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civiltà dell'evo antico incentrata sulla città di Roma e da lì diffusasi in Italia e nel Mediterraneo (VIII secolo a.C.-V secolo d.C.) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La civiltà romana è la civiltà fondata nell'antichità dai Romani, una popolazione indoeuropea di ceppo italico e appartenente nello specifico al gruppo dei popoli latino-falisci, stanziatisi in epoca protostorica nell'attuale Lazio,[1] la quale riuscì, a partire dal V secolo a.C., ad estendere il proprio predominio sull'Italia e, successivamente, sull'intero bacino del Mediterraneo e in gran parte dell'Europa centro-occidentale. La suddetta civiltà, passata da una monarchia attraverso una repubblica oligarchica fino a un impero - la cui parte occidentale sopravvisse fino al V secolo e lasciò importanti tracce archeologiche e numerose testimonianze letterarie - plasmò l'immagine di quella che è oggi conosciuta come civiltà occidentale.
Civiltà romana | |
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Massima espansione dell'Impero romano (117) | |
Nomi alternativi | Antica Roma |
Regione | Bacino del Mediterraneo-Arco atlantico-Vicino Oriente |
Periodo | Storia antica |
Date | 21 aprile 753 a.C. (Fondazione di Roma) – 4 settembre 476 (Caduta dell'Impero romano d'Occidente) - 29 maggio 1453 (Caduta dell'Impero romano d'Oriente) |
Sito tipo | Roma |
Altri siti | Costantinopoli |
La civiltà romana è spesso annoverata nell'antichità classica insieme all'antica Grecia, essendo quest'ultima una civiltà che ha ispirato parte della cultura romana. Oltre al suo modello di potere, che è stato emulato o ispirato da innumerevoli principi, la civiltà romana ha contribuito enormemente allo sviluppo del diritto, delle istituzioni e della legislazione, nonché della guerra, dell'arte, della letteratura, dell'architettura, della tecnologia e delle lingue del mondo occidentale.
Sull'origine del nome Roma sono state formulate diverse ipotesi[2]; il nome potrebbe derivare:
L'origine del nome della città, e quindi del popolo che la abitava, era incerta anche in età regia. Servio, grammatico a cavallo tra il IV e il V secolo d.C., riteneva che il nome potesse derivare da un'antica denominazione del fiume Tevere, Rumon, dalla radice ruo (a sua volta proveniente dal greco ῥέω), scorro, così da assumere il significato di Città del Fiume. Ma si tratta di un'ipotesi che non ha riscosso molto successo.
Gli autori di origine greca, primo fra tutti Plutarco, tendevano naturalmente ad autocelebrarsi come i civilizzatori e i colonizzatori del bacino del Mediterraneo, e quindi insistevano sulla lontana origine ellenica della città. Una prima versione fornita da Plutarco vede la fondazione di Roma dovuta al popolo dei Pelasgi, i quali una volta giunti sulle coste del Lazio, avrebbero fondato una città il cui nome ricordasse la loro prestanza nelle armi (rhome)[11]. Secondo una seconda ricostruzione dello stesso autore, i profughi troiani guidati da Enea arrivarono sulle coste del Lazio, dove fondarono una città presso il colle Pallantion a cui diedero il nome di una delle loro donne, Rhome[12]. Una terza versione sempre di Plutarco offre altre ipotesi alternative, secondo le quali Rome poteva essere un mitico personaggio eponimo, figlia di Italo, re degli Enotri o di Telefo, figlio di Eracle, sposò Enea o il di lui figlio, Ascanio[13].
Una quarta versione vede Roma fondata da Romano, figlio di Odisseo e di Circe; una quinta da Romo, figlio di Emazione, giunto da Troia per volontà dell'eroe greco Diomede; una sesta da Romide, tiranno dei Latini, che era riuscito a respingere gli Etruschi, giunti in Italia dalla Lidia e in Lidia dalla Tessaglia[13]. Un'altra versione fa della stessa Rome la figlia di Ascanio, e quindi nipote di Enea. Ancora una Rome profuga troiana giunge nel Lazio e sposa il re Latino, sovrano del popolo lì stanziato e figlio di Telemaco, da cui ebbe un figlio di nome Romolo che fondò una città chiamata col nome della madre[14]. In tutte le versioni si ritrova la stessa eponima chiamata Rome, la cui etimologia proviene dalla parola greca rhome con il significato di "forza". Le fonti citano anche altri possibili eroi eponimi come Romo, figlio del troiano Emasione, o ancora Rhomis, signore dei Latini e vincitore degli Etruschi.
Secondo altre interpretazioni di un certo interesse, il nome ruma sarebbe di origine etrusca, in quanto non ne è stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua non-indoeuropea della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e a un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na[15], divenuto in latino Romilius. Il nome Romolo sarebbe quindi derivato da quello della città, e non viceversa.
In ogni caso, la tradizione linguistica assegna al termine "ruma", in etrusco e in latino arcaico, il significato di "mammella", come è confermato da Plutarco, il quale, nella Vita di Romolo racconta che:
«Sulle rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come pensa la maggioranza degli studiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti erano soliti ritirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzogiorno, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma la mammella: ancora oggi chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini»
Questa interpretazione del termine ruma è quindi strettamente collegata con i motivi che hanno portato alla scelta, come simbolo della città di Roma, di una lupa con le mammelle gonfie che allatta i due mitici gemelli fondatori.
I primi Re di Roma appaiono soprattutto come figure mitiche. A ogni sovrano viene generalmente attribuito un particolare contributo nella nascita e nello sviluppo delle istituzioni romane e nella crescita sociopolitica dell'urbe di Roma[16]. Contemporaneamente, venivano fondati i primi edifici di culto e si insediavano sui colli periferici gli abitanti delle vicine città che venivano man mano conquistate e distrutte. Una fase importante avvenne nel VII secolo a.C., al tempo attribuito ad Anco Marzio, quando venne creato il primo ponte sul Tevere, il Sublicius e venne protetta la testa di ponte ovest con un insediamento sul Gianicolo. Nello stesso periodo egli, secondo la tradizione, avrebbe fatto costruire il porto di Ostia alla foce del fiume, e lo avrebbe collegato con una strada che eliminò tutti i centri abitati sulla riva sinistra: lo scavo di Decima ha dato fondamento a questa tradizione, poiché è stato notato come lo sviluppo della sua necropoli si arresti bruscamente alla fine del VII secolo.
Lo sfruttamento delle potenzialità della posizione privilegiata dell'insediamento e la sua urbanizzazione può spiegare l'intervento puntuale degli Etruschi, divenuti consapevoli della posizione chiave della città: nel VI secolo a.C. i re appartennero a una dinastia etrusca, che segnò la definitiva urbanizzazione della città. Le mura serviane (nel tracciato che coincide quasi perfettamente con il rifacimento del IV secolo a.C.) cinsero una superficie di 426 ettari, per una città, divisa in quattro tribù territoriali (Palatina, Collina, Esquilina e Suburbana o Succusana)[17], che era la più ampia della penisola italica di allora[18]. Il periodo di grande prosperità per la città sotto l'influenza etrusca degli ultimi tre re è testimoniato anche dalle prime importanti opere pubbliche: il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio (il più grande tempio etrusco a noi noto), il santuario arcaico dell'area di Sant'Omobono, e la costruzione della Cloaca Maxima, che permise la bonifica dell'area del Foro Romano e la sua prima pavimentazione, rendendolo il centro politico, religioso e amministrativo della città. Un altro canale drenò Vallis Murcia e permise, sempre per opera dei Tarquini, di costruire il primo edificio per spettacoli al Circo Massimo.
L'influenza etrusca lasciò a Roma testimonianze durevoli, riconoscibili sia nelle forme architettoniche dei templi, sia nell'introduzione del culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) ripresa dagli dèi etruschi Uni, Menrva e Tinia. Roma non perse mai però la sua forte componente etnica e culturale latina: per questo, anche alla fine dell'età regia, non si può mai parlare di città etrusca a tutti gli effetti.
L'espansione territoriale nella zona circostante all'inizio dell'età repubblicana ci è tramandata dal testo del primo trattato con Cartagine, riportato da Polibio, dove si parla di un territorio dipendente da Roma che si estendeva fino al Circeo e a Terracina.
Espulso dalla città l'ultimo re etrusco e instaurata una repubblica oligarchica nel 509 a.C., per Roma ebbe inizio un periodo contraddistinto dalle lotte interne tra patrizi e plebei e da continue guerre contro le popolazioni italiche: Etruschi, Latini, Volsci, Equi. Divenuta padrona del Lazio, Roma condusse diverse guerre (contro Galli, Osco-Sanniti e la colonia greca di Taranto, alleatasi con Pirro, re dell'Epiro) che le permisero la conquista della penisola italica, dalla zona centrale fino alla Magna Grecia.[19] Allo stesso tempo Roma fece dell'Italia, dal Rubicone allo stretto di Messina, il suo territorio metropolitano.[20]
Il III e il II secolo a.C. furono caratterizzati dalla conquista romana del Mediterraneo occidentale, dovuta alle tre guerre puniche (264-146 a.C.) combattute contro la città di Cartagine, alla sconfitta dei Galli sul Po e alla conquista di Numanzia nella penisola iberica. Dal 200 al 133 a.C., Roma divenne anche una potenza nel Mediterraneo orientale, combattendo tre guerre macedoniche (212-168 a.C.) contro la Macedonia, una contro Antioco e il regno seleucide, conquistando e distruggendo Corinto (nel 146 a.C.), nonché ereditando il Regno di Pergamo (133 a.C.). L'ammissione dei Romani ai giochi istmici di Corinto del 196 a.C., equivaleva all'entrata di Roma nella società delle nazioni di civiltà greca. Vennero, pertanto, istituite, via via, le prime province romane: la Sicilia, la Sardegna e Corsica, la Spagna, la Macedonia, la Grecia (Acaia)[21], l'Africa[22].
Fino alla seconda guerra punica Roma era sostanzialmente una città-stato a capo di una confederazione, a partire dal II secolo a.C. prese campo una crisi che si concluse con la creazione dell'impero. Tra le cause ci furono la crisi economica dovuta alla guerra, che rovinò la classe dei piccoli e medi proprietari terrieri. Il latifondo iniziò a dominare la scena agreste, sostituendo a poco a poco la piccola proprietà. La popolazione proletaria si riversò così in città, andando a ingrossare le file del clientelismo politico delle principali, poche, famiglie senatorie, detentrici anche del potere economico. L'andamento si rivelò inattaccabile e i tentativi di rovescio dei Gracchi o di Saturnino fallirono miseramente. Assottigliatesi le leve militari tra i proprietari terrieri, si dovette creare un esercito di professionisti, che, slegato dalle sorti della Repubblica, finì poi per consegnare il potere nelle mani dei suoi capi.
Nella seconda metà del II secolo e nel I secolo a.C. si registrarono numerose rivolte, congiure, guerre civili e dittature: sono i secoli di Tiberio e Gaio Gracco, di Giugurta, di Quinto Lutazio Catulo, di Gaio Mario, di Lucio Cornelio Silla, di Marco Emilio Lepido, di Spartaco, di Gneo Pompeo, di Marco Licinio Crasso, di Lucio Sergio Catilina, di Marco Tullio Cicerone, di Gaio Giulio Cesare e di Ottaviano[23], che, dopo essere stato membro del secondo triumvirato insieme con Marco Antonio e Lepido, nel 27 a.C. divenne princeps civitatis e gli fu conferito il titolo di Augusto[24].
Istituito de facto l'Impero, che conobbe la sua massima espansione nel II secolo, sotto l'imperatore Traiano, Roma si confermò caput mundi, cioè capitale del mondo, espressione che le era stata attribuita già nel periodo repubblicano. Il territorio dell'impero, infatti, spaziava dall'Oceano Atlantico al Golfo Persico[25], dalla parte centro-settentrionale della Britannia all'Egitto.
I primi secoli dell'impero, in cui governarono, oltre a Ottaviano Augusto, gli imperatori delle dinastie Giulio-Claudia[26], Flavia (a cui si deve la costruzione dell'omonimo anfiteatro, noto come Colosseo)[27] e gli Antonini[28], furono caratterizzati anche dalla diffusione della religione cristiana, predicata in Giudea da Gesù Cristo nella prima metà del I secolo (sotto Tiberio) e divulgata dai suoi apostoli in gran parte dell'impero[29].
Fu Adriano a scegliere come successore, adottandolo, Tito Antonino (dopo la morte prematura di Elio Cesare), il quale era stato proconsole in Asia e che ricevette poi dal senato il titolo di Pio. Quando Antonino scomparve nel 161 la sua successione era già stata predisposta con l'adozione del genero Marco Aurelio Antonino, già indicato da Adriano stesso.
Marco Aurelio, che era stato educato a Roma secondo una cultura raffinata e bilingue (di sua mano è un trattato di meditazioni filosofiche in greco), volle dividere il potere col genero, di nove anni minore, Lucio Vero, già adottato da Antonino Pio. Con lui instaurò una diarchia, dividendo il potere e affidandogli il comando militare nelle campagne in Partia e in Armenia. Nel 169 Lucio morì e Marco Aurelio rimase l'unico sovrano. Scomparve nel 180 durante l'epidemia di peste scoppiata nel campo militare di Carnunto, vicino all'attuale Vienna (Vindobona), durante le dure lotte contro i Quadi e i Marcomanni. Il principe-filosofo, che aveva cercato, ispirandosi a Adriano, di presentarsi come un imperatore saggio e amante della pace, aveva paradossalmente trascorso tutti gli ultimi anni di governo in dure campagne militari, nell'affannoso compito di riportare la sicurezza entro i confini dell'impero. Gli successe il figlio Commodo, che cercò di imporre un'autocrazia ellenizzante. Commodo, era stato associato al potere col padre Marco Aurelio nel 177. Con lui si concluse il periodo degli imperatori adottivi, anche se non c'era mai stato un preciso schema istituzionale dietro le adozioni e forse erano solo divenute indispensabili per la mancanza di eredi naturali ai sovrani del II secolo.
Il governo di Commodo fu per molti versi irresponsabile e demagogico. Dopo aver condotto una pace frettolosa con le tribù germaniche, contro le quali stava lottando al momento della morte del padre, tornò velocemente a Roma. Qui cercò di aumentare il proprio prestigio personale e la propria popolarità con una serie di iniziative discutibili, come le frequenti elargizioni pubbliche di denaro e di altri beni, i costosi spettacoli gladiatori, ecc., che dissanguarono in breve tempo le casse dello Stato. Egli cercò inoltre di imporre un'autarchia sul modello ellenistico-orientale, ammantando la propria personalità di significati religiosi (facendosi identificare col dio Ercole).
Sembrò ignorare i pericoli che si addensavano ai confini dell'impero e quando venne eliminato da una congiura di palazzo (nel 192), lo Stato romano entrò in una profonda crisi per la successione, che viene spesso indicata come l'inizio della parabola discendente del dominio di Roma. Nonostante le prime avvisaglie della crisi, il periodo degli Antonini venne ricordato come un'epoca aurea, di benessere e giustizia rispetto alla grave crisi dei secoli successivi.
Settimio Severo fu il primo imperatore "militare" (e della dinastia dei Severi), poiché salito al potere grazie esclusivamente all'appoggio delle sue legioni, sconfiggendo gli altri pretendenti appoggiati da altre divisioni dell'esercito e imponendo la sua figura al senato, che non poté fare altro che ratificare la sua carica. Il 9 giugno 193 entrò dunque vittorioso in Roma. Con queste premesse le successioni si svolsero da allora in poi quasi sempre in un clima di sovvertimento e di anarchia, con lotte molto spesso armate fra i contendenti e l'arrivo al potere talvolta anche di avventurieri senza scrupoli. La tradizione amministrativa e burocratica statale, corrotta dai favoritismi personali, si andò progressivamente allentando, accentuando la situazione di crisi.
Le contraddizioni interne, aggravate dall'urgenza dei problemi alle frontiere, minacciarono l'autorità imperiale e la sopravvivenza della società e degli assetti tradizionali precedenti, che ne uscirono profondamente sconvolti. La gran parte degli imperatori di questo periodo non fu niente più che una meteora, bloccando di fatto la possibilità di legiferare in maniera continuativa, visto il ridimensionamento di peso del Senato e la tendenza degli imperatori a accentrare nelle proprie mani tutti i poteri considerandosi autocraticamente al di sopra di qualsiasi legge. L'esercito divenne il principale strumento della politica, fautore della fortuna di ciascun imperatore, che per questo ne diveniva "schiavo", dovendo cedere a tutte le richieste dei militari per non soccombere. La prodigalità verso le truppe aggravò ulteriormente le casse dello Stato, già impoverite dall'economia stagnante, regredita in alcune aree a livello di sussistenza (soprattutto nelle province occidentali dove particolarmente frequenti furono le incursioni nemiche). A ciò va aggiunta la penuria di schiavi, per mancanza di guerre di conquista, e la tassazione più forte, resa necessaria per far fronte alle richieste delle legioni e alle necessità per far funzionare l'apparato statale. La moneta si svalutò pesantemente, tanto che Settimio Severo dovette dare impulso alle distribuzioni in natura istituendo l'annona militare, quota fissa dei raccolti (indipendentemente dalla quantità dei raccolti) da destinare allo Stato.
Sotto Settimio Severo e poi Caracalla ed Eliogabalo avvenne una forte orientalizzazione della vita romana, con l'introduzione, tra l'altro, di culti misterici e orgiastici, che sfruttavano le esigenze di evasione mistica e irrazionale dal presente allora molto sentite e già coalizzate dallo stoicismo e dal Cristianesimo, seppure con un'attitudine meno elitaria.
Nel III secolo, al termine della dinastia dei Severi[30] (193-235), iniziò la crisi del principato, cui seguì un periodo di anarchia militare (235-284).
Quando salì al potere Diocleziano (284), la situazione di Roma era grave: i barbari premevano dai confini già da decenni e le province erano governate da uomini corrotti. Per gestire meglio l'impero, Diocleziano lo divise in due parti (nel 286): egli divenne Augusto della parte orientale (con residenza a Nicomedia) e nominò Valerio Massimiano Augusto della parte occidentale, spostando la residenza imperiale a Mediolanum. Egli di fatto consolidava la normalizzazione interna dell'Impero, iniziata con Aureliano. L'impero venne suddiviso ulteriormente in quattro parti (nel 293): i due Augusti, infatti, dovevano nominare due Cesari, a cui affidavano parte del territorio e che sarebbero diventati, successivamente, i nuovi imperatori.[31] Questi nuovi Cesari elessero come loro residenza, Sirmium per l'area greco-balcanica e Augusta Treverorum per quella nord-occidentale. Era la tetrarchia, ideata per disinnescare le lotte ereditarie. In questo sistema Roma era sempre la capitale sacra e ideale, il Caput mundi, ma la sua posizione geografica, lontana dalle bellicose zone di confine, non rendeva possibile un suo uso per funzioni politiche o strategiche. Molti aspetti della vita politica, economica e sociale dell'impero vennero riformati da Diocleziano, dall'esercito al commercio, dalla religione all'organizzazione amministrativa del territorio.
Nella pratica il sistema della tetrarchia durò ben poco, per via degli eserciti tutt'altro che disposti a deporre il potere politico che avevano avuto fino ad allora e che aveva loro valso numerosi vantaggi e privilegi. Già al primo passaggio, con la morte di Costanzo Cloro (306) le truppe stanziate in Britannia acclamarono suo figlio Costantino I, che diede il via a una guerra civile con gli altri tre pretendenti. Dopo aver battuto Massenzio e Massimino, restarono Licinio e Costantino che stipularono una pace. Ma nove anni dopo, nel 324, Costantino attaccò e sconfisse Licinio, che venne relegato in Tessaglia dove morì in seguito, assassinato dopo essere stato accusato di complotto. Il sistema tetrarchico non venne più restaurato.
Una svolta decisiva si ebbe con Costantino, il quale, soprattutto dopo il 324, centralizzò nuovamente il potere e, già prima con l'editto di Milano del 313, dette libertà di culto ai cristiani, impegnandosi egli stesso per dare stabilità alla nuova religione. Fece costruire diverse basiliche e consegnò il potere civile su Roma a papa Silvestro I[32].
Costantino ebbe il merito di saper riconoscere le forze emergenti nella società e la capacità di assecondarle a suo favore, creando in prospettiva le premesse per una politica vittoriosa. Colse i sintomi delle richieste di spiritualità che da tempo agitavano la società, a differenza del rigetto delle novità della politica dioclezianea, e rivoluzionò la tradizionale posizione imperiale con l'editto di Milano, che stabiliva una tollerante neutralità religiosa dell'autorità. In particolare (ma non esclusivamente) favorì il cristianesimo, influenzato anche da sua madre Elena, ponendosi come primo sovrano protettore e seguace del nuovo dio, la cui sacralità ammantava la stessa carica imperiale. In questo senso l'imperatore presenziò al concilio di Nicea del 325 e si intromise nelle questioni dottrinali legate alle dottrine cristologiche per mantenere l'unità della Chiesa. Il cristianesimo così perse i suoi motivi rivoluzionari e, in parte, catartici per dedicarsi sempre più alla discussione ideologica, abbandonando al potere civile l'uomo sulla terra.
Costantino inoltre si accorse della vitalità economica e politica dell'Oriente, ormai superiore a quella dell'Occidente, e decise di costruire una seconda capitale in una zona strategica nel punto di passaggio tra Europa e Asia Minore: Costantinopoli. Tra le questioni irrisolte ci furono quella dell'arruolamento dell'esercito, sempre più composto da germani, e le differenze sociali tra città e campagna.
Il cristianesimo divenne così religione ufficiale dell'impero grazie a un editto emanato nel 380 da Teodosio, che fu l'ultimo imperatore di un impero unificato: alla di lui morte, infatti, i suoi figli, Arcadio e Onorio, si divisero l'impero. La capitale dell'Impero romano d'Occidente divenne Ravenna[33].
Roma, che non ricopriva più un ruolo centrale nell'amministrazione dell'impero, venne saccheggiata dai Visigoti comandati da Alarico (410); impreziosita nuovamente dalla costruzione di edifici sacri da parte dei papi (con la collaborazione degli imperatori), la città subì un nuovo saccheggio nel 455, da parte di Genserico, re dei Vandali. La ricostruzione di Roma venne curata dai papi Leone I (detto tradizionalmente defensor Urbis poiché avrebbe convinto Attila, nel 452, a non attaccare Roma) e dal suo successore Ilario, ma nel 472 la città fu saccheggiata per la terza volta in pochi decenni (per opera di Ricimero e Anicio Olibrio).
La deposizione di Romolo Augusto del 22 agosto 476 decretò la fine dell'impero romano d'occidente e, per gli storici, l'inizio dell'era medievale[34].
Il rex era nella Roma arcaica il supremo magistrato, eletto (con l'esclusione di Romolo, re in virtù di fondatore della città) dai patres, i capifamiglia delle gentes originarie, per reggere e governare la città. Non esistono riferimenti riguardanti un principio ereditario nell'elezione dei primi quattro re latini, mentre per i successivi tre re etruschi fu stabilito un principio di discendenza matrilineare. Di conseguenza gli storici antichi ritennero che i re fossero scelti tenendo conto delle loro virtù. Per gli storici antichi è difficile definire con precisione i poteri dei re, a cui attribuiscono funzioni uguali a quelle dei successivi consoli d'età repubblicani. Alcuni studiosi moderni hanno ipotizzato che il potere supremo fosse del popolo e che il re fosse solo il capo esecutivo, mentre per altri il sovrano aveva il potere assoluto, mentre al Senato e al popolo non rimaneva che un ruolo secondario di controllo. Le insegne del potere del re erano dodici littori recanti fasci dotati di asce, la sedia curule, toga rossa, le scarpe rosse e il diadema bianco sul capo.
Presupponendo che il sovrano avesse avuto i poteri che tradizionalmente sono attribuiti a questa figura, egli sarebbe stato: capo con potere esecutivo, comandante in capo dell'esercito, capo di Stato, pontefice massimo, legislatore e giudice supremo. Quando un sovrano moriva, Roma entrava in un periodo chiamato interregnum. Il supremo potere dello Stato andava al Senato, che era responsabile di trovare un nuovo re e che si riuniva in assemblea, scegliendo uno dei suoi membri come interré per un periodo di cinque giorni col compito di nominare il nuovo sovrano di Roma. Terminato questo periodo, l'interré doveva scegliere un altro senatore per un altro periodo di cinque giorni col placet del Senato. Questo processo continuava fino alla nomina di un nuovo sovrano. Una volta che l'interré aveva trovato un candidato adatto a salire sul trono, lo sottoponeva all'esame del Senato e se questo lo approvava, l'interré riuniva i Comizi Curiati, presiedendoli come presidente durante l'elezione. I Comizi potevano accettare ma anche respingere il candidato, che se veniva eletto entrava subito in carica. Prima, però, egli doveva ottenere anche il placet degli dei attraverso gli auspici e poi doveva riunire di nuovo i Comizi per ricevere da loro lʾimperium (solo per i re etruschi, coincidente col comando militare; i re latini avevano invece la potestas). In teoria era dunque il popolo romano a eleggere i loro capi, ma in realtà il Senato aveva un ruolo molto importante nel controllare questo processo. Il re aveva inoltre funzioni sacrali, rappresentando Roma e il suo popolo di fronte agli dei. Come tale egli aveva il controllo sul calendario. Tali funzioni rimasero anche dopo la fine della monarchia nella figura del Rex Sacrorum.
Il comando dell'esercito e il potere giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature.
Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro, e la gratuità. Ad esempio, se l'esercito romano scendeva in campo sotto il comando dei due consoli, questi alternavano i giorni di comando. Mentre i consoli erano sempre due, gran parte degli altri incarichi erano retti da più di due uomini - nella tarda Repubblica c'erano 8 pretori all'anno e 20 questori.
Tra i magistrati un'importante distinzione era quella tra magistrati dotati di imperium imperio; ne facevano parte solo consoli, pretori e dittatori) e quelli che ne erano sprovvisti (sine imperio, tutti gli altri); ai primi erano affiancate delle speciali guardie, i littori. Nel tempo, per amministrare i nuovi territori di conquista senza dover moltiplicare il numero dei magistrati in carica, fu istituita la figura del promagistrato (proconsole, propretore), dotato della stessa autorità del magistrato di riferimento ma formalmente non tale.
Il secondo pilastro della Repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie.
Ciononostante il peso della plebe veniva comunque a essere accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo assembleale (i comizi curiati) costituito da soli patrizi. L'accesso della plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata, varata all'inizio del periodo repubblicano, spinse il ceto popolare a pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli (vedi più avanti) vide tra l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal concilio della plebe.
Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.
Esisteva poi la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione all'annualità e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un singolo dittatore veniva eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la guida dello Stato. Eleggeva un suo collaboratore (che comunque gli rimaneva subordinato) detto maestro della cavalleria (Magister equitum). Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo incarico tornerà a essere praticato nella fase della crisi della repubblica.
Bisogna aggiungere che cultura romana fu influenzata nel corso del V secolo a.C. dai frequenti contatti col mondo greco siciliano e con Siracusa in particolare, l'entrata in vigore del trattato tra Roma e Cartagine (attorno al 500 a.C.) sulla possibilità di inviare navi mercantili nel sud Italia favorì i commerci e l'acquisizione diverse parole relative ai pesi e alle misure, alla monetazione greca, alle contrattazioni private a carattere giuridico e persino ai giochi[35].
Con il termine di Principato si intende nell'ambito della storia romana la prima forma di governo dell'impero. Il principato instaurato nel 27 a.C. da Augusto segnò il passaggio dalla forma repubblicana a quella autocratica dell'Impero: senza abolire formalmente le istituzioni repubblicane, il principe assumeva la guida dello stato e ne costituiva il perno politico. Gradatamente rafforzatasi la forma assolutistica con i successivi imperatori della dinastia Giulio-Claudia e dei loro successori, il principato entrò in crisi con la fine della dinastia dei Severi nel 235 d.C.. La successiva anarchia militare durante la crisi del III secolo condusse alla forma imperiale più dispotica del Dominato.
Augusto, divenuto padrone indiscusso dello Stato romano, assunse progressivamente una serie di poteri che caratterizzarono poi costantemente la figura dell'imperatore:
A questi poteri l'imperatore poteva poi di volta in volta aggiungere le tradizionali potestà repubblicane facendosi regolarmente eleggere a seconda delle necessità nelle varie magistrature. La creazione del regime imperiale non cancellava infatti il precedente ordine repubblicano, ma vi si innestava anzi, sovrapponendovisi. La volontà di non contrapposizione con il precedente ordine veniva chiarita in particolare dalla concezione voluta da Augusto di un imperatore primus inter pares, cioè primo tra uguali.
Il Dominato fu una nuova forma di governo dell'Impero successiva al Principato. Tale forma di governo era caratterizzata dal dispotismo: l'imperatore, non più contrastato dai residui delle antiche istituzioni della Repubblica romana, poteva disporre dell'Impero come se fosse una proprietà privata, ovvero da padrone e signore, cioè dominus, da cui la definizione di dominatus. La transizione dalle due forme di governo, avviata già a partire con Settimio Severo (poiché è con Severo che compare la dicitura dominus in chiave ufficiale e propagandistica), e poi "amplificata" dal 235 con l'ascesa di Massimino il Trace e perdurata per tutto il periodo dell'anarchia militare, può dirsi completata nel 285 d.C. con l'inizio del regno di Diocleziano, e l'inizio della Tetrarchia. Il dominato fu l'ultima forma assunta dal potere imperiale sino alla fine dell'Impero d'Occidente.
La tetrarchia fu una forma di governo voluto da Diocleziano, imperatore romano dal 284 al 305. Ottenuto il potere, il nuovo imperatore nominò nel novembre del 285 come suo vice in qualità di cesare, un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano, che pochi mesi più tardi elevò al rango di augusto il 1º aprile del 286, formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere e della lotta contro gli usurpatori[36]. Diocleziano, che si considerava sotto la protezione di Giove (Iovio), mentre Massimiano era sotto la protezione "semplicemente" di Ercole (Erculio, figlio di Giove), manteneva però la supremazia. Tale sistema, concepito da un soldato come Diocleziano, non poteva che essere estremamente gerarchizzato.[37]
Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione funzionale e territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nominò come suo Cesare per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente. Il sistema si rivelò efficace per la stabilità dell'impero e rese possibile agli augusti di celebrare i vicennalia, ossia i vent'anni di regno, come non era più successo dai tempi di Antonino Pio. Per facilitare l'amministrazione e il controllo fu potenziata la burocrazia centrale e si moltiplicarono le suddivisioni amministrative, abolendo peraltro le regioni augustee e la divisione in "imperiali" e "senatoriali". Ciascuna delle quattro parti dell'impero, governata da uno dei tetrarchi, faceva capo a una distinta prefettura del pretorio: Gallie, Italia, Illirico, Oriente. Da queste dipendevano poi le Diocesi, in tutto dodici, rette dai Vicarii, nelle quali erano raccolte le 101 provincie, con a capo funzionari imperiali con il rango di correctores o praesides. In pratica il nuovo ordine imperiale disarticolava le vecchie strutture repubblicane accentrando ogni funzione attorno alla figura del sovrano.
In tale sistema l'imperatore assunse con ancor maggiore decisione connotati monarchici, riducendo le residue istituzioni repubblicane a semplici funzioni onorifiche. Il governo venne quindi progressivamente affidato a funzionari imperiali, scelti tra le file della classe dei cavalieri e tra i liberti. Tuttavia la stessa figura imperiale venne moltiplicandosi, con due imperatori titolari, gli Augusti, uno per la pars Occidentalis e uno per la pars Orientalis, spesso affiancati da colleghi di rango inferiore aventi il titolo di Cesare.
Il governo assolutistico di Diocleziano, tra le varie cose, non poteva tollerare in particolare atti di lesa maestà come il rifiuto dei sacrifici dovuti all'Imperatore, per cui il suo regno fu caratterizzato dalla grande persecuzione, l'ultima e la più violenta, contro i seguaci del culto cristiano. Terminata nel 305 la prima tetrarchia con l'abdicazione di Diocleziano e del collega Massimiano, la seconda entrò presto in crisi nel 306 con la morte di Costanzo Cloro, portando a una serie di scontri in Occidente, dai quali emersero vittoriosi Costantino e Licinio, che, facendo leva sul successo della nuova religione cristiana, la legalizzarono nel 313 con l'editto di Milano. Nel 316, poi, Costantino si rese unico imperatore, iniziando la costruzione di una nuova capitale orientale per l'Impero, Nova Roma.
Sotto la nuova dinastia costantiniana il Cristianesimo e la nuova capitale orientale prosperarono a scapito di Roma e dell'antica religione, fino all'avvento di Giuliano, il quale tentò di ristabilire l'uguaglianza tra i culti. Dopo la morte di Giuliano, però, la successiva dinastia valentiniana tornò a favorire il Cristianesimo sino a quando, nel 380, gli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio non promulgarono l'editto di Tessalonica, con cui venne reso unica religione lecita. Nel 392 Teodosio, principale ispiratore dell'editto, rimase poi unico imperatore, ultimo a regnare sull'Oriente e l'Occidente.
Con la sua morte nel 395, infatti, tale suddivisione divenne definitiva e permanente, con la nascita di due separate linee imperiali: quella degli Imperatori romani d'Occidente, poi interrottasi nel 476, e quella degli Imperatori romani d'Oriente, interrottasi nel 1453.
Essere cittadino romano comportava una notevolissima serie di privilegi, variabili nel corso della storia, a creare diverse "gradazioni" di cittadinanza. Nella sua versione definitiva e più piena, comunque, la cittadinanza romana consentiva l'accesso alle cariche pubbliche e alle varie magistrature (nonché la possibilità di votarle nel giorno della loro elezione), la possibilità di partecipare alle assemblee politiche della città di Roma, svariati vantaggi sul piano fiscale e, importante, la possibilità di essere soggetto di diritto privato, ossia di poter presentarsi in giudizio attraverso i meccanismi dello ius civile, il diritto romano per eccellenza.
Alla base della società romana c'erano le gens ovvero gruppi di persone (clan), che condividevano lo stesso nomen gentilizio[38], erano per lo più composte da più familiae, a capo delle quali vi era un Pater familias. Le gens formavano a loro volta le tribù urbane e rustiche.
I cittadini romani (uomini liberi) si dividevano, inoltre, in patrizi e Plebei. A loro volta i patrizi più facoltosi, avevano alle loro dipendenza una serie di Clientes, vale a dire cittadini che, per la loro posizione svantaggiata all'interno della società romana, si trovavano costretti a ricorrere alla protezione di un "patronus" o di un'intera "gens" in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. Il penultimo gradino della società romana era formato dai liberti (ex-schiavi), e più sotto ancora vi erano gli schiavi.
Fu Romolo per primo a dividere la popolazione della Roma quadrata nelle tre tribù sopracitate dei Ramnes, Tities e Luceres. Fu in seguito il re Servio Tullio nel VI secolo a.C. avrebbe diviso la popolazione in cinque classi, secondo il censo, e in centurie. Con tale riforma furono istituite quattro tribù urbane, stabilite quindi su base territoriale e in cui si poteva entrare solo avendo possedimenti terrieri nella zona, quindi ciò escludeva a priori la plebe.
E così le tribù originarie della Roma antica, erano raggruppamenti sociali in cui erano inquadrati i cittadini romani. Istituite in età regia, erano originariamente in numero di tre. Esse erano costituite da dieci curie (dal latino coviria, riunione di uomini; cfr. comizi curiati) ed erano indicate coi nomi di Ramnes, Luceres e Tities. Ogni tribù aveva come capo un tribunus[39], ed era formata da 10 fratrie o curie[40]. Le tre tribù insieme formavano un complesso di un centinaio di gentes originarie.
In una società fortemente militarizzata come quella romana, Servio Tullio a mise in atto una prima riforma timocratica dei cittadini romani atti a prestare il servizio militare (obbligati ad armarsi a proprie spese e perciò chiamati adsidui[41]), suddividendoli in cinque classi (sei se si considerano anche quella dei proletarii[42]) sulla base del censo[43][44], a loro volta ordinati in ulteriori quattro categorie: i seniores (maggiori di 46 anni: anziani) e gli iuniores (tra 17 e 46 anni: giovani), ovvero coloro che rientravano nelle liste degli abili a combattere; i pueri (di età inferiore ai 17 anni: i fanciulli) e gli infantes (di età inferiore agli 8 anni: i bambini) non ancora in età per prestare il servizio militare[45].
In questo nuovo sistema la prima classe, la più facoltosa, poteva permettersi l'equipaggiamento completo da legionario, mentre quelle inferiori avevano armamenti via via più leggeri, e dove le prime tre costituivano la fanteria pesante e le ultime due quella leggera[41]:
Chi era sotto la soglia degli 11 000 assi era organizzato in una sola centuria, dispensata dall'assolvere agli obblighi militari (i cui membri erano chiamati proletarii o capite censi)[48][50][51], tranne nel caso in cui non vi fossero particolari pericoli per la città di Roma. In quest'ultimo caso erano anch'essi armati a spese dello Stato, servendo in formazioni speciali estranee all'ordinamento legionario[52].
Dopo aver così organizzato la fanteria, Servio Tullio passò alla cavalleria, che reclutò in 12 centurie di equites dal fiore dell'aristocrazia cittadina, a cui ne aggiunse altre 6 centurie, che potrebbero coincidere con quelle formate da Tarquinio Prisco e riconducibili ai sex suffragia[53]: in totale 18 centurie[48]. Per l'acquisto dei cavalli l'erario stabilì uno stanziamento annuo di 10 000 assi a centuria, mentre sancì che fossero le donne non sposate a pagarne il mantenimento degli stessi con 2 000 assi annui a centuria. Tale costo fu più tardi trasferito alle classi più ricche[54].
All'interno di una singola tribus vi erano delle gentes originarie, ovvero una sorta di arcaici clan familiari romani che sarebbero esistiti al momento della nascita di Roma. Secondo lo storico Tito Livio, al tempo della fondazione di Roma sarebbe avvenuta la federazione di un gruppo di clan preesistenti sotto l'azione unificatrice di Romolo, a cui si aggiunsero (per le vicende conseguenti al ratto delle sabine) molte famiglie venute al seguito di Tito Tazio, realizzando la fusione del popolo romano con quello dei Sabini. Secondo Tito Livio le gentes originarie sarebbero state un centinaio, distribuite nelle tre antiche Tribù dei Ramnes[55], dei Tities[55], e dei Luceres[55][56][57]. Secondo questa interpretazione Roma sarebbe sorta dall'integrazione di ben tre popoli: Latini, Sabini ed Etruschi.
Più tardi (probabilmente in età repubblicana) alle tribù urbane furono aggiunte anche quelle rustiche[58]. È, inoltre, verosimile che proprio la tribù sia stata culla della consapevolezza politica della plebe, i cui magistrati, detti tribuni, avevano come significato proprio "uomini della tribù". Non è un caso che proprio dal termine "tribus" derivino il nome sia i tribuni della plebe, sia i tribuni militari[59].
Una nuova organizzazione tribale, al di là di quella istituita prima da Romolo (le tre tribù) e ridisegnata da Servio Tullio (con le quattro tribù urbane) risulta documentata solo a partire dal 495 a.C.[58]. A questa data apparterrebbero ventuno tribù, le 4 urbane serviane (Collina, Esquilina, Palatina e Suburana[58]) e 17 rustiche (Camilla, ecc.)[60]. I nomi delle antiche tribù rustiche corrispondevano a quelli delle antiche gentes originarie esistenti o anche estinte, sulla base di distretti territoriali che in origine avevano rappresentato località dove si trovavano le maggiori tenute delle casate gentilizie romane[61].
Nel IV secolo a.C. si stabilì che indipendentemente dalla loro collocazione territoriale, tutte le nuove conquiste fossero attribuite/iscritte a una tribù esistente. Ciò accadde ad esempio per Tuscolo assegnata alla tribù Papiria o a Aricia assegnata a quella Orazia[61].
Nel 241 a.C. le tribù rustiche furono aumentate fino a 31 (per un totale di 35[62], comprese quelle urbane), a causa dell'aumentare della popolazione, dell'estensione della cittadinanza e della fondazione di nuove colonie, e rimasero tali fino all'età imperiale.
Dopo la guerra sociale dell'88 a.C. l'iscrizione alle tribù fu estesa a tutti gli italici. Ma la partecipazione di tutti gli italici alle tribù dette vita a una frammentazione e dispersione che rese complicato il lavoro dei centuriones, fu così che nel I secolo a.C. le loro funzioni furono trasferite al nuovo istituto del municipium, anche se la tribù non fu abolita, continuando ad avere un ruolo nelle elezioni ad esempio dei concilia plebis tributa e dei comitia tributa.
A Roma la donna era considerata quasi pari all'uomo: entrambi i genitori avevano pari obblighi nei confronti dei figli e la donna poteva accompagnare il marito a una festa, a patto che mangiasse seduta e non sdraiata come era norma per gli uomini. In età regia era sottomessa al padre e al marito, mentre verso la fine della Repubblica e in età imperiale le donne di condizione elevata potevano svolgere una vita indipendente, ottenere il divorzio e risposarsi, mentre quelle delle classi basse erano rimaste sotto la soggezione maschile, con eccezioni delle prostitute, che pur essendo al gradino più basso (con l'eccezione delle donne schiave), avevano una discreta libertà. Una certa indipendenza avevano le donne sacerdotesse dei vari templi. Non mancarono tuttavia le limitazioni poste dal diritto romano alla capacità giuridica delle donne: esse non avevano lo ius suffragii e lo ius honorum, ciò che impediva loro di accedere alle magistrature pubbliche. Anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse su di lei la tutela. I giuristi latini spiegavano le limitazioni alla capacità giuridica attribuendo alla donna romana qualità negative come l'ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo). Basti pensare che le donne romane non avevano diritto al nome proprio. Alla nascita infatti al maschio venivano assegnati tre nomi: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Tra la fine del I a.C. e i primi anni dell'impero nel diritto romano fu introdotto l'istituto del matrimonio sine manu, che determinava una maggiore indipendenza della donna, che, pur continuando a rimanere sotto la potestà del padre, non ricadeva sotto quella del marito o degli uomini della famiglia acquisita. Nel campo del diritto privato era inoltre negata alle donne la patria potestas, prerogativa esclusiva del pater, e conseguentemente la capacità di adottare. Il principio è espresso per il diritto classico dal giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni: Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent ("Le donne non possono affatto adottare, perché non hanno potestà neanche sui figli naturali"). Sempre da Gaio si apprende che alle donne, con l'eccezione delle Vestali, non era consentito in epoca arcaica di poter fare testamento. Tale ultima limitazione venne però abrogata già in epoca repubblicana. Eva Cantarella (Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, pp. 133–146) afferma che, a differenza delle donne greche, la cui emancipazione rimase essenzialmente immutata fino all'ellenismo, la condizione delle donne romane subì nel corso dei secoli cambiamenti assai profondi. Infatti, partendo da una totale mancanza di autonomia, all'età di Augusto raggiunsero un buon grado di emancipazione.
Le relazioni tra patrizi e plebei arrivarono talvolta a punti di grande tensione nell'età dell'alta e media repubblica, tali da portare i plebei ad abbandonare la città, portandosi dietro famiglia e beni mobili, e accampandosi sulle colline fuori dalle mura. Queste secessioni ebbero luogo nel 494 a.C. (secessio plebis), nel 450 a.C., e attorno al 287 a.C. Il loro rifiuto di continuare a cooperare con i patrizi portò a cambiamenti sociali in ogni occasione. Nel 494 a.C., a soli quindici anni dalla fondazione della Repubblica, i plebei per la prima volta poterono eleggere due rappresentanti, ai quali diedero il titolo di tribuno. La "plebe" giurò di tenere i suoi capi 'sacrosanti', cioè inviolati, durante il mandato del loro incarico, e di uccidere chiunque avesse fatto loro del male. La seconda secessione condusse a un'ulteriore definizione legale dei loro diritti e doveri (la redazione delle Dodici Tavole della legge) e portò il numero di tribuni a 10. Soltanto a metà del IV secolo a.C. le magistrature furono aperte ai plebei. La terza secessione portò alle Lex Hortensia, che diede al voto del Concilium Plebis (Concilio dei plebei) la forza della legge - chiamato oggi "plebiscito".
Il conflitto di classe interno, paradossalmente, favorì l'espansione esterna: la conquista di nuovi territori permetteva di distribuire nuove terre tra la plebe e di "incanalare" verso l'esterno le tensioni, stimolando la coesione sociale (non diversamente da quanto accadeva alle nazioni europee di inizio Novecento alle soglie della prima guerra mondiale). Questo contesto, unitamente alla spinta demografica, favorì la ripresa della Repubblica che avviò un processo di espansione e colonizzazione che l'avrebbe trasformata, in due secoli, nella prima potenza della penisola.
La condizione di cittadino latino stava a metà tra quella di civis romanus e quella di straniero. La parola latini inizialmente indicava semplicemente le popolazioni abitanti del Latium vetus (Latini prisci), popolazioni che erano vicine a Roma politicamente ed etnicamente. Una volta inglobate nell'entità romana, si ritrovarono presto in una situazione privilegiata rispetto alle altre popolazioni sottomesse: in particolare i latini potevano:
Alle città i cui abitanti godevano del ius Latii era riconosciuta l'indipendenza per quanto riguardava la politica interna, quindi eleggevano i loro magistrati e si autogovernavano; però erano vincolate alla politica estera romana ed erano tenute a fornire un contingente di soldati che combattevano a fianco delle legioni, ma in reparti diversi.
Col passare del tempo, e con l'espansione del dominio romano ben oltre i confini del Lazio, il "diritto latino" venne riconosciuto e applicato anche a città non laziali, e che non avevano abitanti di origine latina: il ius Latii passò allora a indicare una condizione giuridica e perse qualunque connotazione etnico-geografica; coloro che ne godevano (e che erano oramai divenuti troppo numerosi) persero però il diritto di votare a Roma[63].
Altri privilegi erano legati alle sopraddette facilitazioni nell'ottenimento per merito della cittadinanza romana. Inoltre i latini che per qualsiasi motivo si trovassero a Roma nel giorno in cui si fossero riuniti i comizi potevano esercitare il diritto di voto (ius suffragii).
Nel tempo lo status di latino stava genericamente a individuare una condizione di cittadinanza privilegiata, ma non quanto quella romana (ancora era inibito l'accesso alle cariche pubbliche): erano quindi latini anche gli abitanti delle colonie create da Roma (latini coloniarii) e gli schiavi liberati in particolari circostanze.
Dopo la guerra latina e il conseguente assorbimento del Latium vetus nello Stato romano (338 a.C.) si vennero a configurare colonie di diritto romano accanto a quelle di diritto latino. Queste ultime erano assimilabili alle città federate con la perdita della cittadinanza originaria per tutti i colonizzatori (romani o latini che fossero), ma con diritto di commerciare liberamente e contrarre matrimonio con cittadini romani.
Oltre 200 anni più tardi fu la volta dei popoli italici, i quali già dal tempo dei Gracchi, avanzarono le loro proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza romana anche a tutti loro, fino ad allora solo Socii. L'insuccesso di questa proposta portò nel 91 a.C. alla cosiddetta guerra sociale, che una volta terminata (88 a.C.), portò i popoli italici, a sud degli Appennini, la tanto desiderata condizione di cittadini romani.
Per regno o popolo "cliente" si intendeva un regno o un antico popolo, che si trovasse nella condizione di "apparire" ancora indipendente, ma nella "sfera di influenza" e quindi di dipendenza del vicino Impero egemonico. Si trattava di una forma di moderno protettorato, dove il regno o il territorio in questione, era controllato (protetto) da uno più forte (protettore).
I Romani intuirono che il compito di governare e di civilizzare un gran numero di genti contemporaneamente era pressoché impossibile, e che sarebbe risultato più semplice un piano di annessione graduale, lasciando l'organizzazione provvisoria affidata a principi nati e cresciuti nel paese d'origine. Nacque quindi la figura dei re clienti, la cui funzione era quella di promuovere lo sviluppo politico ed economico dei loro regni, favorendone la civilizzazione e l'economia. Così, quando i regni raggiungevano un livello di sviluppo accettabile, essi potevano essere incorporati come nuove province o parti di esse. Le condizioni di stato vassallo-cliente erano, dunque, di natura transitoria.
Un "re cliente", riconosciuto dal Senato romano come amicus populi Romani, di solito non era altro che uno strumento del controllo nelle mani della Repubblica, prima e dell'Impero romano, poi. Ciò non riguardava solo la politica estera e difensiva, dove al re cliente era affidato il compito di assumersi l'onere di garantire lungo i propri confini la sicurezza contro infiltrazioni e pericoli "a bassa intensità"[64], ma anche le questioni interne dinastiche, nell'ambito del sistema di sicurezza imperiale[65].
Ma i Regni o i popoli clienti, poco potevano fare contro i pericoli "ad alta intensità" (come sostiene Edward Luttwak), come le invasioni su scala provinciale. Potevano dare il loro contributo, rallentando l'avanzata nemica con le proprie e limitate forze, almeno fino al sopraggiungere dell'alleato romano: in altre parole potevano garantire una certa "profondità geografica", ma nulla di più[66].
In ognuna delle fasi storiche di Roma si può riscontrare il fenomeno della schiavitù. L'entità numerica e l'importanza economica e sociale della schiavitù nell'antica Roma aumentò con l'espansione del dominio di Roma e la sconfitta di popolazioni che venivano sottomesse e molto spesso rese schiave. Soltanto a partire dal Tardo Impero con la conclusione delle guerre di conquista, l'ascesa al potere di imperatori non italici, la diffusione del Cristianesimo e la concessione della cittadinanza romana a molti popoli barbari (in seguito al loro arruolamento nelle legioni romane oppure al pagamento di tributi), il fenomeno della schiavitù cominciò a declinare e poi estinguersi progressivamente.
In lingua latina schiavo si diceva servus oppure ancillus. Il titolare del diritto di proprietà sullo schiavo era detto dominus. Si ha notizia anche di schiavi posseduti da altri schiavi: in questo caso, formalmente, il primo schiavo (detto ordinarius) non era proprietà dell'altro (detto vicarius), ma faceva parte del suo peculium, l'insieme di beni che il dominus gli concedeva di tenere per sé.
Nell'epoca del grande espansionismo romano (II-I secolo a.C.) agli schiavi non era garantito nessun basilare diritto, tanto che un padrone poteva uccidere uno schiavo nel pieno rispetto della legge (ius vitae ac necis). Nel I secolo a.C. vennero, però, istituite le prime leggi a favore degli schiavi: la legge Cornelia, dell'82 a.C. proibì che il padrone potesse uccidere lo schiavo senza giustificato motivo e la legge Petronia, del 32, rimosse l'obbligo dello schiavo di combattere nel Circo se richiestogli dal proprietario. Comunque l'uccisione degli schiavi era un evento molto raro, dato che gli schiavi erano un bene molto costoso e capace di generare rendite[67]. Tuttavia, in caso di grandi rivolte, come le guerre servili che funestarono l'età repubblicana, i Romani non esitavano a punire gli schiavi ribelli con crocifissioni di massa lungo le vie consolari, come monito per gli altri schiavi.
La situazione degli schiavi migliorò soprattutto in età imperiale. Claudio stabilì che se un padrone non dava cure a uno schiavo malato e questi veniva ricoverato da altri presso il tempio di Esculapio, in caso di guarigione diventava libero, se invece lo schiavo moriva il padrone poteva essere incriminato. Il filosofo ispano-romano Lucio Anneo Seneca (di epoca neroniana, contrario anche ai giochi gladiatorii)[68], esortava a non maltrattare e a non uccidere gli schiavi, anche se questo comportamento non comportava un'infrazione diretta della legge romana. Domiziano vietò la castrazione; Adriano la vendita delle schiave ai postriboli, inoltre punì i maltrattamenti inflitti dalle matrone alle loro schiave; Marco Aurelio garantì il diritto di asilo per i fuggitivi nei templi e presso le statue dell'imperatore.
La quantità di schiavi venduti cominciò a declinare progressivamente nel Tardo Impero soprattutto per la conclusione delle grandi guerre di conquista che avevano caratterizzato l'età repubblicana e i primi due secoli dell'Impero. Inoltre le persone cominciarono a servirsi di ogni risorsa legale o sociale per non essere fatte schiave.
Con l'avvento del Cristianesimo, compreso il periodo paleocristiano, nonostante non sia mai stato proclamato un editto imperiale di abolizione della schiavitù, grazie alla decadenza dell'antica religione romana, alla protezione giuridica dello schiavo da parte della Chiesa e al movimento di emancipazione iniziato dagli imperatori pagani[69], le condizioni degli schiavi cominciarono a migliorare e la schiavitù si estinse progressivamente.
Numerose furono poi le guerre civili romane, conflitti che insanguinarono dall'ultimo periodo della Repubblica fino al tardo periodo imperiale:
Come aveva potuto una piccola potenza regionale ancora all'inizio del IV secolo a.C. diventare caput mundi[70] nel giro di 500 anni? La spiegazione non sta solo nell'efficienza militare delle legioni o nella determinazione politica del Senato e del popolo romano. Fu soprattutto il consenso suscitato fra le genti non romane (italiche prima e provinciali poi) a rendere stabile il dominio di Roma per secoli e secoli. I socii italici si convinsero ad aderire alla causa romana dapprima dalla spartizione del successo in guerra, poi (dopo la guerra sociale) dalla partecipazione effettiva alla vita politica dell'Urbe[71]. Per quanto riguarda, invece, il consenso nelle province (che a differenza dell'Italia erano sottoposte a tributum), è interessante la definizione di Santo Mazzarino: «L'impero romano era un'unità supernazionale, di cultura romano-ellenistica, il cui ideale era la pax affidata a un esercito permanente»[72].
Roma non poteva pensare a un'occupazione permanente di tutti i territori conquistati: troppo grande era l'impero e troppo numeroso il personale necessario per un tale disegno. Fu perciò necessario, già in epoca repubblicana, fare ricorso all'elemento locale e in particolare alle classi elevate delle città: in cambio di una leale collaborazione (fiscale, innanzitutto), Roma rafforzò ovunque il potere delle aristocrazie urbane, affidando ai più ricchi il governo delle città e del territorio[73].
Una colonia romana era una comunità autonoma, situata in un territorio conquistato da Roma in cui si erano stanziati dei cittadini romani, legata da vincoli di eterna alleanza con la madrepatria. La più antica fu Antium (oggi Nettuno e Anzio[74]), fondata nel 338 a.C. Inizialmente servivano da avamposto per controllare un territorio che sarebbe stato ulteriormente colonizzato: in questo senso, il ruolo di Aquileia nell'espansione romana verso il nord est fu importantissimo. Verso la fine della Repubblica romana, le colonie servirono soprattutto da territorio abitabile dai proletari o dai veterani dell'esercito romano: in questo modo si riduceva la pressione demografica dell'Urbe.
Esistevano due diversi tipi di colonie: quelle formate da cittadini romani e quelle di diritto latino. Nel primo caso gli abitanti avevano la cittadinanza romana, e quindi il riconoscimento di tutti i diritti, e un'amministrazione cittadina direttamente sotto il controllo di Roma. Nel secondo caso venivano istituite nuove entità statali, con magistrati locali, autonomia amministrativa e, in alcuni casi, con l'emissione di monete, ma comunque con l'obbligo di fornire, in caso di guerra, l'aiuto richiesto da Roma secondo la formula togatorum. Gli abitanti delle colonie latine non erano Cives Romani Optimo Jure, ma possedevano lo ius connubii e lo ius commercii secondo i diritti del Nomen Latinum. Le colonie venivano fondate secondo il diritto latino sia come forma di controllo della diffusione della cittadinanza romana (in quanto considerata superiore a tutte le altre), sia per motivi pragmatici: non essendo direttamente governate da Roma come le colonie di diritto romano ma avendo magistrati propri potevano meglio e più velocemente prendere decisioni per difendersi da pericoli imminenti.
Il processo di romanizzazione, cioè l'assimilazione culturale e politica dei dominati entro il sistema romano, fu rapido ed esteso, comunque, soprattutto nei primi secoli dell'Impero. Il sistema economico e burocratico imperiale forniva, infatti, grandi opportunità di carriera non solo alle élite aristocratiche, ma anche e soprattutto ai cittadini di rango equestre. Tale processo ebbe pieno successo come profondità e durata in Occidente (le province più romanizzate furono la Gallia Narbonense, la Spagna e l'Africa[75]), dove si affermarono la lingua e la cultura latina, fu invece minore in Oriente, dove la lingua greca e la cultura ellenistica rappresentarono un ostacolo insormontabile alla penetrazione della romanità[76].
Lo strumento principale di diffusione attraverso il quale Roma esercitò quell'opera di integrazione e di assimilazione delle province che assicurò per alcuni secoli stabilità e compattezza all'Impero furono le città[77]. Era nelle popolose città dell'impero che risiedevano i ceti privilegiati, largamente integrati al sistema di potere imperiale. Erano le città il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta dalle campagne. Erano le città, infine, il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale.
Il segreto di Roma fu, quindi, la capacità di assimilare le diverse culture su cui dominava e di integrarle in un sistema coerente, che, per quanto ricco di diversificazioni, seppe dare il senso di una comune appartenenza[78].
Il termine provincia, dopo gli ampliamenti del territorio della Repubblica tra la fine del III e il II secolo a.C., passò gradualmente a significare non più la sfera di competenza di un magistrato, ma il territorio sul quale questi esercitava i propri poteri.
L'organizzazione dei nuovi territori annessi alla res publica romana, veniva normalmente realizzata dal generale che li aveva conquistati, per mezzo di una lex provinciae ("legge della provincia" per la "redactio in formam provinciae" o "costituzione in forma di provincia"), emanata sulla base dei poteri che gli erano stati delegati con l'elezione alla carica. La legge doveva quindi essere ratificata dal Senato, che poteva inoltre inviare delle commissioni di legati con poteri consultivi.
La legge stabiliva la suddivisione in circoscrizioni amministrative (spesso denominate conventus) e il grado di autonomia delle città già esistenti. Non sempre tuttavia la legge seguiva immediatamente alla conquista, soprattutto per le province annesse in epoca più antica.
Le province erano governate da magistrati appositamente eletti (pretori) o da consoli o pretori di cui veniva prolungata la carica (prorogatio imperii o "prolungamento del comando": proconsoli e propretori), coadiuvati per l'amministrazione finanziaria da proquestori e da numerosi altri funzionari (cohors praetoria).
Molto noto l'epigramma di Marziale[79] che si lamenta di non poter dormire quanto vuole quando risiede a Roma. Invero i Romani avevano l'abitudine di svegliarsi molto presto, quasi prima dell'alba. Come accade in un villaggio di campagna, prima del sorgere del sole erano tutti in strada affaccendati in rumorose mansioni. I ricchi cercavano di isolarsi dal rumore rifugiandosi negli ambienti della domus più lontani dalla strada, ma anche lì un nugolo di schiavi, svegliati all'alba dal suono di una campana, muniti di secchi d'acqua, di strofinacci (mappae), di scale e pertiche con in cima spugne imbevute per raggiungere i punti più in alto da pulire, di scope (scopae), sono affaccendati nelle rigorose e accurate pulizie della casa. Plinio il Giovane, memore di questi fracassi mattutini, si era fatta costruire la propria stanza da letto separata da un lungo corridoio dalle stanze dove trafficavano i servi[80].
Calzatisi e vestitisi con un pratico amictus, dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua[81], i Romani erano pronti a dedicarsi ai loro affari. Quanto all'igiene della persona non se ne preoccupavano al mattino poiché sapevano che a questa avrebbero dedicato molto tempo alla fine del pomeriggio recandosi al balneum pubblico o privato o alle terme pubbliche. La cura della persona era completata affidandosi al tonsor, il barbiere, privato e costoso per i più ricchi, o pubblico che nella sua bottega o all'aperto in strada, tagliava capelli e sistemava barbe.
L'importanza di un potente era commisurata alla clientela che rumorosamente lo svegliava ogni mattina per la salutatio matutina. Il dominus avrebbe perso in reputazione se non avesse ascoltato le lagnanze o le richieste di aiuto e non avesse risposto ai saluti[82] della folla che lo attendeva dall'alba.
Una rigida procedura regolava questo rito quotidiano della clientela. Il cliens poteva anche andare alla casa del patronus a piedi o in lettiga, ma obbligatoriamente doveva indossare la toga e non azzardarsi a chiamarlo confidenzialmente per nome, ma semplicemente dominus, pena il ritorno a casa a mani vuote. Il turno per ricevere l'elargizione non veniva stabilito in base all'ordine di arrivo ma in base all'importanza sociale, per cui i pretori sopravanzavano i tribuni, i cavalieri i liberi e questi a loro volta i liberti[83].
Le donne non partecipavano a questa assistenza quotidiana né come patrone né come clienti, salvo il caso di vedove che chiedevano per sé quanto il patronus aveva fatto per il cliente ormai defunto oppure quando il cliente si portava dietro a piedi o in lettiga le mogli malridotte e presumibilmente malate per indurre il signore a più generose donazioni[84].
I Romani dividevano normalmente la loro alimentazione in tre pasti quotidiani che agli inizi erano chiamati jentaculum, cena, vesperna e quando quest'ultima sparì, fu sostituita dal prandium. Raramente i Romani dedicavano molta attenzione ai primi due pasti che non erano mai molto nutrienti e il più delle volte ne abolivano uno.
I plebei di livello più basso (schiavi, liberti e stranieri), passavano il tempo nella popina (plur. popinae).
Fin dall'epoca di Romolo si celebravano giochi in onore del dio Conso (Consualia) e corse di cavalli (Equirria), celebrati due volte all'anno nel Campo Marzio. Tarquinio Prisco riorganizzò quelli che sarebbero stati i ludi Romani o magni, facendoli diventare la festa più importante della città, che cadeva attorno alla metà di settembre. I Ludi, più in generale, erano un insieme di giochi gladiatorii, naumachie, spettacoli teatrali e gare equestri, che si tenevano in particolari occasioni, religiose o politiche, e che potevano avere carattere privato o pubblico. Divennero essi stessi eventi religiosi, tanto da trovarli nel calendario romano redatto nel IV secolo da Furio Dionisio Filocalo, calendario conosciuto con il nome di Cronografo del 354.
Molto probabilmente i Romani mutuarono l'usanza di organizzare corse dei carri dagli Etruschi, che a loro volta l'avevano mutuata dai Greci. Secondo una leggenda romana, il primo re di Roma, Romolo, si servì dello stratagemma di organizzare una corsa di carri poco dopo la fondazione della città per distrarre i Sabini. Mentre i Sabini si stavano godendo lo spettacolo Romolo e i suoi catturarono e rapirono le donne sabine.
Nell'antica Roma la principale struttura deputata a ospitare le corse dei carri era il Circo Massimo, situato nella valle tra il Palatino e l'Aventino, che poteva ospitare fino a 250 000 spettatori. La costruzione del Circo Massimo risale probabilmente all'epoca etrusca, ma venne ricostruito attorno al 46 a.C. per ordine di Giulio Cesare, raggiungendo una lunghezza di circa 600 metri con un'ampiezza di circa 225 metri.
Lo svolgimento della corsa era molto simile e quello delle corse greche e la differenza principale era che in ogni giornata potevano tenersi dozzine di corse, e le manifestazioni si protraevano talvolta per decine di giorni consecutivamente. Una gara però si svolgeva sulla distanza di soli 7 giri (ridotti a 5 da Domiziano in poi). La più famosa e migliore ricostruzione di una corsa di carri romana, nonostante non sia in effetti storicamente accurata sotto vari aspetti, si può ammirare nel film del 1959 Ben-Hur.
I posti a sedere al circo erano gratis per i poveri, che in epoca imperiale avevano davvero poco altro da fare, dato che non venivano più coinvolti in problemi politici o militari come avveniva invece in epoca repubblicana. I ricchi invece pagavano per disporre di posti a sedere all'ombra da cui si aveva una visuale migliore e, probabilmente, anche loro trascorrevano la maggior parte del tempo scommettendo sull'esito delle corse. Il palazzo dell'imperatore si trovava nei pressi del Circo Massimo e frequentemente andava egli stesso ad assistere alle gare.
L'anfiteatro è legato ai giochi gladiatori (combattimenti tra gladiatori variamente armati) e alle venationes, ovvero spettacoli che comprendono animali, sia in forma di caccia più o meno ritualizzata, sia in forma di combattimento in cui uomini o animali vengono variamente penalizzati. L'origine di questi giochi risale forse a giochi che si tenevano in occasione dei funerali, ampiamente documentati nell'antichità. Nell'Italia meridionale (in particolare presso i Sanniti) sono descritti combattimenti anche cruenti in occasione delle cerimonie funebri. L'originario collegamento con funzioni religiose si attenuò col passare del tempo.
Questi giochi godevano di una grande popolarità, e affluivano spettatori sia dalle città vicine, sia dalla campagna. L'anfiteatro più grande, il Colosseo, poteva contenere fino a 40 000-50 000 spettatori.
Dopo la diffusione del Cristianesimo i giochi furono osteggiati dalle autorità religiose per la loro disumanità. Già dal IV secolo alcuni anfiteatri iniziarono a essere demoliti (le pietre della summa cavea a Milano furono impiegati per le fondazioni della basilica di San Lorenzo nel IV-V secolo). La popolarità dei giochi durò nel tempo, eludendo sovente le proibizioni emanate dalle autorità. Costantino li vietò fin dal 326; sembra che a Costantinopoli l'interdizione fosse osservata, mentre nel 397 a Roma sono ancora citate le scuole di gladiatori (i ludi). Costanzo II li impose di nuovo, Valentiniano III decretò la fine dei giochi, anche se gli ultimi che si tennero al Colosseo furono celebrati da un regnante barbarico Teodorico nel VI secolo.
La prima naumachia conosciuta è quella organizzata da Giulio Cesare a Roma nel 46 a.C. per il suo quadruplice trionfo. Dopo aver fatto scavare un ampio bacino vicino al Tevere, nel Campo Marzio, capace di contenere vere biremi, triremi e quadriremi, ingaggiò tra i prigionieri di guerra 2 000 combattenti e 4 000 rematori. Nel 2 a.C., per l'inaugurazione del tempio di Marte Ultore, Augusto diede una naumachia che riproduceva fedelmente quella di Cesare: la naumachia Augusti. Come ricorda egli stesso nelle Res gestae[85], fece scavare sulla riva destra del Tevere, nel luogo denominato "bosco dei cesari" (nemus Caesarum), un bacino dove s'affrontarono 3 000 uomini, senza contare i rematori, su 30 vascelli con rostri, e molte unità più piccole.
Claudio nel 52 diede una naumachia su un vasto specchio d'acqua naturale, il lago del Fucino, per inaugurarne i lavori di prosciugamento. I combattenti erano dei condannati a morte. Si sa in particolare da Svetonio[86] che i naumachiarii (combattenti nella naumachia) prima della battaglia salutavano l'imperatore con una frase divenuta famosa: Morituri te salutant. Una tradizione erronea se n'è appropriata per farne una frase rituale dei gladiatori all'imperatore, mentre in realtà viene attestata solo in questa occasione.
Tuttavia, in rapporto ai combattimenti fra truppe, le naumachie avevano la peculiarità di sviluppare dei temi storici o pseudo-storici: ogni flotta che s'affrontava incarnava un popolo celebre per la sua potenza marittima nella Grecia classica o l'Oriente ellenistico: Egizi e Fenici per la naumachia di Cesare, Persiani e Ateniesi per quella augustea, Siculi e Rodii per quella di Claudio. Inoltre, abbisognava di mezzi considerevoli. Questo fattore rendeva la naumachia uno spettacolo riservato a occasioni eccezionali, strettamente legato a celebrazioni dell'imperatore, sue vittorie e suoi monumenti.
I primi teatri dell'antica Roma furono costruiti sull'esempio di quelli greci, nella direzione dell'intrattenimento. Più tardi, alle prime rappresentazioni tipicamente di stampo ellenistico, seguirono anche quelle latine, spesso incluse nei giochi, accanto a combattimenti di gladiatori, ma soprattutto, sin dalle origini collegate alle festività religiose. Sappiamo, infatti, che nel 364 a.C., durante i ludi Romani fu introdotta per la prima volta nel programma della festa una forma di teatro originale, costituita da una successione di scenette farsesche, contrasti, parodie, canti e danze, chiamati fescennina licentia. Durante i fescennini si svolgevano canti travestimenti e danze buffonesche. Il genere, di derivazione etrusca, non ebbe mai una vera e propria evoluzione teatrale, ma contribuì alla nascita di una drammaturgia latina.
La provenienza di molti testi era di origine greca, in forma di traduzioni letterali o rielaborazioni (vertere), mescolate ad alcuni elementi di tradizione etrusca.[87] Era anche d'uso la contaminatio, consistente nell'inserire in un testo principale scene di altre opere, adattandole al contesto. Non di rado i testi erano censurati, impedendo riferimenti diretti alla vita civile o politica, mentre era esaltato il gusto della gestualità e della mimica. Il teatro era rivolto alla popolazione intera, e l'ingresso era gratuito.
Nel mondo greco-italico si assiste alla fioritura di spettacoli teatrali fin dal VI secolo a.C. nei quali prev