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campo di concentramento a Tarsia Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il campo di concentramento di Ferramonti[1], nel comune di Tarsia in provincia di Cosenza, in origine conosciuto anche come campo di concentramento Media Valle di Crati[2] «è stato il più grande dei 15 campi di internamento»[3] costruiti nell'estate del 1940 su ordine di Benito Mussolini e anche il principale, in termini di consistenza numerica, tra i numerosi luoghi di internamento per ebrei, apolidi, stranieri nemici e slavi all'indomani dell'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale[4]. Il campo fu liberato dagli inglesi nel settembre del 1943, ma molti ex internati rimasero a Ferramonti anche negli anni successivi e il campo di Ferramonti fu ufficialmente chiuso l'11 dicembre 1945. Conseguentemente, dal punto di vista cronologico degli eventi della seconda guerra mondiale, ha un suo peculiare primato: fu in assoluto il primo campo di concentramento per ebrei a essere liberato e anche l'ultimo a essere formalmente chiuso.
L'inizio dell'attività del campo di Ferramonti cominciò il 20 giugno 1940, quando vi giunse un primo piccolo gruppo di 160 ebrei provenienti da Roma. Nel 1943, al momento della sua liberazione, nel campo si sarebbero trovati 1 604 internati ebrei e 412 non ebrei.
La decisione di collocare il campo in una zona insalubre e malarica deriva in realtà non da una ragione politica/razziale, ma da un interesse economico da parte del costruttore Eugenio Parrini, molto vicino a importanti gerarchi fascisti[5]. La sua ditta era già presente a Ferramonti, dove aveva ultimato dei lavori di bonifica. Dovendo costruire il campo di concentramento, Parrini fece in modo di utilizzare a questo scopo il cantiere già presente in loco e le baracche che ospitarono il primo gruppo di ebrei erano in realtà le baracche utilizzate in precedenza dagli operai impegnati nella bonifica. Eugenio Parrini, costruttore anche del campo di concentramento di Pisticci, impose nel campo di Ferramonti un proprio spaccio alimentare in regime di monopolio[5]. Il campo era infestato da insetti[5] ed era costituito da 92 capannoni situati in un perimetro di circa 160 000 m² nei pressi del fiume Crati vi erano capannoni di 335 m², con due camerate da 30 posti, e capannoni da 268 m², che accoglievano otto nuclei familiari di cinque persone o dodici nuclei familiari di tre persone.
Considerata la sua natura di luogo di detenzione, con una struttura a baraccamenti e una recinzione fatta da una staccionata di legno sormontata da una linea di filo spinato, le condizioni di vita nel campo tuttavia rimasero sempre discrete e umane. Nessuno degli internati fu vittima di violenze o fu direttamente deportato da Ferramonti in Germania. Al contrario, le autorità del campo non diedero mai seguito alle richieste tedesche. Furono deportate solo quelle persone che, avendo chiesto un trasferimento da Ferramonti a un confino libero in alcuni centri del Nord Italia, si trovarono sotto l'occupazione tedesca dopo il settembre del 1943. Ferramonti non fu quindi in alcun modo un campo di transito per i lager tedeschi. Per questa sua peculiare caratteristica, lo storico ebreo inglese Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti come "il più grande kibbutz del continente europeo".
In effetti gli unici deceduti di morte violenta all'interno del campo furono quattro vittime di un mitragliamento da parte di un caccia alleato durante un duello aereo con un velivolo tedesco sopra il campo (27 agosto 1943). Gli internati potevano ricevere dall'esterno posta e cibo e, all'interno del campo, godettero sempre della libertà di organizzarsi eleggendo propri rappresentanti, di avere un'infermeria con annessa farmacia, una scuola, un asilo, una biblioteca, un teatro e dei propri luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un'altra greco-ortodossa). Diverse coppie si formarono e sposarono nel campo, dove nacquero 21 bambini. A conferma di questa sua storia di umanità, le relazioni degli ufficiali del Regno Unito che entrarono a Ferramonti nel 1943 descrissero il campo di Ferramonti più come un piccolo villaggio che non un campo di concentramento. Sempre in base alle loro relazioni, l'incidenza dei decessi per cause naturali avvenuti a Ferramonti fu bassa: 8-12 decessi ogni 2 000 persone. Gli ebrei deceduti nel campo sono stati regolarmente seppelliti all'interno sia del piccolo cimitero cattolico di Tarsia (16 sepolture registrate, ma solo 4 ancora presenti) sia nel cimitero di Cosenza (21 sepolture registrate e tutte presenti), dove ancora è possibile vedere le loro tombe.
Il campo era sotto la responsabilità del ministero dell'interno e retto da un commissario di Pubblica sicurezza, ma la sorveglianza esterna era affidata alla MVSN. Per l'opera di umanizzazione verso le condizioni di vita degli internati, svolta dai funzionari di polizia che si avvicendarono al comando (Paolo Salvatore in primo luogo, e quindi Leopoldo Pelosio e Mario Fraticelli) e dal cappellano del campo, il padre cappuccino fra Callisto Lopinot, si verificarono vari attriti tra le autorità di polizia e la milizia, che comportarono problemi nei confronti dei funzionari stessi. Per importanza e umanità si distinse il primo direttore, Paolo Salvatore, che venne allontanato dal campo agli inizi del 1943 per un atteggiamento troppo permissivo nei confronti degli internati[6]. Il frate cappuccino Lopinot si prestò alacremente per aiutare tutti, senza distinzione di credo e religione. Anche il maresciallo del campo, Gaetano Marrari, viene ricordato dagli internati con grande affetto per la sua umanità.
Gli internati ricevettero continua assistenza dalla DELASEM, l'ente di assistenza ai profughi creato nel 1939 dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con l'autorizzazione dello stesso governo fascista. Vi operava anche la "Mensa dei bambini" di Milano, diretta da Israele Kalk. Il supporto dato dal Vaticano per mezzo del frate cappuccino Lopinot fu anche molto importante, così come l'aiuto dato da Karel Weirich con la sua organizzazione a supporto degli ebrei cecoslovacchi (Opera San Venceslao).
Con il deteriorarsi della generale situazione economica dell'Italia nel corso della guerra, anche le condizioni di vita nel campo si fecero progressivamente più difficili. Dall'estate del 1942 fu concesso a tutti gli internati che lo volessero il permesso di lavorare al di fuori del campo per integrare le scarse razioni alimentari. È anche importante ricordare i vicendevoli rapporti di aiuto e di solidarietà intercorsi fra gli internati e la popolazione di Tarsia.[7]
Vengono di seguito elencati i principali gruppi[8] di internati, profughi e residenti di Ferramonti di Tarsia[9]:
Era formato da circa 160 ebrei (tutti uomini) originari della Germania o dell'Austria, ma residenti a Roma da diversi anni e arrestati subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Fu il primo gruppo a essere internato a Ferramonti di Tarsia nel giugno del 1940. Era un gruppo socialmente omogeneo, formato da professionisti con buone possibilità di denaro e di aiuti da parte dei propri familiari rimasti a Roma. In questo gruppo vi era lo psichiatra Ernst Bernhard, allievo di Jung. Recentemente è stato pubblicato il carteggio con sua moglie Dora, rimasta a Roma che testimonia l'ampia possibilità dei familiari degli internati di inviare loro alimenti, vestiario e mezzi.
Era formato da un po' più di 300 ebrei (tutti uomini) provenienti, come il gruppo dei romani, da Germania, Austria o paesi dell'Europa orientale, ma residenti da anni in varie città del Nord Italia o giunti più recentemente come profughi (specie dalla Polonia) per sfuggire all'avanzata nazista. Era un gruppo più eterogeneo per professione e possibilità economiche. Arrivò a Ferramonti nel settembre del 1940.
Era un gruppo formato da circa 300 ebrei (uomini, donne e bambini) profughi da vari paesi europei, che poco prima dell'entrata in guerra dell'Italia si era concentrata a Trieste in attesa di un trasporto verso la Palestina. Non potendo più avere un viaggio diretto, il gruppo scelse di prendere un imbarco per Bengasi (Libia), da cui poi ripartire per la Palestina. Arrivati a Bengasi, però, questo trasporto si rivelò inesistente e il gruppo si ritrovò forzatamente a Bengasi, dove fu aiutato dalla comunità ebraica locale. Finite tutte le loro risorse economiche e con l'entrata in guerra dell'Italia, il gruppo si ritrovò prigioniero degli italiani. Dalla Libia furono trasportati in Italia, dove sbarcarono a Napoli e da lì furono trasferiti a Ferramonti nel settembre del 1940. A causa delle loro peripezie, l'intero gruppo arrivò nel campo completamente privo di mezzi e di risorse finanziarie, senza poter contare sugli aiuti esterni come i primi due gruppi. Il loro arrivo e la loro povera condizione determinò una riorganizzazione sociale del campo di Ferramonti, con la creazione di un comitato di assistenza diretto da due importanti capi ebraici (Martin Ruben e Max Pereles)[10]. Un leader importante di questo gruppo fu Peter Kanner che, dopo la liberazione, divenne uno dei responsabili del campo[11].
Era un gruppo formato da poco più di 100 ebrei (uomini, donne, bambini), provenienti da Zagabria e da altre città della Croazia, che si erano rifugiati a Lubiana, allora territorio sotto il controllo italiano, per sfuggire ai massacri organizzati dagli ustascia filonazisti. Da Lubiana furono trasferiti a Ferramonti nel luglio del 1941. In questo caso l'Esercito Italiano ebbe un ruolo attivo di protezione nei confronti di questi profughi croati, così come testimoniato nel libro "Un debito di gratitudine" dello storico ebreo Menachem Shelah (anche lui internato a Ferramonti)[12].
Era un gruppo formato da circa 186 ebrei (uomini, donne, bambini), provenienti da Belgrado e da altre città della Serbia, fuggiti verso il Montenegro a seguito dei bombardamenti tedeschi dell'aprile del 1941. Arrestati nel luglio successivo presso le Bocche di Cattaro (Montenegro), furono trasportati verso l'Albania, dove furono internati in un campo a Kavajë (a circa 20 km da Durazzo). A causa delle condizioni disastrose di quel campo, questo gruppo di persone fu imbarcato e trasportato in Italia, prima a Bari e poi a Ferramonti, dove arrivò nell'ottobre del 1941. In questo gruppo c'era l'ing. Alfred Wiesner che, subito dopo la guerra, fondò la ditta di gelati Algida e ne inventò il marchio.
Era un grosso gruppo di giovanissimi ebrei appartenenti all'organizzazione sionista Betar, che il 18 maggio 1940 partì da Bratislava a bordo del battello fluviale Pentcho nella speranza di raggiungere la Palestina. Il gruppo era comandato dal sionista Alexander Citron. Il battello a stento navigò lungo il Danubio e arrivò nel mar Nero, passò lo stretto dei Dardanelli, ma quando si trovò in mare aperto la notte fra il 9-10 ottobre 1940 naufragò di fronte a un'isola deserta dell'Egeo chiamata Kamilanisi, priva di ogni possibilità di sopravvivenza. Avvistati prima dagli inglesi (che però non andarono in loro soccorso)[13], furono salvati dalla nave militare italiana "Camogli" (che era molto più distante dall'isola rispetto agli inglesi), comandata dal capitano Carlo Orlandi. La nave italiana li portò a Rodi, dove furono internati fino agli inizi del 1942 e da qui portati in due riprese (febbraio e marzo 1942) a Ferramonti. Secondo gli archivi di Arolsen, gli ebrei di Rodi che giunsero a Ferramonti furono 198; altre fonti parlano di 200 o 201[14]. L'odissea di questo battello e dei suoi passeggeri è narrata in diversi libri, fra cui uno di John Bierman (Odyssey, 1984) e uno dello stesso Citron (Habaita). In seguito il capitano Orlandi venne catturato dai nazisti, che lo deportarono in un campo di concentramento in Germania[13].
Era un gruppo formato da circa 248 giovani jugoslavi non ebrei, arrestati nelle regioni controllate dagli italiani in quanto o partigiani o loro fiancheggiatori[15].
Era un gruppo formato da un centinaio di greci non ebrei, arrestati per atteggiamento anti-italiano nel loro paese o nelle colonie dell'Africa settentrionale. Di religione cristiana ortodossa, ebbero diverse tensioni con l'organizzazione ebraica del campo. Sulla base di quanto testimoniato da Kalk, questo gruppo fu mandato a Ferramonti per un errore di un funzionario del ministero dell'interno italiano, che confuse la loro religione "ortodossa" con quella degli ebrei "ortodossi". In questo gruppo bisogna ricordare la presenza di Evangelos Averoff Tossizza, che diventerà un importante uomo politico della Grecia democratica e racconterà la sua esperienza in Italia nel libro "Prigioniero in Italia"[16]. Un altro greco, Costantin Zotis, raccontò l propria esperienza a Ferramonti nel libro "I am still standing"[17]. Fra di loro c'era anche un monaco ortodosso (Damaskinos) e nel campo vi fu anche una cappella ortodossa[6].
Di questo gruppo di internati si sa pochissimo e la loro presenza è testimoniata da una delle foto scattate dagli inglesi dopo il loro arrivo al campo. Nella foto, classificata come 6923 (IWM, Londra), la didascalia cita il gruppo dei francesi provenienti dalla Corsica e fra loro il generale francese Marchetti.
Appartennero a questo gruppo di internati almeno 32 persone Rom, come le ricerche più recenti hanno evidenziato.[18]
Era un gruppo di circa 70 uomini di nazionalità cinese presenti in Italia come commercianti ambulanti nelle città del Nord o come marinai su navi italiane. Vennero tutti arrestati dopo l'entrata dell'Italia in guerra e portati a Ferramonti, dove allestirono una lavanderia.
Il 14 settembre 1943, quindi a brevissima distanza di tempo dall'armistizio, il campo fu liberato dall'avanzata alleata, venendo raggiunto dalle avanguardie britanniche, dopo essere riusciti pochi giorni prima a convincere una colonna nazista della Divisione corazzata "Hermann Göring" a non entrare nel campo stesso inscenando una falsa epidemia di tifo. Molti degli internati si erano comunque sparpagliati, per maggior sicurezza, nei villaggi circostanti[19].
Dopo la liberazione il campo fu visitato dal maggiore Wellesley Aron[20], che all'epoca comandava la 178ª compagnia trasporti dell'esercito britannico (la quale, in seguito, entrò a far parte dell'organico della Brigata ebraica)[21]. Il maggiore (che successivamente narrò la propria esperienza in un libro di memorie,[22]) trovò i prigionieri alquanto denutriti, ma in condizioni tutto sommato buone[23].
Il campo rimase aperto sotto una direzione ebraica, supervisionata dagli inglesi, fino alla fine della guerra. Molti degli ex internati seguirono le forze armate alleate. Nel maggio del 1944 un gruppo di circa 350 di loro si imbarcò da Taranto per la Palestina; 1 000 partirono il 17 luglio 1944 da Napoli per gli Stati Uniti, dove furono internati per qualche tempo a Camp Oswego nello Stato di New York, prima che fosse concesso loro il diritto di residenza nel paese.
Scrive lo storico Gianluca Fantoni che le «impressioni che il maggiore Aron ebbe allora di Ferramonti, come anche le memorie di molti degli ex internati che descrivono la loro esperienza in quel campo come tutto sommato positiva, non devono far dimenticare che l'esistenza stessa di campi di detenzione per gli ebrei nell'Italia fascista era un'offesa alla dignità umana, nonché prova inequivocabile del grave cedimento morale del popolo italiano, che aveva permesso l'emanazione delle leggi razziali e la successiva persecuzione degli ebrei. È forse proprio per cancellare la memoria di tale vergogna che il campo di Ferramonti fu in seguito abbandonato all'incuria, per cui adesso le strutture originali sono quasi interamente perdute». Fantoni condivide poi il giudizio dello storico John Foot per il quale (scrive sempre Fantoni) «la cancellazione fisica dei campi, cioè delle prove del razzismo italiano, è servita ad alimentare il mito del buon italiano, fondamentalmente incapace di odio e di efferatezze, che è il prisma attraverso il quale per molti anni gli italiani hanno guardato alla loro partecipazione alla seconda guerra mondiale[24]».
L'area dove era collocato il campo si trova ora accanto all'attuale svincolo di Tarsia Sud dell'autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria. Dagli anni sessanta in poi, complice l'incuria delle autorità locali, l'intero campo è stato prima utilizzato per attività agricole e poi progressivamente smantellato e nessuna delle originali baracche degli internati è rimasta. Attualmente l'area dove era il campo, anche se sottoposta a vincolo, è un semplice campo agricolo. Accanto a questo appezzamento è presente un piccolo museo di proprietà del Comune di Tarsia, denominato "Museo Internazionale della Memoria", inaugurato il 25 aprile 2004. In realtà, anche l'attuale area museale è al di fuori dell'originale perimetro del campo occupato dalle baracche degli internati, situandosi nella zona dove si trovavano le abitazioni dei responsabili del campo (quelle del direttore e del personale addetto alla sorveglianza) e altre strutture tecniche (garage, officina, ecc.). Il museo è formato da alcune sale contenenti esclusivamente del materiale fotografico già ampiamente reperibile in altre sedi o in internet[25]. In occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio 2018, nell'area del campo[26] è stata inaugurata una biblioteca in omaggio a uno degli internati, l'editore austriaco Gustav Brenner[27]. In questa biblioteca sono presenti dei volumi dedicati al tema della Memoria e alla storia della presenza ebraica in Calabria[26].
Attorno alla storia di Ferramonti sono sorte successivamente due distinte fondazioni: la Fondazione Internazionale "Ferramonti di Tarsia" per l'amicizia fra i popoli (con sede a Cosenza) e la Fondazione "Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia" (con sede a Tarsia).
Fra gli internati di Ferramonti, alcuni di loro divennero famosi in svariati campi. Ecco un elenco:
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