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complesso delle norme di legge e consuetudine che ordinano la vita di una o più collettività in un determinato momento storico Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il diritto, inteso in un senso oggettivo, è il sistema delle norme giuridiche presenti in un ordinamento giuridico ovvero può indicare le norme regolanti un suo settore particolare, quindi inteso come una determinata disciplina, ma lo stesso termine, in un senso soggettivo, è un sinonimo di potere o facoltà[1]; estensivamente, tale termine indica, perciò, anche la giurisprudenza[2].
La storia del diritto muta nei diversi contesti culturali e sociali e, nella storia occidentale, si "intreccia" con l'evoluzione del pensiero filosofico, nel quale, tra le concezioni più antiche, vi è la teoria del diritto naturale, o giusnaturalismo, che, nell'era antica, era stata condivisa da Cicerone - nel De legibus -, e da Ulpiano, mentre, nel medioevo, era stata proposta da Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino, fino ad arrivare alle teorizzazioni della prima età moderna, rappresentate dalle teorie di Ugo Grozio, il quale fonda il diritto naturale sul razionale carattere dell'uomo, considerato l'immutabile fondamento del diritto internazionale; il giusnaturalismo, generalmente, postula l'esistenza di alcuni princìpi eterni, immutabili, iscritti nella natura umana, fondanti il diritto naturale, contrapposto al diritto positivo (identificato con il diritto effettivamente vigente), che dovrebbe tradurre quei princìpi: il metodo adottato dal legislatore sarebbe dunque un metodo deduttivo, che, dai princìpi universali - identificati diversamente nelle varie teorie -, ricaverebbe le norme particolari[9].
Nel Medioevo, precisamente, le Chiese e i vari indirizzi religiosi, generalmente assertori del diritto naturale, tendono ad identificarlo con i princìpi dettati dai testi sacri (la Bibbia, o il Corano, esemplificativamente), mentre gli studiosi laici, come è soprattutto nell'età moderna, identificano tali principi con alcune istanze diverse (di giustizia, equità, oppure coincidenti con le nozioni del popolo o dello Stato)[10].
Nell'età moderna, anche se le idee del giusnaturalismo, nella seconda metà del diciassettesimo secolo, sono state sviluppate ulteriormente nel pensiero del "contrattualismo sociale" di Locke, l'origine del diritto, anche con lo sviluppo della teoria generale del diritto, è stata individuata in alcuni aspetti diversi della natura umana, tra i quali si indicano la morale (Leibniz, Thomasius, Kant) e la forza (Hegel, Savigny), mentre, rispetto alla storia del pensiero e delle diverse concezioni sociali e giuridiche, si assiste all'affermazione del giuspositivismo, soprattutto in Inghilterra, dal diciottesimo secolo al ventesimo secolo, con le teorie di Hobbes, Austin e Hart, arrivando, poi, all'importante teorizzazione giuspositivistica proposta da Kelsen[11].
Verso la fine dell'XIX secolo, con le teorie positiviste, il positivismo giuridico o giuspositivismo rimane lungamente predominante, contrapponendosi al giusnaturalismo, e asserisce che il diritto è, solo ed esclusivamente, il diritto positivo, effettivamente posto - positum: secondo la gran parte degli studiosi giuspositivisti (specie in Italia), il diritto si identifica con la norma giuridica (giuspositivismo normativistico); il diritto dunque, come è nelle citate teorie di Austin e poi sarà nel pensiero di Von Kirchmann, non sarebbe altro che una serie di norme regolanti la vita dei consociati, per assicurarne la pacifica convivenza; il diritto (con i relativi princìpi), rispetto al giusnaturalismo, si sposterebbe, così, dal trascendente all'immanente, appartenendo all'ambito della cultura: il metodo adottato dai giuspositivisti sarebbe, perciò, induttivo e i princìpi del diritto sarebbero ricavati con un'astrazione dalle contingenti norme giuridiche[12].
Un'altra interpretazione, sostenuta da Kelsen, vedeva, invece, il diritto come una mera tecnica sociale, valutandone solo l'efficienza e separandola dalla natura umana, individuando il metodo principale con cui si sarebbe studiato il diritto[13].
I fautori del giuspositivismo e del giusnaturalismo rientrano, però, nella categoria dei "realisti", intesi come coloro che pensano che la realtà e il diritto siano un "dato" oggettivo, esterno, indipendente dall'osservatore, conseguendone che lo studioso si limiterebbe ad indagare e il giudice ad applicare - staticamente - il diritto: le tesi "realiste" sono contestate dai teorici ascrivibili alla corrente del relativismo o scetticismo, che (sulla base delle moderne teorie scientifiche e filosofiche, novecentesche) ritengono che un'osservazione "oggettiva" della realtà non sia possibile, conseguendone che ogni analisi dovrà essere "soggettiva"; il soggetto non si limiterebbe ad "osservare", bensì "(ri)creerebbe" la realtà; i teorici del diritto (i giuristi, costituenti la "dottrina") e i pratici (i giudici, costituenti la giurisprudenza) non sarebbero, così, "indagatori" o "applicatori" di una realtà data, ma, interpretandola, ne diventerebbero i "creatori" e, disquisendo sul diritto, lo "creerebbero", come avverrebbe con il giudice, con l'emanazione della sentenza, inducendosi a configurare una concezione del diritto dinamica - e non statica, come avverrebbe con le ricordate tesi "realiste"[10].
Nel XX secolo, si deve segnalare anche le interpretazioni "costruttiviste", che si reggono, spesso, su un'interpretazione sociologica del fenomeno giuridico: decondo la formulazione data dai giuristi sovietici - alcuni importanti esponenti ascrivibili a questo indirizzo teorico -, al loro I congresso del 1938, l'interpretazione marxista del fenomeno giuridico si compendia nella definizione seguente: "Il diritto è l'insieme delle regole di condotta esprimenti la volontà della classe dominante, legislativamente stabilite, nonché delle sue consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale, la cui applicazione è garantita dalla forza coercitiva dello Stato al fine di tutelare, sanzionare e sviluppare i rapporti sociali e gli ordinamenti vantaggiosi e convenienti alla classe dominante".[14]
Una concezione teorica più moderna - che emerse verso la fine del secolo - fu il costruttivismo giuridico, soprattutto grazie ai teorici anglosassoni e secondo tale teoria l'essere umano osserva, modifica, influenza, interpreta e crea simultaneamente; la realtà è allo stesso tempo scoperta e inventata, osservata e costruita; noi non siamo completamente liberi, ma non siamo neanche completamente vincolati; subiamo pesanti interferenze dalla realtà, ma interveniamo pesantemente a modificarla. Per il costruttivismo, dunque, da una parte l'interprete (giurista o giudice) è ancorato alle norme esistenti, in quanto non può prescindere da esse: egli non può essere interamente creativo, come pretenderebbero gli scettici. D'altra parte è anche vero che egli, interpretando le norme giuridiche a scopo teorico ovvero per applicarle al caso concreto, vi immette sempre qualcosa di suo: influisce su di esse in quanto influisce sulla loro futura interpretazione e applicazione. Il ruolo dell'interprete non è pertanto interamente notarile e passivo, come pretenderebbero i realisti. Il giurista (o il giudice) non si limita solo a interpretare, né solo a creare. Egli interpreta e crea: crea mentre interpreta[10]. E fa entrambe le cose non in maniera arbitraria, ma sempre fortemente vincolato dall'ambiente storico, culturale e giuridico in cui si pone: il diritto, secondo il costruttivismo, è in conclusione un fatto dinamico, un processo (Roberto Zaccaria), una pratica sociale di carattere interpretativo (Ronald Dworkin), in cui norma giuridica e sua interpretazione interagiscono costantemente a favore dei cittadini.
Il termine "diritto" è usato in alcune accezioni differenti nel linguaggio ordinario e della scienza giuridica; il medesimo termine assume, inoltre, un diverso significato nei vari contesti culturali, sociali e giuridici[15]; tra tali accezioni, lo stesso termine, anche con un riferimento al diritto italiano, può essere riferito ai seguenti significati:
Qualora si riferisca all'insieme delle regole vigenti in uno Stato in un determinato momento e rispondenti al bisogno, dei cittadini, di vivere in una società ordinata e tranquilla, il riferimento è al diritto oggettivo, detto anche diritto in un senso oggettivo, reso anche con il termine latino "lex" e con l'inglese "law"[16].
Talvolta, invece, il termine "diritto" assume un significato diverso, corrispondente al concetto del "potere" o della "facoltà"; in questo senso, il diritto, analogamente a ciò che avviene con l'inglese "right" e con il latino "ius", è inteso in un senso soggettivo, riferito ad una particolare situazione giuridica soggettiva, spesso definita nei termini del diritto soggettivo[16].
Il problema di una definizione concreta e specifica ha però impegnato gli studiosi di tutte le epoche, e costituisce ancora un problema aperto, affrontato dalla filosofia del diritto e dalla teoria generale del diritto[19].
Al riguardo, si può citare il pensiero del giurista Stefano Rodotà, che si è accinto a dare una definizione del termine "diritto", definendolo come “apparato simbolico che struttura un’organizzazione sociale anche quando si sa che alcune sue norme sono destinate a rimanere inapplicate”[21].
Una risposta esatta non esiste, anche perché il diritto ha alcune manifestazioni differenti a seconda del modello esaminato - basta pensare alla distinzione tra il civil law e il common law, vigente nei paesi anglosassoni[22].
Con una più complessa definizione, anche richiamando le teorie di Hans Kelsen, si può, perciò, definire il diritto come il regolamento dei rapporti tra gli individui facenti parte di una particolare collettività sociale, assistito dalla garanzia della sua osservanza dal potere di un'Autorita', che "sanziona": ciò può avvenire tramite il diritto penale e il processo penale (diritto processuale penale), oppure può avvenire con la determinazione di altre regole, che i privati devono osservare nei rapporti tra loro (diritto civile), decidendosi con imparzialità sulle controversie tra privati tramite il processo civile (diritto processuale civile), ovvero, ancora, può avvenire, poi, con l'organizzazione dei servizi pubblici e della Pubblica amministrazione (diritto amministrativo), con la facoltà dei cittadini di far rispettare le regole fissate per l'attività della Pubblica amministrazione e degli erogatori dei servizi pubblici, tramite il processo amministrativo e con l'obbligo dei cittadini di contribuire, secondo alcune regole certe (diritto tributario), alle risorse necessarie al funzionamento dei servizi pubblici e della pubblica amministrazione, con la facoltà per i cittadini di far verificare da un giudice la correttezza anche del contributo loro richiesto (processo tributario); il diritto internazionale regola i rapporti tra gli Stati, i cittadini di Stati diversi (diritto internazionale privato) e le Organizzazioni internazionali (diritto delle Organizzazioni internazionali)[23].
La tradizione germanica recente, nella definizione del concetto del diritto, presenta la centralità e la peculiarità di una scienza giuridica unitaria del diritto pubblico, chiamata Staatsrecht (diritto dello Stato), che disciplina, in un modo unitario, coerente e strutturato, il diritto costituzionale, il diritto amministrativo e il diritto internazionale: questa sistematizzazione organica manca nella tradizione italiana del diritto pubblico, nel quale sono più diffusamente e tendenzialmente autonomamente trattati gli aspetti del diritto amministrativo e del diritto costituzionale[24].
La dottrina giuridica italiana - e poi anche il diritto amministrativo italiano - ha elaborato il concetto dell'interesse legittimo, che, per la propria particolarità, deve essere ricordato come un esempio della mutevolezza di alcuni concetti giuridici, considerati nei vari contesti culturali, è un concetto non condiviso in tutte le legislazioni, può definirsi come l'interesse di un singolo (persona fisica o persona giuridica) a che l'operatività dello Stato e delle altre amministrazioni pubbliche avvenga nel rispetto della legge e delle norme giuridiche rilevanti per il loro funzionamento e rileva allorché l'attività dell'ente pubblico venga a ledere l'interesse del singolo, non applicando correttamente le norme disciplinanti la sua attività e, anzitutto, quindi, il procedimento amministrativo, inteso come l'insieme delle norme regolanti l'attività - amministrativa - della pubblica amministrazione, legittimando il privato - che abbia un interesse (definito appunto legittimo) all'osservanza puntuale di queste norme - ad impugnare l'atto della pubblica amministrazione, che ritenga non assunto con il rispetto di tutte le norme, ponendo il contenzioso presso gli organi della giustizia amministrativa, per ottenere l'annullamento totale o parziale dell'atto amministrativo eventualmente illegittimamente assunto[25].
Come per le altre scienze sociali, si suole ripartire il diritto in una serie di discipline differenti, sebbene tale partizione non sia da intendersi in un senso assoluto, ma sia semplicemente operata a scopo didattico o pratico: il confine tra diritto privato e diritto pubblico era già presente, anche se in forma embrionale, all'epoca dei primi giuristi romani. Diventa poi una distinzione teorica solo a partire dal XIX secolo come sistema di divisione tra parte civile e parte politica della società. Il primo sistema ovvero quello privatistico si occupava del civile mentre il pubblicistico del politico. All'inizio perciò erano concepiti come sistemi staccati e a sé stanti anche se solo mettendoli in confronto si potevano capire le differenze.
Una delle principali distinzioni del diritto è tra:
Per fonti del diritto intendiamo l'insieme degli atti e dei fatti idonei a produrre il diritto; tale idea può trovare una teorizzazione e un moderno fondamento concettuale nella teoria dell'ordinamento giuridico di Kelsen:[26] nello specifico, per "atti" si intendono le fonti "frutto" dell'attività di un organo o Autorità aventi il potere di produrre le norme (si può pensare ad un decreto o ad una legge parlamentare); si parla invece di "fatti", quando una norma nasce da un'usanza o un comportamento, che nel corso del tempo si afferma come una regola giuridica all'interno di una comunità[27].
Di ciascuna fonte derivante da un atto possiamo individuare: l'organo che avente il potere di emetterlo (esemplificaticamente, esso può essere del Parlamento o del Governo); lo sviluppo dell'atto stesso; il documento normativo e i principi deducibili dall'interpretazione del testo: ogni ordinamento stabilisce a quale Autorità dev'essere affidata la produzione di una determinata norma giuridica e con quali valori gerarchici, creando così una "piramide" delle fonti[28].
Stando alla teoria delle fonti del diritto, in Italia le norme giuridiche sono originate dai seguenti atti[27].
L'elenco delle fonti interne è dettato dall'art. 2, Preleggi, antecedenti alla vigente Costituzione e per la ratio delle quali questo elenco dovrebbe essere tassativo, anche se quest'obiettivo è stato eroso dalla stessa Costituzione, che ha, inoltre, espunto, dall'ordinamento, le "norme corporative", che, invece, sulla base della lettera del medesimo elenco, sarebbero state una fonte del diritto[28].
Le seguenti fonti hanno un rilievo costituzionale o, comunque, lo stesso rango delle leggi e concorrono ad erodere la portata dell'elenco tipizzato dalle Preleggi[27].
A proposito delle fonti esterne, rileva l'art. 117, co. 1 della Costituzione italiana: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»[27].
Le costituzioni e le leggi variano nei diversi paesi.
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