici nella fase precoloniale avrebbero preso contatto con le realtà locali utilizzando non solo interpreti, ma anche, quando serviva, apprendendo loro stessi i rudimenti della lingua del posto, anche in seguito ad unioni con le donne indigene. Ad ogni modo, il fatto stesso che la maggior parte dei toponimi dei centri fenici dell'isola sia di matrice locale, presuppone comunque un atteggiamento positivo e pacifico nei confronti delle popolazioni del posto e della loro lingua,in relazione ad una volontà di integrarsi nell'ambiente, rispettando in primo luogo le denominazioni indigene. Il dato linguistico in questo caso si integra bene con quello storico-archeologico.»

In passato si riteneva che la Stele di Nora testimoniasse essa stessa l'esistenza di un centro urbano fenicio o sardo-fenicio. Recenti ricerche archeologiche hanno però postdatato la necropoli, il Tophet e il quartiere artigianale alla fine del VII secolo e alla prima metà del VI a.C..[24] La Stele, la cui datazione come si è detto è di circa due secoli antecedente, andrebbe pertanto contestualizzata all'interno di un centro protourbano, un emporio, un centro di scambi commerciali, segnato non solo dalla presenza di popolazioni fenicie o indigene.[N 4]
Remove ads
Le teorie
Riepilogo
Prospettiva
Gli studiosi non sono concordi sulla lettura epigrafica del testo e la sua traduzione.[25] Infatti a causa dello stato di conservazione, è possibile leggere con chiarezza circa metà delle lettere, mentre l'altra metà nonostante il competente intervento degli epigrafisti, rimane dubbia: il colore rosso o violetto è stato tracciato, talvolta con errori, nell'Ottocento, nel tentativo di facilitare la lettura. Un ulteriore problema è rappresentato dall'assenza di divisioni tra le parole, questione che complica l'interpretazione anche delle parti più chiaramente leggibili come alla linea 1 con btršš che può significare "in Tarsis" o bt rš š che può significare "tempio del capo di".[26] Infine una parte minoritaria degli studiosi ritiene che si tratti della parte minore (ed unica parte sopravvissuta) di un'iscrizione molto più lunga, distribuita su più pietre,[27] sebbene manchi un consenso generale al riguardo.[28]
Interpretazioni passate fino alla seconda guerra mondiale

L'orientalista Giovanni Bernardo De Rossi, sulla base di un disegno ricco di imprecisioni inviatogli da Hintz[29][30], scrisse nel 1774 che la stele indicava un sepolcro. Secondo quanto affermò lo stesso De Rossi:[1][31]
«Sosimo straniero, che ivi avea fissato la sua tenda nella sua vecchiaja consumata, ed al quale il suo figlio Lehmanno o Lemano principe forastiero consacrò quel ricordo, deponendolo nell'orto sepolcrale»
La sua traduzione latina del testo era la seguente:
Il generale piemontese La Marmora, lamentandosi della copia fatta da Hintz, si prodigò affinché l'iscrizione potesse venire studiata adeguatamente dagli esperti. A tal riguardo egli scrisse:[32]
«sia quando la pietra faceva ancora parte del muro di Pula, sia dacchè è stata collocata nel museo di Cagliari, abbiamo usato i mezzi ritenuti migliori per cavarne dei fac-simile esatti e siamo certi che il calco portato da noi stessi a Torino nel 1831 offre tutte le garanzie di fedeltà desiderabili.»

Nel 1834 l'abate Giovannantonio Arri propose, sulla base del calco di La Marmora, la seguente trascrizione, traduzione e interpretazione:[33]
Secondo l'abate si trattava di un'iscrizione votiva in onore dell'eroe eponimo della Sardegna, cioè Pater Sardon. La stele riportava che il pio padre Sardon era salpato da Tarshish, per raggiungere finalmente la fine del suo viaggio, al che ordinò di scrivere una lapide a Nora, che si supponeva fosse davanti alla città africana di Lixus.

In risposta ad Arri, Wilhelm Gesenius pubblicò una sua alternativa trascrizione e traduzione della Stele nel 1837.[34] Egli riteneva che si trattasse di una stele sepolcrale e che si riferisse alla casa del Pater Sardorum con un invito a portare la pace al regnante Ben-Rosch, figlio di Nagid, il quale era il dedicante. Gesenius dava per certo il nome del dedicante, anche se espresse alcuni dubbi sul gentilizio finale L-ensis, riferito a Ben-Rosch. La sua trascrizione e traduzione è la seguente:
Nel luglio dello stesso anno le edizioni di Gesenius e di Arri vennero comparate dall'orientalista tedesco Franz Ferdinand Benary. Benary escluse categoricamente la presenza del Sardus Pater e dette per certa la lettura di Tartesso nella prima linea. Inoltre egli espresse dei dubbi solo sulla lettura della parte finale della stele, che a suo dire poteva essere tradotta in due modi differenti a seconda che si prendesse in considerazione o meno l'esistenza di un simbolo che sembrava essere inserito in alcune lettere, e che avrebbe potuto servire a mettere in evidenza un nome o una località propriamente detta:[35]
Nella prima traduzione Benary non tenne conto dell'esistenza del simbolo e in tal caso ritenne di avere di fronte un decreto in cui si specificava, per ordine espresso, che chiunque fosse stato espulso da Tartesso sarebbe stato al sicuro in Sardegna, e sarebbe entrato in quel regno sano e salvo, sia che fosse povero o principe. Nella seconda traduzione tenne conto del simbolo e in tal caso si tratterebbe di un titolo sepolcrale che augura la pace a Malchiten, il quale fu esiliato da Tartesso in Sardegna.
Nel 1838 è il tedesco Wurm nella sua recensione dell'opera di Gesenius a esprimere diverse perplessità in merito al lavoro fatto riguardo alla Stele.[36] Secondo lo studioso due letture alternative sarebbero ugualmente possibili, una più vicina a Gesenius e una ad Arri. Egli propose quindi due traduzioni:

Nel 1842, recensendo l'opera di Gesenius, il francese Quatremère si dichiara insoddisfatto di tutte le edizioni fino a quel momento proposte del testo e a sua volta si cimenta nel tentativo di lettura e traduzione.[N 5] La sua proposta è la seguente:

Secondo Quatremère sarebbe necessario integrare alcune lettere lateralmente che sarebbero venute a mancare per un danneggiamento della stele. Inoltre secondo lo studioso la Stele si riferirebbe più probabilmente a individui nati in Sardegna e il paese che etimologicamente più si avvicina alla forma scritta nella stele sarebbe Usellus, già abitato fin dall'età nuragica e noto in età romana col nome di Uselis.
Pochi anni dopo nel 1849 l'orientalista tedesco Franz Karl Movers, pur mantenendo una lettura alfabetica simile a quella di Gesenius e differenziandosene unicamente per le divisioni tra le parole, riuscì ad ottenere una traduzione abbastanza simile a quella di Quatremère:[N 6]
Già a metà ottocento le differenti letture e interpretazioni della Stele creavano confusione tra gli studiosi che volevano unicamente utilizzare il documento senza entrare nel merito di questioni epigrafiche.[37][N 7]

Nel 1855 si inserì nel dibattito anche Francesco Bourgade, il quale propose la seguente originale trascrizione e traduzione:
Nel 1860 il gesuita Raffaele Garrucci affermò di essere a conoscenza di almeno quattro edizioni edite e una rimasta inedita[N 8] e ne propose a sua volta una nuova fondata su quella di Gesenius nella lettura dei caratteri ma distante nella traduzione:[38]
Secondo Garrucci si tratterebbe dunque di un monumento funebre. La Stele, come egli scrisse:[39]
«[...] è scritta con alfabeto asmoneo, e che appartiene ad un principe di Nora di nome Rosch figlio di Nagid, che meritò l'appellazione di Padre dei Sardi, il cui figliuolo chiamato Milchato pose il monumento con l'elogio»
Nel 1869 l'orientalista Heinrich von Maltzan si lamentò della confusione segnalando che al tempo erano note non meno di 14 differenti letture e interpretazioni della Stele. [N 9] Egli cercò di mettere ordine nella faccenda sostenendo l'esistenza di due "scuole" di pensiero: una dei seguaci di Gesenius, che interpretata la Stele come iscrizione sepolcrale, e una per lo più "italiana", che vedeva nella Stele un monumento commemorativo o un memoriale, cosa che lo renderebbe a suo dire il primo caso noto di simili documenti per il mondo fenicio.[N 10] Egli seguì quindi Gesenius proponendo solo qualche modifica (in particolare prime due lettere della seconda linea - un Qoph e un Waw - e nelle ultime due della ottava linea - un Mem e un He -) alla sua trascrizione e traduzione:
Nel 1941[N 11] l'archeologo americano William Foxwell Albright ha ritenuto che l'iscrizione (distribuita forse su più pietre per un'altezza che doveva raggiungere almeno i due metri e sopravvissuta ad oggi solo nella sua parte in basso a destra) andasse fortemente integrata e interpretata come un decreto cittadino di ostracizzazione:[40]

Commemorazione di una spedizione
Nel 1972 l'orientalista J. Brian Peckham propose la sua interpretazione militare ritenendo la Stele completa e traducendo il testo:[41]
Nel dicembre dello stesso anno Frank Moore Cross, professore all'Università di Harvard, pubblicò un articolo in risposta a Peckham, riprendendo alcuni punti dello studioso ma distanziandosene in altri; egli ritiene ad esempio che nel testo non si parli di Tartessos, in Andalusia, ma di Tarsis in Sardegna. Inoltre afferma che nell'interpretazione del verbo grš andrebbe privilegiato il suo significato militare di "scacciare" rispetto a quello marittimo di "essere trascinato/condotto".[42] Infine ritiene che Milkaton sarebbe un comandante di Pumayaton di Tiro (831-785 a.C.), conosciuto presso i greci come Pigmalione, qui presente con una forma abbreviata ipocoristica PMY abbastanza comune nel mondo fenicio.[43][44]
La sua traduzione (che integra le prime due righe del testo nella parte alta della stele) è la seguente:
L'interpretazione e la traduzione di Cross è talvolta ancora proposta in anni recenti.[N 12]

In uno studio del 1991, l'archeologo William H. Shea, professore all'Andrews University, avanza un'integrazione parziale alla prima linea riprendendo il verbo grš e legge l'ultima LPNY (dal significato di "precedente" o "in precedenza") invece di LPMY.[45] Pertanto propose la seguente trascrizione e traduzione:[46]
Lo studioso ritiene che la stele testimoni le attività militari di "Milkaton" a "Tarshish" e in Sardegna.[47] Riguardo all'ubicazione di Tarshish, egli ritiene che si possa trattare di una località in Spagna; si starebbe pertanto parlando di una campagna militare in Spagna e successivamente dell'arrivo in la Sardegna.[N 13] Il comandante inoltre con il verbo šlm (tradotto per la prima volta da Zuckerman come "salvo/al sicuro") intenderebbe che la spedizione in Spagna non avrebbe del tutto compromesso le possibilità di un'ulteriore azione.[48]

Gli studiosi che leggono nella prima linea superstite dell'iscrizione il toponimo TRŠŠ hanno offerto varie possibili identificazioni. Come afferma Peckham:[49]
«Tarshish may describe a type of ship, or refer to a complex set of trade routes, or designate a place»
L'idea però che si tratti di un toponimo ha prevalso e tra le varie ipotesi l'andalusa Tartesso è sembrata a molti quella più probabile.[50][46][51][52] Bisogna comunque segnalare come afferma Antonelli[53] che:
«[...] Le testimonianze su Tarshish, al di là di ogni moderno tentativo di identificazione puntuale, sembrano contenere un'allusione generica: quella con cui il mondo semita faceva riferimento alle estreme regioni occidentali, meta dei primi traffici commerciali fenici»
Ma anche un'identificazione regionale verso l'occidente iberico ha visto contrari diversi studiosi[54][55] e non mancano quindi interpretazioni alternative con località sarde (come Tharros o Tarsis, forse una località mineraria)[56][42][57][58] o asiatiche (come Tarso in Cilicia).[59][60] Sull'identificazione asiatica conviene spendere qualche parola in più. Secondo Russel E. Gmirkin, l'iscrizione testimonierebbe il periodo in cui i Fenici venivano sconfitti e in parte costretti ad emigrare verso occidente dall'avanzata assira.[59] Sempre secondo l'interpretazione di Gmirkin Tarshish non si riferirebbe ad una località spagnola o sarda ma a Tarso in Cilicia e la stele di Nora testimonierebbe la fuga di profughi approdati in Sardegna nella disperata ricerca di salvezza e pace. Concorda con questa interpretazione anche Delgado Hervàs, professoressa all'Universitat Pompeu Fabra di Barcellona.[60]
David Ridgway della University of Edinburgh ritiene che Tarsis non si riferisca né a Tarso in Cilicia, né a Tartessos in Spagna, ma indicherebbe una località mineraria in Sardegna.[58] In questa prospettiva l'iscrizione testimonierebbe la vittoria di un generale fenicio contro le popolazioni locali per il controllo delle miniere della zona. Anche Markoe,[61] Dyson e Rowland ritengono che la scritta testimoni una vittoria dei Fenici contro i Sardi.[62]
Nel 2012 questa interpretazione militare del documento è stata ripresa da Nathan Pilkington dell'Università di Columbia, il quale tuttavia esclude ogni riferimento a Tartesso. Egli infatti, a differenza di coloro che sostengono l'interpretazione militare, propone di dividere la prima linea in due parole: bt ršš. Queste due parole verrebbero tradotte con "Una casa che lui buttò giù". Il termine bt può significare sia "tempio", sia "casa".[63][64] Il termine all'inizio dell'iscrizione potrebbe riferirsi alla distruzione di un villaggio nuragico sardo, forse il Nuraghe Antigori: l'identificazione si basa sull'uso di bt in iscrizioni contemporanee fenicie per indicare una casa reale, con il suo territorio e popolazione.[65] Il significato di ršš come "buttar giù / distruggere" si ritrova una volta in ugaritico[66] e due volte in ebraico nella bibbia.[67] Pertanto la traduzione offerta è la seguente:[68]
Anche Richard Miles, professore alla Università di Sydney si è mostrato concorde affermando:[52]
«un voto di ringraziamento al dio Pumay dedicato da un alto funzionario fenicio di nome Milkaton, dopo che la sua nave e tutto il suo equipaggio erano riusciti a sopravvivere a una grande tempesta nel viaggio verso la terra di «Tarshish». Si è molto discusso sulla reale collocazione geografica di «Tarshish»; comunque, l'ipotesi più probabile è che si tratti di Tartesso, l'antico nome di quella zona meridionale della Spagna corrispondente all'incirca all'attuale Andalusia.»
Celebrazione di una divinità
Una parte consistente degli studiosi ritiene tuttavia che la Stele si riferisca unicamente al culto celebrativo di una divinità e/o alla fondazione di un tempio.[N 14] L'orientalista francese Dupont-Sommer, che occupava la cattedra di ebraico e aramaico al Collège de France, escludendo l'esistenza di una lacuna nel testo e considerando quindi l'iscrizione completa, tradusse nel 1948 il testo in:[69]
L'interpretazione di bt rš š come "Kap-Tempel", "tempio di Capo", è accettata anche da Kurt Galling, rettore della Johannes Gutenberg-Universität Mainz.[70] Lo storico e filologo francese Février, direttore della sezioni di studi semitici antichi alla École pratique des hautes études, basandosi sul lavoro di Dupont-Sommer, avanzò nel 1950 qualche lettura alternativa e la tradusse:[71]

Allo stesso modo, nell'interpretazione dell'orientalista Albert van den Branden, professore all'Université Saint-Joseph, si afferma che si tratti di una dedica per la fondazione di un tempio. Secondo van den Branden l'iscrizione menziona diverse fasi costruttive che portano al completamento del tempio: la prima fase consisteva nella costruzione del tempio principale da parte di Naggâr, un abitante di un centro abitato detto Sardegna (probabilmente da identificare con Nora, che, per la sua importanza, avrebbe dato il nome all'intera isola); questo, tuttavia, rimase incompiuto, così che nella seconda fase lo stesso Naggâr si era impegnato nella costruzione di un tempio secondario in onore di Pumay; anche questo tempio era rimasto incompiuto, poiché in una terza fase si era dedicato all'esecuzione di una serie di altri lavori in questo santuario dedicato a Pumay: [72]

Nel 1966 Jean Ferron, archeologo e direttore del museo di Cartagine, rileggendo criticamente il lavoro di Février, propose invece la seguente traduzione:[73]
Remove ads
Curiosità
Goffredo Casalis nel suo Dizionario criticò irridendola una traduzione della stele di Nora da lui attribuita all'orientalista Francesco Ricardi.[N 15] Tuttavia nell'opera di Ricardi, tra le varie iscrizioni da lui tradotte, non compare la stele di Nora.[74]
La stele è stata esposta dal settembre 2004 al gennaio 2005 al Metropolitan Museum of Art di New York, all'interno della mostra temporanea Assyria to Iberia at the Dawn of the Classical Age, Dall’Assiria all’Iberia all’alba della civiltà classica.[75]
Dall'aprile all'ottobre del 2016 l'iscrizione è stata invece offerta ai visitatori del Museum und Park Kalkriese in Germania, museo sorto nel probabile luogo della battaglia di Teutoburgo, all'interno della mostra temporanea Gefahr auf See – Piraten in der Antike, "Pericolo sul mare - Pirati nel mondo antico".[76]
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni
Wikiwand - on
Seamless Wikipedia browsing. On steroids.
Remove ads