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periodo della civiltà romana compreso tra il 509 e il 27 a.C. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La Repubblica Romana (in latino: Res publica Romana) fu il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. e il 27 a.C., quando l'Urbe fu governata da un'oligarchia repubblicana. Essa nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della supremazia della componente etrusca sulla città e al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche. La sua fine viene invece convenzionalmente fatta coincidere, circa mezzo millennio dopo, con la fine di un lungo periodo di guerre civili che segnò de facto (benché formalmente non avvenne in forma istituzionale)[1] la fine della forma di governo repubblicana, a favore di quella del Principato. Qui di seguito il passo fondamentale di Tito Livio, che descrive le ragioni che portarono alla caduta della monarchia dei Tarquini, considerando che i tempi erano ormai maturi:
«E non c'è dubbio che lo stesso Bruto, coperto di gloria per l'espulsione del tirannico Tarquinio, avrebbe agito in modo estremamente dannoso per la Res Publica, se il desiderio prematuro di libertà lo avesse portato a detronizzare qualcuno dei re precedenti. Infatti cosa ne sarebbe stato di quel gruppo di pastori e di popolazione se, fuggiti dai loro paesi per cercare la libertà o l'impunità nel recinto inviolabile di un tempio, si fossero resi liberi dalla paura di un re e si fossero lasciati condizionare dai discorsi faziosi dei tribuni e a scontrarsi verbalmente con i patres di una città che non era la loro, prima che l'amore coniugale, l'amore paterno e l'attaccamento alla terra stessa, sentimento consuetudinario, non avessero unito i loro animi? La Res publica, minata dalla discordia, non avrebbe potuto neppure raggiungere la maggiore età. Invece l'atmosfera di serenità e moderazione che accompagnò la gestione del governo, portò la crescita ad un punto tale che, una volta raggiunta la piena maturità delle sue forze, poté dare i frutti migliori della libertà.»
Repubblica romana | |
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Motto: "S.P.Q.R." "Senatus PopulusQue Romanus" (Il Senato e il Popolo Romano) | |
La Repubblica romana nel 44 a.C. | |
Dati amministrativi | |
Nome completo | Repubblica romana |
Nome ufficiale | Res publica Romana |
Lingue ufficiali | latino |
Lingue parlate | Latino e greco antico (In oriente) varie lingue barbare |
Capitale | Roma |
Politica | |
Forma di governo | Repubblica oligarchica mista ad un sistema monarchico elettivo e democratico. |
Consoli | Elenco |
Organi deliberativi | Senato romano, Comizi |
Nascita | 509 a.C. con Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino |
Causa | cacciata di Tarquinio il Superbo |
Fine | de facto 16 gennaio 27 a.C. (de jure almeno fino al 235 d.C., nella forma del Principato) con Gaio Giulio Cesare Ottaviano e Marco Vipsanio Agrippa |
Causa | Assunzione del titolo di Augusto da parte di Ottaviano e istituzione del Principato |
Territorio e popolazione | |
Bacino geografico | Bacino del Mediterraneo |
Territorio originale | Roma e dintorni |
Massima estensione | 1950000 km² nel 50 a.C. |
Popolazione | 30 - 40 milioni di abitanti nel I secolo a.C. |
Economia | |
Valuta | Sesterzio, Asse |
Risorse | oro, argento, ferro, stagno, ambra, cereali, pesca, ulivo, vite, marmi |
Produzioni | vasellame, oreficeria, armi |
Commerci con | Parti, Africa subsahariana, India, Arabia |
Esportazioni | oro |
Importazioni | schiavi, animali, seta, spezie |
Religione e società | |
Religioni preminenti | religione romana, religione greca, religione egiziana, mitraismo |
Religione di Stato | religione romana |
Religioni minoritarie | religione ebraica, druidismo |
Classi sociali | cittadini romani (patrizi e plebei), liberi e schiavi |
Evoluzione storica | |
Preceduto da | Età regia di Roma (Re Etruschi) |
Succeduto da | Impero romano |
Quella della Repubblica rappresentò una fase lunga, complessa e decisiva della storia romana: costituì un periodo di enormi trasformazioni per Roma, che da piccola città stato quale era alla fine del VI secolo a.C. divenne, alla vigilia della fondazione dell'Impero, la capitale di un vasto e complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti, avviato a segnare in modo decisivo la storia dell'Occidente e del Mediterraneo.
In questo periodo si inquadrano la maggior parte delle grandi conquiste romane nel Mediterraneo e in Europa, soprattutto tra il III e il II secolo a.C.; il I secolo a.C. fu invece, come detto, devastato dai conflitti intestini dovuti ai mutamenti sociali, ma fu anche il secolo di maggiore fioritura letteraria e culturale, frutto dell'incontro con la cultura ellenistica e riferimento "classico" per i secoli successivi.
Riguardo alla forma di governo, lo storico greco Polibio affermerà che quello della repubblica romana è il migliore esempio di Costituzione mista, poiché rappresenta la perfetta unione tra la monarchia, incarnata dai Consoli, l'oligarchia, incarnata dal Senato, e la democrazia, incarnata dalle Assemblee romane, i famosi comizi.
Per ogni aspetto della società repubblicana (es. forma di governo, diritto, religione, economia, cultura letteraria, artistica, ecc.) si rimanda alla voce Civiltà romana. Vale qui la pena ricordare solo che i più alti comandi, come quello dell'esercito e il potere giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature.
Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro, e la gratuità.
Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie.
Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.
Si racconta che mentre Tarquinio il Superbo stava assediando la città dei Rutuli di Ardea,[2] il figlio Sesto Tarquinio abusò della nobile ed onestissima Lucrezia (moglie di Lucio Tarquinio Collatino), che per la vergogna si suicidò.[2][3][4][5] Il marito Lucio Tarquinio Collatino, il padre Spurio Lucrezio Tricipitino e l'amico Lucio Giunio Bruto (anch'egli imparentato con i Tarquini), convinsero i Romani a ribellarsi e a rovesciare la monarchia nel 509 a.C., abbandonando il re e chiudendogli in faccia le porte della città.[2][4][6][7] La famiglia di Lucrezia guidò, quindi, la rivolta che costrinse alla fuga i Tarquini, che dovettero così abbandonare Roma per rifugiarsi in Etruria. Lucio Tarquinio Collatino, marito di Lucrezia, e Lucio Giunio Bruto vinsero le elezioni come primi due Consoli, supremi magistrati della neo Repubblica romana.[8]
La leggenda narra che il sovrano esule si rivolse prima agli Etruschi di Veio e Tarquinia, poi a quelli di Chiusi, governati dal lucumone Porsenna, in entrambi i casi per chiedere un sostegno militare esterno e poter così rientrare a Roma. Entrambe le sue richieste furono accolte, ed in entrambi i casi il conflitto che ne risultò, alla fine, si risolse a favore di Roma, sostenuta da aiuti soprannaturali, come la voce che proclamò la vittoria dei Romani guidati da Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio Publicola sugli etruschi di Veio e Tarquinia, o da singoli atti di valore dei Romani, come quelli di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, che convinsero Porsenna a levare l'assedio da Roma.
Quando i Romani riuscirono a cacciare i Tarquini nel 509 a.C., furono favoriti dal fatto che la potenza etrusca era ormai in pieno declino nell'Italia meridionale.[9] Basti ricordare che pochi anni prima (nel 524 a.C.), gli Etruschi erano stati battuti presso Cuma dalle forze greche poste sotto il comando dello stratega Aristodemo, segnando la fine del loro espansionismo e l'inizio del crollo della signoria etrusca a sud del Tevere.[9] Ciò condusse le genti latine a ribellarsi, come dimostra la successiva battaglia di Aricia, nella quale i Latini, soccorsi da Aristodemo, ottennero una decisiva vittoria per la loro indipendenza, sconfiggendo le forze etrusche poste sotto il comando del figlio di Porsenna, Arunte. Roma approfittò della nuova situazione venutasi a creare.[9][10]
Il significato storico che sta sotto l'elaborazione leggendaria della fondazione della repubblica riguarda due aspetti fondamentali per la storia militare e sociale romana: l'emancipazione politica dagli Etruschi e, soprattutto, l'esito del contrasto tra l'istituzione monarchica ed il ceto dei Patrizi; questi ultimi, preoccupati dalle iniziative politiche popolari sostenute dai re etruschi (come la riforma centuriata e l'imposizione fiscale "progressiva"), che sembravano condurre ad un sempre crescente peso della plebe, si assicurarono con la cacciata di Tarquinio il Superbo il controllo politico e sociale attraverso un istituto oligarchico.
Vi è da aggiungere che vi fu un'altra componente che favorì la cacciata da Roma degli Etruschi: l'alleanza con i Sabini. Questi ultimi, scendendo dai monti verso il Latium vetus, andarono ad insidiare il fianco etrusco. Questa collaborazione latino-sabina è confermata - secondo il De Francisci[9] - non solo in base a quanto riferito da Livio (secondo il quale Attius Clausus con la gens Claudia ed i suoi clientes vennero ammessi nel territorio romano[11]) ma anche dal fatto che Appio Erdonio (di chiara origine sabina) si impadronì del Campidoglio (nel 460 a.C.). In aggiunta a ciò, va tenuto presente che molte delle cariche più elevate di questi anni vennero occupate da gentes sabine come i Valerii, i Claudii, i Postumii e i Lucretii.[12]
Il periodo immediatamente successivo alla cacciata dei Tarquini fu segnato da una crisi militare ed economica per l'Urbe: l'espansione territoriale guidata dai re fu seguita da una controffensiva dei popoli circostanti (Equi e Volsci), che ridimensionarono i confini di Roma, mentre l'emarginazione dei ceti plebei artigiani e mercantili, che sotto la monarchia avevano guidato la crescita economica della città, portarono ad una recessione economico-agricola dominata dai grandi proprietari terrieri.
I primi Consoli assunsero il ruolo del re con l'eccezione dell'alto sacerdozio nell'adorazione di Iuppiter Optimus Maximus nel grande tempio sul colle Capitolino. Per quel compito i Romani elessero un Rex sacrorum o "Re delle cose sacre".[13] Fino alla fine della Repubblica, l'accusa di volersi dichiarare re, rimase una delle più gravi accuse a cui poteva incorrere un personaggio potente (ancora nel 44 a.C. gli assassini di Giulio Cesare sostennero di aver agito per prevenire la restaurazione di una monarchia esplicita).
I primi anni della Repubblica furono caratterizzati dalla necessità di stabilizzare il nuovo ordine, difendendolo sia da nemici interni (coloro che venivano accusati di voler restaurare il regime monarchico), sia dai nemici esterni, che, contando sulla debolezza del nuovo regime, provarono a recuperare la propria indipendenza dallo Stato romano. Nel 507 a.C. il Tempio di Giove Ottimo Massimo, per secoli simbolo della potenza romana, fu dedicato al dio da uno dei primi consoli repubblicani, Marco Orazio Pulvillo,[14] quasi ad avocare al nuovo stato un tempio voluto e realizzato dagli ultimi tre re di Roma.
In qualche modo, la difesa del nuovo ordine della Repubblica, da quello appena rovesciato della monarchia, fu un movimento storico che a Roma assunse caratteri di psicosi collettiva, considerando che lo stesso Publio Valerio (il futuro Publicola ovvero amico del popolo), dovette difendersi dall'accusa di voler farsi re, costretto poi ad abbattere la dimora che stava costruendo in cima al Velia[15] e promulgando una legge che permetteva a tutti i cittadini romani di uccidere chiunque avesse tentato di farsi re. Lo stesso Valerio introdusse il diritto di provocatio ad populum, che garantiva ad ogni cittadino che fosse stato condannato da un magistrato alla pena capitale, di appellarsi al popolo per trasformare la pena inflittagli,[16] e la nomina di due questori da parte del popolo.
Il corpo sociale era in fermento: all'ordine più tradizionalista, come quello legato alle famiglie patrizie, si contrapponeva il popolo romano (la plebe), in un movimento dialettico che sfociò anche nella violenza e che sarebbe emerso più chiaramente nel decennio successivo, con la prima secessione della plebe del 494 a.C.[17]
Dal punto di vista militare, dopo essersi garantita l'indipendenza dal potente vicino etrusco, Roma si trovò a dover ristabilire la propria autorità lungo i confini settentrionali con i Sabini, che sempre più spesso compivano scorrerie in territorio romano (nel 505 a.C. sull'Aniene[18] e 504 a.C. nei pressi di Fidene[19]), e verso i meridionali, dove la colonia di Pometia fu duramente punita per essere passata dalla parte degli Aurunci.[20]
Che i Romani si sentissero accerchiati, lo si desume dai trionfi che furono accordati per vittorie forse anche di modeste dimensioni, ma ancor più dall'istituzione della figura del dittatore, carica che per la prima volta fu attribuita nel 501 a.C. a Tito Larcio,[21] in previsione di una futura guerra contro una lega di città latine. È in queste condizioni che si sviluppò quella che potremmo definire una prima forma di "politica estera" dello stato romano: il divide et impera, teso a dividere gli avversari, grazie ad azioni diplomatiche, per poi arrivare allo scontro campale con un nemico indebolito nella propria consistenza numerica.
Roma era rimasta esclusa dalla lega delle città latine limitrofe, forse anche in virtù dell'influenza della componente etrusca della città: la ricerca di nuove terre coltivabili e di vie di comunicazione contrappose presto l'Urbe agli altri centri latini.
Un nuovo equilibrio fu stabilito con il Foedus Cassianum (la data è incerta, ma non successiva al 493 a.C.), un trattato di pace stipulato tra Romani e Latini, che rimase in vigore fino al 338 a.C., conseguenza dello scontro tra le due parti, conclusosi con la Battaglia del lago Regillo, di fatto l'ultimo tentativo di Tarquinio il Superbo (e quindi della componente etrusca che a lui faceva riferimento) di rientrare nell'Urbe. Sebbene i Romani prevalsero sul campo[22], con il trattato Roma riconosceva alle città latine la loro autonomia ma si riservava il Supremo Comando in caso di guerra. L'alleanza aveva, perciò, uno scopo prettamente difensivo, in vista delle incombenti minacce degli Equi, dei Volsci e degli Aurunci.
Intanto la città era teatro di violenti conflitti tra patrizi e plebei, conflitti che trovavano origine nella richiesta dei secondi di essere rappresentati nelle istituzioni della città (istituzioni che, dopo la caduta della monarchia, erano appannaggio esclusivo dei patrizi) e di non essere ridotti in schiavitù, in applicazione del Nexum, perché debitori a seguito di eventi bellici[23]. In quel frangente l'Urbe riuscì a resistere alle forze esterne solo ritrovando l'accordo tra i due ordini (il dittatore Manio Valerio Massimo promise le riforme a guerra conclusa) i quali, compatti, con rapide ed efficaci azioni militari riuscirono nel 494 a.C. a respingere gli attacchi dei Sabini, Equi e Volsci[24].
A guerra conclusa, poiché i patrizi non volevano concedere ai plebei quanto promesso, soprattutto a causa della forte opposizione a questa riforma dell'ala più oltranzista dei patrizi guidata da Gneo Marcio, conosciuto come Coriolano, questi per la prima volta nella storia romana adottarono come forma di lotta politica la secessio plebis, ovverosia abbandonarono la città, ritirandosi sul monte Sacro appena fuori le mura cittadine, rifiutandosi di rispondere alla chiamata alle armi dei Consoli.
La prima secessione dei plebei si concluse quando questi videro accolte alcune delle loro richieste, tra le quali la più importante era senza dubbio quella dell'istituzione nel 494 a.C. della figura del tribuno della plebe; peraltro il ricomporsi della frattura tra i due ordini non comportò il ristabilirsi della concordia interna.[25]
Le vicende di Coriolano, esiliato da Roma a seguito delle accuse mossegli dai tribuni, condottiero dei Volsci contro la sua città natale fin sotto le mura cittadine, ritiratosi solo grazie all'intervento delle donne romane (488 a.C.), sia che siano state reali, o il frutto di una successiva rielaborazione storica, riportano di quale intensità fossero le tensioni sociali interne alla città, che si aggiungevano a quelle esterne connesse alla dura guerra contro i Volsci, che caratterizzò quel periodo.[26][27]
Nel periodo successivo, dal 487 a.C. al 480 a.C., Roma tornò ad essere impegnata in una serie di scontri con le popolazioni vicine di Volsci, Ernici, Equi, oltre agli Etruschi della città di Veio, quasi tutti dall'esito favorevole, anche se nel 484 a.C. i Romani subirono una pesante sconfitta in battaglia da parte dei Volsci davanti alle porte di Anzio[28], e la vittoria dei romani sui vejenti nel 480 a.C. costò loro pesantissime perdite, tra le quali quella del console Gneo Manlio Cincinnato[29].
Oltre ai tradizionali motivi di rivalità, le città limitrofe trovarono motivazioni per le loro incursioni nell'evidente debolezza di Roma, attraversata in quegli anni da feroci lotte intestine, legate alla questione della legge agraria, voluta dal console Spurio Cassio Vecellino nel 486 a.C., che per questo fu condannato a morte l'anno successivo per accuse mossegli dai patrizi. Nonostante vari episodi di insubordinazione e renitenza alla leva, in tutto questo periodo, patrizi e plebei si ricompattarono nei momenti di maggiore pericolo, riuscendo sempre a far fronte al pericolo esterno.
A questo periodo, risalgono la consacrazione del tempio dedicato ai Dioscuri (484 a.C.) e l'episodio della condanna a morte della vestale Oppia, sepolta viva per esser venuta meno al voto di castità[30].
Tra il 483 a.C.[31] e il 474 a.C. Roma dovette combattere duramente contro la città di Veio, che dopo aver annientato l'esercito privato della gens Fabia nella battaglia del Cremera del 477 a.C.,[32] era arrivata addirittura a costruire opere fortificate sul Gianicolo, appena fuori dalle mura della città. La probabilità che un conflitto bellico di tale portata sia stato affidato ad una sola gens, metterebbe in serio dubbio la cronologia dell'ordinamento censitario serviano: slitterebbe quindi di oltre un secolo l'origine cronologica di un ordinamento in classi di censo quale quello di Roma sotto Servio Tullio. Questa prima fase del conflitto tra le due città, si risolse con una tregua quarantennale concessa dai romani ai veienti nel 474 a.C. in cambio di frumento e denaro.
Sia durante lo scontro con gli Etruschi, che nel periodo immediatamente successivo, non mancarono occasioni di scontro con le popolazioni vicine dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, che quando non si risolsero con un nulla di fatto, furono tutti favorevoli ai romani, tranne in una occasione, nel 471 a.C., quando i Volsci sconfissero duramente i romani, anche grazie alle divisioni esistenti tra Patrizi e Plebei.
Divisioni, le cui motivazioni in parte erano state ereditate dai periodi precedenti (come la legge agraria), ed in parte erano frutto di nuove rivendicazioni da parte dei plebei, come quelle legate alla Lex Publilia Voleronis, per la quale i Tribuni dovevano essere eletti nei comizi tributi, cui solo i plebei avevano diritto a partecipare.
Dopo aver respinto l'offensiva delle popolazioni vicine, i Romani si videro ostacolata l'espansione a nord dalla ricca e fiorente città etrusca di Veio, che le contendeva il dominio sul Tevere. Iniziata nel 477 a.C. (battaglia del Cremera), la guerra si conclude nel 396 a.C. con la distruzione della città etrusca ad opera di Furio Camillo, dopo un assedio di dieci anni. A questo punto, l'espansione romana nel Centro Italia era, però, ancora ostacolata dalla migrazione di Celti e Sanniti.
Il periodo che corre tra il 470 a.C. e il 451 a.C., è caratterizzato dalle campagne contro le popolazioni vicine, colpevoli di sconfinare e razziare i territori romani o quelli degli alleati, e le crescenti tensioni interne, tra Plebe e Senato, che ruotavano intorno alla Lex Terentilia, con cui i tribuni provarono a limitare i poteri dei consoli, e quindi quello dei Patrizi, ma che non arrivò mai ad essere votata.
Durante il ventennio i più strenui oppositori esterni furono i Volsci e gli Equi, più abili come razziatori e guastatori (almeno così vengono descritti da Tito Livio), che come combattenti, e per questo regolarmente sconfitti negli scontri campali dai romani, anche quando questi si trovano in inferiorità numerica. La città di Anzio viene presa nel 469 a.C., e nel 462 a.C. i Volsci subiscono ingenti perdite ad opera dei romani.
«Lì poco mancò che il nome dei Volsci venisse cancellato dalla faccia della terra. In alcuni annali ho trovato che tra fuga e battaglia ci furono 13.470 morti, che 1750 vennero catturati vivi e che le insegne conquistate ammontarono a 27. Anche se tali cifre risentono di una certa tendenza all'esagerazione, ciononostante si trattò indubbiamente di un grande massacro.»
I Sabini si limitarono a qualche scorribanda, mentre gli Ernici sono riportati tra gli alleati, cui Roma presta aiuto, quando questi subiscono le razzie da parte degli Equi e dei Volsci. La città di Tusculum si distingue per essere la più fedele tra gli alleati dei romani, intervenendo nella riconquista del Campidoglio, occupato da Appio Erdonio.
Nel 466 a.C. viene consacrato il tempio di Giove Fidus sul Quirinale, voluto da Tarquinio il Superbo, mentre il censimento del 465 a.C. conta 104.714 cittadini, esclusi orfani e vedove[33], numero che dovette essere sicuramente ridimensionato dalla pestilenza che colpì Roma nel 463 a.C. Il decimo censimento Ab Urbe condita del 459 a.C. comunque conta 117.319 abitanti.
Intanto in città le tensioni tra Patrizi e Plebei, impegnati nella controversia per l'approvazione della Lex Terentilia, che tra le altre cose provoca l'esilio di Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, raggiungono l'apice nel 460 a.C., quando i dissidi interni, rendono possibile che Appio Erdonio, e i suoi seguaci, prendano il Campidoglio, riconquistato a fatica dalle truppe consolari di Publio Valerio Publicola, ucciso nei combattimenti per riprendere la rocca.
Tra le due fazioni cresce la consapevolezza che la situazione di stallo tra i due ordini sia pericolosa per la stabilità di Roma, per cui, dopo aver inviato una commissione, formata da Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Sulpicio Camerino, ad Atene, per trascrivere le leggi di Solone, e quindi poterle studiare e riformare le istituzioni romane, dopo molte insistenze da parte dei tribuni della plebe, patrizi e plebei concordarono per la costituzione del primo decemvirato.
«Si decise di nominare dei decemviri non soggetti al diritto d'appello e di non avere quell'anno nessun altro magistrato al di fuori di loro. Se i plebei avessero dovuto o meno prendere parte alla cosa fu argomento a lungo dibattuto. Alla fine ebbero la meglio i patrizi, a patto però che non venissero abrogate la legge Icilia riguardante l'Aventino e le altre leggi sacrate.»
Tra gli episodi leggendari spicca la prima dittatura di Cincinnato nel 458 a.C., che sconfitti gli Equi nell'ennesima battaglia del monte Algido, torna ai campi dopo appena 16 giorni di dittatura.
Il decemvirato, istituito come comitato di saggi per il rinnovamento della Repubblica, compito che portò a termine con l'emanazione delle Leggi delle XII tavole, si sviluppò come tentativo di istituire un governo autoritario, che escludesse i plebei da qualsiasi magistratura e decisione nel governo della città. A questo tentativo i plebei risposero con la minaccia della secessione (in questi eventi si inserisce la vicenda di Verginia) e alla fine ottennero il ripristino di tutte le magistrature ordinarie, nonché l'esilio per i decemviri e la messa in stato di accusa di Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicino, i più odiati tra i decemviri.
Ristabilite le prerogative della plebe, e dei suoi campioni i tribuni della plebe, la città vive con relativa tranquillità la dialettica tra le due classi sociali, tanto che il breve tentativo dei tribuni consolari, rimasti in carica per soli tre mesi nel 444 a.C., non porta gravi conseguenze per la stabilità interna della città.
Nel 443 a.C. viene istituita la carica del censore, preposto ai censimenti, per liberare i consoli di un'attività che non riuscivano a portare a termine, se non saltuariamente.
Il periodo tra il 440 a.C. e il 406 a.C. internamente fu caratterizzato dalle tensioni tra plebei e patrizi, reso dall'alternanza di consoli e tribuni consolari alla guida della città (anche se di fatto furono sempre eletti patrizi alle supreme magistrature), ed esternamente dal rinvigorirsi delle spinte anti-romane nelle popolazioni vicine, che furono affrontate dall'urbe con la nomina di un dittatore (ben cinque nel periodo), a significare di come fossero considerate serie queste minacce dai romani. Comunque nel 420 a.C. i plebei ottennero di poter accedere alla carica di questore, anche se si deve aspettare il 409 a.C., perché tre plebei fossero eletti alla carica[34], fino a quel momento ad appannaggio dei patrizi.
A nord Roma dovette fronteggiare la pressione di Veio, sconfitta due volte davanti alle mura della città alleata di Fidene, nel 437 a.C. e nel 426 a.C. (terza dittatura di Mamerco Emilio Mamercino), risolvendo la crisi con la distruzione di Fidene e una tregua ventennale con gli etruschi, mentre a sud continua a farsi sentire la pressione dei mai domati Volsci, capaci di impegnare a fondo i romani nel 423 a.C., malamente condotti dal console Gaio Sempronio Atratino, che per questo fu condannato a pagare una multa di 15.000 assi[35].
La supremazia dei romani sui Volsci non fu comunque mai in dubbio, come dimostrano le vittorie romane ad Anzio nel 408 a.C. e ad Anxur[36] nel 406 a.C., conquistata e saccheggiata dai romani. In questo stesso anno, scaduta la tregua, fu nuovamente dichiarata guerra (la terza) alla città etrusca di Veio[37].
Nel 405 a.C., iniziò il decennale assedio di Veio, dopo che l'anno precedente era stata dichiarata guerra alla potente città etrusca. Da parte loro i Veienti non riuscirono a trovare alleati nelle altre città etrusche.[38]
Il conflitto ebbe una svolta quando nel 403 a.C. i romani iniziarono a costruire fortini per controllare il territorio veiente, e terrapieni e macchine d'assedio (vinea, torri e testuggini) per stringere l'assedio alla città. La messa in opera di queste opere, comportò la necessità di mantenere i soldati in armi, anche durante l'autunno e l'inverno, quando tradizionalmente i cittadini-soldati tornavano in città per attendere alle proprie cose, per evitare che le stesse, lasciate incustodite, fossero disfatte o distrutte dai nemici.
Nonostante la decisa opposizione dei Tribuni della plebe, si giunse alla straordinaria decisione di mantenere l'esercito in armi ad assediare Veio finché questa non sarebbe caduta; ai soldati in armi la città avrebbe garantito il soldo grazie ad una nuova imposizione straordinaria.[39]
Veio dal canto suo trovò l'appoggio dei Capenati e dei Falisci, nel 402 a.C.[40] e nel 399 a.C.[41], appoggio che inizialmente non riuscì ad allentare la pressione dell'assedio romano.
Nel 396 a.C. però i Capenati e i Falisci riuscirono a sorprendere i romani in un'imboscata, dove insieme a molti soldati, trovò la morte anche Gneo Genucio Augurino, uno dei 6 tribuni consolari eletti per quell'anno; come per altre situazioni di crisi Roma reagì nominando un dittatore, che questa volta fu trovato nella persona di Marco Furio Camillo[42].
Furio Camillo, dopo essersi coperto le spalle sbaragliando Capenati e Falisci, intensificò l'assedio di Veio, iniziando anche la costruzione di una galleria sotterranea, che arrivava fin sotto la cittadella di Veio. Completata l'opera, il dittatore attaccò in forze e in più punti le mura della città, per dissimulare la presenza di soldati nella galleria sotterranea[43].
«La galleria, piena com'era in quel momento di truppe scelte, all'improvviso riversò il suo carico di armati all'interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole.»
Veio fu conquistata, con grande bottino per i romani, che con questa vittoria posero le basi della propria supremazia sull'altra sponda del Tevere, fino ad allora controllata da popolazioni etrusche. Ma proprio la questione della suddivisione del bottino, così ingente come mai si era visto a Roma, da dividere tra soldati, cittadini, erario e templi, avrebbe portato ulteriori divisioni all'interno della città.
Durante i 10 anni di assedio, a Roma non mancarono i consueti attacchi dei Volsci, che tentavano di riconquistare Anxur e degli Equi, che però furono facilmente contrastati dalle più organizzate legioni romane.
La caduta di Veio aveva comportato un riequilibrio degli assetti politici delle altre capitali etrusche e delle loro tradizionali tensioni interne: l'ostilità verso Veio era malamente adombrata dalla neutralità manifestata dalle altre città della dodecapoli etrusca gravitante intorno al Fanum Voltumnae: in almeno un caso, questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri).[44] Un altro effetto fu l'accresciuta consapevolezza delle potenzialità, anche militari, della res publica.[44]
Contemporaneamente, verso la fine del V secolo a.C., numerose popolazioni celtiche cominciarono a migrare dall'Europa Settentrionale (a est del Reno ed a nord del Danubio) per insediarsi nei territori dell'attuale Francia, Spagna e Gran Bretagna. Attorno al 400 a.C., infatti, alcune di queste popolazioni raggiunsero l'Italia Settentrionale. E così a minare il clima di fiducia e a mettere in allarme Roma furono proprio i Celti,[45][46] della tribù dei Senoni,[46] i quali attaccarono la città etrusca di Clusium,[47] non molto distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello. Così, quasi senza volerlo,[45] i Romani si ritrovarono ad essere il principale obiettivo di questo popolo calato dal Nord.[48]
I Romani li fronteggiarono in una battaglia campale presso il fiume Allia[45][46] variamente collocata tra il 390 e il 386 a.C. I Galli, guidati dal condottiero Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati[45] e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco,[49][50] prima che gli occupanti fossero scacciati[46][49][51] o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.[45][48][52][53]
L'episodio del Sacco di Roma ebbe l'effetto di indebolire Roma e rivitalizzare la speranza dei popoli confinanti di riuscire ad intaccare la potenza romana.
Nel decennio successivo all'invasione dei Senoni Roma dovette combattere per ribadire la propria superiorità sulle popolazioni confinanti, non solo quelle tradizionalmente nemiche come Volsci, Equi ed Etruschi, ma anche su quelle ritenute alleate, come i Tuscolani, che evitarono la punizione di Roma solo aprendo completamente la città alle truppe condotte da Furio Camillo e ottenendo il perdono dal Senato di Roma. Anche i Prenestini, nel 380 a.C., provarono ad uscire dall'orbita romana, ma furono duramente sconfitti dai romani. L'effetto principale della sconfitta subita dai Galli fu quello di affidare la conduzione delle guerre a dei dittatori, o al tribuno consolare più esperto, come sempre accadde quando tra questi era eletto Furio Camillo.
Le guerre con le popolazioni confinanti non impedirono però che a Roma si sviluppasse una forte dialettica interna, tra Plebei e Patrizi; in questo periodo si ripresentò con forza la questione dei romani tratti in schiavitù per debiti, visto che a soffrirne maggiormente erano i piccoli proprietari terrieri plebei che, a causa delle vicende belliche, cui pure partecipavano, finivano in schiavitù perché non riuscivano ad onorare i debiti contratti.
Il conflitto tra patrizi e plebei portò ad una situazione di stallo tra il 375 a.C. e il 371 a.C., quando a Roma non furono eletti i tribuni consolari, a causa dei veti posti dai tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, come reazione alle politiche ostruzionistiche dei patrizi, contrari alle loro proposte di legge, volte ad equilibrare i rapporti di forza tra i due ordini[54].
Il durissimo conflitto tra plebei e patrizi, trovò un momento di sintesi, con la promulgazione, nel 367 a.C., delle Leges Liciniae Sextiae, che, tra le altre cose, permettevano l'accesso al consolato dei plebei[55].
Nel periodo successivo, e fino al 350 a.C., Roma condusse con successo una serie di campagne militari contro gli Ernici, contro la città etrusca di Tarquinia, cui in diverse occasioni si allearono i Falisci, e successivamente contro i Galli, cui si allearono, in funzione anti-romana, i tiburtini (mentre Ernici e Latini si allearono a Roma).
Durante questo periodo, nonostante la Leges Liciniae Sextiae, i patrizi tentarono, con alterne fortune, di ottenere l'elezioni di candidati patrizi per entrambe le cariche consolari, non esitando a ricorrere all'elezione di un dittatore, unicamente allo scopo di controllare l'elezione consolare, e non, come normalmente accadeva, per far fronte ad un grave pericolo militare.
Dopo gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica.[56] Nel 348 a.C. rinnovò il trattato con Cartagine, già stipulato al tempo del passaggio dalla monarchia alla repubblica, attorno al 509 a.C.
Tra il 343 a.C. e il 341 a.C. Roma dovette affrontare il primo dei tre confronti con il bellicoso popolo dei Sanniti. Causa della prima guerra sannitica, vinta dai romani, il controllo della ricca città di Capua[57]. Tra il 340 e il 338 a.C., Roma dovette combattere una nuova e sanguinosa guerra, la guerra latina, che vinse solo a prezzo di grandissimi sforzi. Vinta la guerra, Roma divenne padrona del Lazio, avendo ottenuto la definitiva supremazia sui Latini.
Nel 326 a.C., poi, si riaprì il conflitto con i Sanniti, la seconda guerra sannitica[58]; si trattò di una guerra ultra ventennale, che vide aspri combattimenti tra sanniti e romani, che subirono anche dei rovesci, come nella famosa battaglia delle Forche Caudine[59]. Lo scontro coinvolse anche i popoli vicini, di volta in volta alleati con i romani o con i sanniti, e per la prima volta Roma si trovò a combattere in Apulia[60] e Lucania[61].
La guerra, la cui iniziativa rimase comunque costantemente in mano ai romani, sembrò potesse volgere a favore dei Sanniti, tra il 310 a.C. e il 309 a.C., periodo in cui riprese lo scontro tra Romani ed Etruschi, e nel quale, per la prima volta, l'esercito romano si avventurò oltre la Selva Cimina[62], in pieno territorio etrusco. I Sanniti ripresero l'iniziativa contro i romani ma furono fermati da questi ultimi nei pressi di Longula[63], mentre gli Etruschi subivano due importanti sconfitte nella Battaglia del lago Vadimone[64] e Perugia[63]; gli Etruschi si arresero e fu loro concessa una tregua trentennale. Con un unico fronte attivo, i romani vinsero la decisiva battaglia di Boviano nel 305 a.C.[65], cui seguì nel 304 a.C. il trattato di pace tra i romani, vittoriosi, ed i sanniti.
Contro i Sanniti Roma combatté, infine, una terza guerra tra il 298 e il 290 a.C., al termine della quale ogni resistenza poteva dirsi annientata. I Sanniti dovettero abbandonare le loro mire territoriali e fornire contingenti di truppe ausiliarie alle legioni romane. Il tempo di liquidare gli ultimi avversari nella regione (lotte con i Galli Senoni, 285-282 a.C.) e Roma si assicurò il predominio nell'Italia centrale.
La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341; 326-304; 298-290 a.C.) assicurò dunque all'Urbe il controllo di buona parte dell'Italia centro-meridionale; le strategie politiche e militari attuate da Roma - quali la fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane e la costruzione della via Appia - testimoniano la potenza di tale spinta espansionistica verso Sud.[66] L'interesse per il dominio territoriale non era infatti una semplice prerogativa di alcune famiglie aristocratiche, tra cui la gens Claudia, ma investiva tutta la scena politica romana, e a esso aderiva l'intero senato assieme alla plebe.[66] A sollecitare l'avanzata verso Sud erano infatti interessi di tipo economico e culturale; a frenarla contribuiva invece la presenza di una civiltà, quella della Magna Grecia, ad alto livello di organizzazione militare, politico e culturale, capace di resistere all'espansione romana.[67]
La strategia romana si basava dunque sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici: a tale fine puntavano le deduzioni coloniarie in terra straniera (Luceria nel 315[68] o 314;[67] Venusia nel 291 a.C.)[67] e l'avanzamento verso Sud della via Appia.[67] A tali processi, che non erano direttamente rivolti verso i centri della Magna Grecia, aveva contribuito in particolare l'opera di Appio Claudio Cieco, che, caratterizzato da una forte sensibilità verso la società greca, fu tra i primi ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un'occasione di profondo arricchimento per l'Urbe.[69] Egli si era reso, in particolare, interprete delle esigenze della plebe urbana, interessata a intessere rapporti commerciali con i mercanti greci e oschi.[70]
Durante e subito dopo le Guerre sannitiche, Roma mantenne un atteggiamento ambiguo nei confronti dei popoli italici più meridionali, i Lucani, che ora appoggiò ora osteggiò secondo le convenienze del momento. Intorno al 303 a.C. siglò un trattato con i Lucani, incoraggiandone le aspirazioni contro Taranto, salvo accordarsi anche con la stessa città greca e sostenerne indirettamente la lotta contro gli Italici. Il doppio gioco era motivato dalla volontà di includere comunque i Lucani nella propria rete diplomatica, in quel momento tutta tesa a piegare i Sanniti, ma senza che veri interessi comuni propiziassero legami più forti.[71] Rispetto all'ordinamento che Roma stava dando alla Penisola, l'assetto dei territori occupati dai Lucani rimase in uno stato fluido, basato su semplici alleanze, fino alle guerre puniche.[68]
Non è possibile determinare con precisione quali fossero i rapporti commerciali che univano Roma con i centri della Magna Grecia, ma risulta probabile una certa compartecipazione di interessi commerciali tra l'Urbe e le città greche della Campania, testimoniata dall'emissione, a partire dal 320 a.C., di monete romano-campane.[70] Non è tuttavia chiaro se tali intese commerciali siano state il fattore o il prodotto delle guerre sannitiche e dell'espansione romana verso Meridione, e non è dunque possibile determinare quale sia stato l'effettivo peso dei negotiatores nella politica espansionistica, almeno fino alla seconda metà del III secolo a.C.[72] A determinare la necessità di un'espansione territoriale verso Sud erano, però, anche le esigenze della plebe rurale, che richiedeva nuove terre coltivabili che l'espansione nell'Italia centrale e settentrionale non era bastata a procurare.[72]
Consolidata la propria egemonia sull'Italia centro-meridionale, Roma arrivò a scontrarsi con le città della Magna Grecia e con la potente Taranto: con il pretesto di soccorrere la città di Thurii, minacciata, Roma violò intenzionalmente un patto stipulato con Taranto nel 303 a.C., scatenando la guerra.
A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., la Magna Grecia cominciò lentamente a tramontare sotto i continui attacchi delle popolazioni sabelliche di Bruzi e Lucani.[73] Le città più meridionali, tra cui Taranto era la più importante grazie al commercio con le popolazioni dell'entroterra e la Grecia stessa, furono più volte costrette ad assoldare mercenari provenienti dalla "madre patria", come Archidamo III di Sparta negli anni 342-338 a.C. o Alessandro il Molosso negli anni 335-330 a.C., per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche[74] che, con la nuova federazione dei Lucani, alla fine del V secolo a.C. si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio.[75] Nel corso di queste guerre i Tarentini, nel tentativo di far valere i propri diritti sull'Apulia, stipularono un trattato con Roma, di consueto collocato nell'anno 303 a.C. ma forse risalente già al 325 a.C.,[76] secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria nel 314 a.C.[77][78] preoccuparono non poco i Tarantini che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell'Apulia settentrionale a causa dell'avanzata romana.[74]
Nuovi attacchi da parte dei Lucani costrinsero, ancora una volta, i Tarantini a chiedere aiuto ai mercenari della "madre patria": fu ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l'ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell'Italia meridionale in Taranto e Siracusa iniziò a svanire a vantaggio di Roma, che nel contempo si era alleata con i Lucani ed era risultata vittoriosa a settentrione su Sanniti, Etruschi e Celti (vedi terza guerra sannitica e guerre tra Celti e Romani).[74][79]
Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., fu Thurii a chiedere per prima l'intervento romano contro i Lucani nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C. In questa seconda circostanza fu inviato il console Gaio Fabricio Luscino per respingere i Lucani, in un primo tempo alleati dei Romani, ma poi ribellatisi, e porre nella stessa Thurii una guarnigione romana. Non passò molto tempo prima che il principe lucano Stenio Stallio fosse sconfitto, come riportano i Fasti triumphales,[80][81] e le città di Reggio (dove fu posta una guarnigione romana di 4 000 armati[81][82]), Locri e Crotone chiedessero di essere poste sotto la protezione di Roma. Quest'ultima si veniva così a trovare proiettata verso il Meridione d'Italia.[74]
L'aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione dell'accordo che le due città avevano firmato diversi anni prima: sebbene le operazioni militari romane fossero state compiute per via di terra, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio; Taranto temeva dunque che il suo ruolo di patronato nei confronti delle altre città italiche venisse meno.[83]
Roma, tuttavia, in aperta violazione degli accordi, forse per la forte pressione esercitata dai negotiatores[81] o forse perché gli accordi stessi erano ritenuti decaduti,[84] nell'autunno del 282 a.C.[85] inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione[86] nel golfo di Taranto che provocò i tarantini;[87] le navi, guidate dall'ammiraglio Lucio Valerio Flacco[88][89] o dall'ex console Publio Cornelio Dolabella,[87] erano dirette a Thurii[83] o verso la stessa Taranto, con intenzioni amichevoli.[88][89] I Tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste[90] in onore del dio Dioniso, in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, credettero che esse stessero avanzando contro di loro e le attaccarono:[88][89] ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire;[87][91] tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.[89][91]
Dopo l'attacco alla flotta romana, i Tarantini, resisi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell'atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata[81] assieme agli esponenti dell'aristocrazia locale.[87][92] In seguito a questi eventi i Tarentini decisero di invocare l'aiuto del re d'Epiro Pirro, che, giunto in Italia nel 280 a.C. con un esercito composto anche da numerosi elefanti, riuscì a sconfiggere i Romani a Heraclea e ad Ascoli, seppure a costo di gravissime perdite; dopo un tentativo fallito di consolidare il suo potere sul Sud Italia invadendo la Sicilia (dove fu respinto dalle città siceliote alleatesi con Cartagine), l'epirota marciò dunque contro i Romani che, riorganizzatisi, erano tornati a minacciare Taranto, ma fu duramente sconfitto a Maleventum nel 275 a.C. e costretto a tornare oltre l'Adriatico. Taranto, dunque, fu nuovamente assediata nel 275 a.C. e costretta alla resa nel 272 a.C.: Roma era così potenza egemone nell'Italia peninsulare, a sud dell'Appennino Ligure e Tosco-Emiliano.
Terminate le guerre contro Pirro e le colonie greche dell'Italia meridionale, Roma aveva ormai ottenuto il controllo della penisola italiana, dagli Appennini settentrionali fino alla Puglia e alla Calabria. I Romani vennero così in contatto con i Cartaginesi, che rappresentavano in quel momento la maggior potenza del Mediterraneo occidentale. Ai Cartaginesi appartenevano oltre ai territori africani, anche quelli di Sardegna e Corsica, oltre a Malta, Pantelleria, parte della Sicilia occidentale (quella orientale era invece sotto il controllo dei Greci, in costante lotta con i Punici) e le Baleari.
Fino a questo momento Roma e Cartagine non si erano mai scontrate, al contrario avevano più volte rinnovato dei trattati di amicizia e alleanza tra loro, che definivano le rispettive zone di influenza. Questo stato di cose cambiò quando Roma, padrona della penisola italica, iniziò a pensare di estendere la sua influenza anche sulla Sicilia, che rappresentava il principale e più vicino "granaio" da cui Roma si poteva approvvigionare per le sue crescenti esigenze.
L'occasione di intervenire negli affari siciliani fu data ai Romani dalla richiesta di aiuto fatta dai Mamertini (mercenari campani), che si erano impadroniti di Messina, ma che poi erano stati posti sotto assedio dai Siracusani di Gerone II.[93] E se i Mamertini, in un primo momento, chiesero l'aiuto cartaginese, quando i Siracusani si ritirarono e la presenza punica si fece sempre più ingombrante, invocarono l'aiuto di Roma, la quale accettò, poiché temeva che Cartagine potesse battere Siracusa ed occupare l'intera isola. Il senato, riluttante a imbarcarsi in un'impresa tanto rischiosa, arrivò ad uno stallo e la questione venne rimessa all'assemblea popolare: qui maggiore voce in capitolo l'aveva la parte mercantile e popolare di Roma, che era anche interessata al possibile controllo delle ricchezze e delle scorte di grano in Sicilia (isola già nota per le risorse soprattutto nelle città greche), nonché alla possibilità di fondare colonie per aprire nuovi mercati e allentare la pressione sociale e demografica nella capitale. Così in assemblea fu deciso di accettare la richiesta dei mamertini. Venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina.[94] I Cartaginesi interpretarono questo intervento come una violazione dei trattati esistenti e dichiararono guerra a Roma, dando inizio alla prima guerra punica.
Dopo una prima fase di scontri terrestri, dove i Romani risultarono vincitori, Roma decise di sfidare i Cartaginesi sul mare, che ne avevano il dominio assoluto, e, approntata un'imponente flotta (con navi dotate di "corvo"), sconfisse i nemici a Milazzo (nel 260 a.C.). Nel tentativo di infliggere una sconfitta decisiva a Cartagine, il console Marco Atilio Regolo, sconfitta la flotta nemica a Capo Ecnomo (256 a.C.), sbarcò in Africa, non molto distante dalla stessa Cartagine, dove fu però sconfitto ed ucciso (nel 246 a.C.).[95] La guerra continuò negli anni successivi, con alterne fortune tra i due contendenti, fino a quando nel 241 a.C., venne approntata da Roma una nuova flotta che, guidata da Gaio Lutazio Catulo, sconfisse nuovamente i Cartaginesi nella decisiva battaglia delle isole Egadi. Sottratto ai nemici il predominio sul mare, i Romani poterono concludere anche le operazioni terrestri, sottomettendo buona parte della Sicilia (a parte Siracusa, che rimaneva indipendente) e costringendo Cartagine alla resa.[96] La guerra era così protratta per oltre vent'anni, dal 264 a.C. al 241 a.C.
Cartagine fu, così, costretta a versare a Roma enormi somme (3.200 talenti euboici in 10 anni[97]) quale risarcimento per la fine della guerra, oltre alla restituzione totale di tutti i prigionieri di guerra senza riscatto.[98] La ricca Sicilia era persa e passata sotto il controllo di Roma (con il divieto per Cartagine di portare la guerra a Gerone II di Siracusa)[99] e, nell'impossibilità di pagare i mercenari libici e numidi che utilizzava, dovette subire una sanguinosa rivolta che richiese 3 anni di sforzi ed efferatezze per essere domata.[100] Approfittando di questa rivolta inoltre Roma occupò la Sardegna (238 a.C.) e la Corsica (236 a.C.),[101][102] costringendo Cartagine a dover pagare un ulteriore indennizzo di altri 1.200 talenti per evitare un riaccendersi della guerra che la città non poteva assolutamente permettersi.[103][104] Ciò venne visto come una ferita umiliante dai cartaginesi, che però non poterono far altro che accettare la sconfitta senza aver combattuto.
Terminata con successo la prima guerra punica, il Senato romano dibatteva non sul "come" o sul "se" allargare la dominazione, ma sul "dove" indirizzare le capacità belliche e le incredibili risorse economiche che stavano arrivando all'Aerarium. Decise alla fine di indirizzarle in tutte le direzioni.
Iniziò così la penetrazione nella Pianura Padana, per sbarrare la strada ai Liguri che cercavano la via del sud e per fermare definitivamente il pericolo dei Galli.[105] Qualche anno più tardi, dopo aver fermato un'altra invasione celtica che si era spinta fino a Chiusi in Etruria (quella dei Galli Boi e degli Insubri dell'attuale Lombardia) nella battaglia di Talamone (225 a.C.),[106] le legioni passarono all'offensiva nella pianura padana, riportando una grande vittoria presso Clastidium (nel 222 a.C.), che fu seguita dalla deduzione delle colonie di Piacenza e Cremona (nel 218 a.C.)[107] oltre alla costruzione di arterie stradali che collegassero i nuovi territori con Roma, come la via Flaminia (nel 220 a.C.).[108]
Contestualmente cercava di dare sfogo alle necessità di fornire la terra ai reduci con la creazione di varie colonie, iniziando a dar vita ad una politica che fosse attenta all'attività della regina Teuta che, alla testa dei pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico (nel 230-229 a.C.).[109] Roma riuscì a sconfiggere i pirati illirici, sottoponendo poi buona parte dell'Illiria a tributo e cominciando la penetrazione in quel territorio. L'intervento romano fu risolutivo, poiché nell'arco di dieci anni la pirateria illirica fu debellata.[110] Questo nuovo scenario diede la possibilità a Roma di affacciarsi nella parte orientale del Mediterraneo, entrando in contatto diretto con le città-stato della Grecia, della Macedonia, della Lega etolica sottoposte in varia misura agli attacchi dei pirati e in lotta fra di loro.[109]
Risolto in qualche modo il problema generato dai mercenari,[100] Cartagine cercò una via per riprendere il suo cammino storico. Il governo della città era diviso principalmente fra il partito dell'aristocrazia terriera, capeggiato dalla famiglia degli Annone da una parte, e il ceto imprenditoriale e commerciale che faceva riferimento ad Amilcare e in genere ai Barcidi. Annone propugnava l'accordo con Roma e l'allargamento del potere cartaginese verso l'interno dell'Africa, in direzione opposta alla città rivale. Amilcare vedeva nella Spagna, dove Cartagine già da secoli manteneva larghi interessi commerciali, il fulcro economico per la ripresa delle finanze puniche.[111]
Politicamente sconfitto Amilcare, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella repressione della rivolta dei mercenari, non ottenendo dal Senato cartaginese le navi per andare in Spagna, prese il comando dei reparti mercenari rimasti e con una marcia incredibile attraversò tutto il nordafrica fiancheggiando la costa fino allo stretto di Gibilterra. Amilcare, che era accompagnato dal figlio Annibale e dal genero Asdrubale attraversò lo stretto di Gibilterra e, seguendo la costa spagnola, la percorse verso oriente alla ricerca di nuove ricchezze per la sua città.[112]
La spedizione cartaginese prese l'aspetto di una conquista, a partire dalla città di Gades (oggi Cadice), sebbene fosse stata inizialmente condotta senza l'autorità del senato cartaginese.[113] Dal 237 a.C., anno della partenza dall'Africa, al 229 a.C., anno della sua morte in combattimento,[113] Amilcare riuscì a rendere la spedizione autosufficiente dal punto di vista economico e militare, tanto da riuscire ad inviare a Cartagine grandi quantità di merci e metalli (grazie ai ricchi giacimenti di metalli della regione appena conquistata) richiesti alle tribù ispaniche come tributo.[112][114] Morto Amilcare, il genero ne prese il posto per otto anni e iniziò una politica di consolidamento delle conquiste.[115] Con patti e trattati si accordò con i vari popoli locali[116] e fondò una nuova città, che chiamò Karth Hadasht, cioè Città Nuova, cioè Cartagine, oggi Cartagena.[117]
Impegnati con i Galli, i Romani preferirono accordarsi con Asdrubale e nel 226 a.C., spinti anche dall'alleata Marsiglia che vedeva avvicinarsi il pericolo, stipularono un nuovo trattato che poneva l'Ebro come limite dell'espansione di Cartagine.[113] Si riconosceva così, in modo implicito, anche il nuovo territorio soggetto al controllo cartaginese.[118] La svolta si ebbe nel 221 a.C., quando Asdrubale fu ucciso da un mercenario gallo[113][119]; l'esercito cartaginese scelse all'unanimità Annibale,[120] che aveva solo 26 anni, come suo terzo comandante in Spagna.[121][122] Una volta radunato il popolo, Cartagine decise di ratificare la designazione dell'esercito.[123][124]
Quando nel 218 a.C. Annibale attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, ma a sud dell'Ebro, il Senato romano dopo alcune esitazioni dichiarò guerra a Cartagine, sancendo l'inizio della seconda guerra punica. Polibio contestava le cause della guerra che lo storico latino Fabio Pittore avrebbe individuato nell'assedio di Sagunto e nel passaggio delle armate cartaginesi del fiume Ebro. Egli riteneva si trattasse soltanto di due avvenimenti che ne sancivano l'inizio cronologico della guerra, ma non le cause profonde della stessa.[125] La guerra fu inevitabile,[126] solo che come scrive Polibio, la guerra non si svolse in Iberia [come auspicavano i Romani] ma proprio alle porte di Roma e lungo tutta l'Italia.